Il percorso offerto dal Museo Madre di Napoli per raccontare la figura di Marcello Rumma mostra tutta la forza del potere ricostruttivo affidato a documenti preziosi, a lacerti della memoria che pongono finalmente la giusta luce sugli interessi di un ragazzo curioso, di un mecenate illuminato, di un editore accorto e raffinato. Lettere e articoli di giornale, cataloghi e libri, opere d’arte, fotografie e un raro video del 1968 accompagnano lo spettatore per disegnare “I sei anni di Marcello Rumma 1965-1970” con una accuratezza filologica – la mostra è curata da Gabriele Guercio e Andrea Viliani – che evita la facile celebrazione o lo spettacolo espositivo tout court per focalizzare l’attenzione su un periodo storico tra i più intriganti del secondo Novecento.
Divisa in undici sezioni cronologiche e confluenti, la storia parte da alcuni “Punti di origine” e da “Una didattica aperta”: è possibile scorgere l’impegno di un giovanissimo Marcello che sin dai primi anni Sessanta del secolo scorso affianca suo padre Antonio nella gestione del Collegio Arturo Colautti di Salerno dove avvia un rinnovamento didattico, capace di interagire con nuovi metodi di insegnamento legati al mondo della cultura in movimento.
Dal 1966, con il sostegno critico di Filiberto Menna la rivoluzione intrapresa da Rumma, sempre accompagnato da sua moglie Lia con cui condivide ogni singola avventura, si circonda degli stati generali della critica d’arte e della teoria più brillante, come dimostrano le quattro stazioni della mostra denominate Reinvenzione dei luoghi (Amalfi, 1966), Interrogativi sull’opera (Amalfi, 1967), Alla frontiera (Amalfi, 1968) e Assemblea continua, in cui l’attenzione si sofferma sulle ormai leggendarie rassegne di Amalfi: quella del 1966 curata da Renato Barilli “Aspetti del “ritorno alle cose stesse”, quella del 1967 concepita da Menna e Alberto Boatto “L’impatto percettivo” e quella del 1968 plasmata da Germano Celant “Arte Povera più Azioni Povere” che segue le linee generali di “Con temp l’azione”, il discorso processuale disegnato da Daniela Palazzoli a Torino tra le gallerie Galleria Christian Stein, il Punto e Sperone che precede anche “Op Losse Schroeven” e “When Attitudes Become Form” del 1969.
Man mano che si procede nel viaggio, si giunge a degli ambienti in cui Salerno diventa piazza creativa, centro di dibattito, officina di sperimentazione. Nel settembre del 1967, instancabile e entusiasta, Marcello Rumma contribuisce alla realizzazione della “Prima Rassegna di Scultura Italiana Contemporanea” (allestita sotto i portici del Palazzo comunale di Salerno) e prende la direzione artistica dell’agenzia Einaudi 691 dove l’anno successivo affida a Angelo Trimarco l’organizzazione curatoriale del ciclo “Ricognizione cinque”: una serie di mostre (una al New Design e quattro presso la Einaudi 691) con cui cinque giovani nomi dell’arte – Agostino Bonalumi, Marcolino Gandini, Aldo Mondino, Gianni Ruffi e Gilberto Zorio – dialogano con cinque giovani penne della critica militante – Achille Bonito Oliva, Maurizio Fagiolo, Germano Celant, Renato Barilli e Alberto Boatto.
Cadenzato da una ritmica coinvolgente che si articola appunto tra opere e documenti, il percorso offre anche un focus sulle brillanti pubblicazioni della casa editrice Rumma – le cui due collane (Saggi e Saggine) sono affidate a Barilli, Menna e Aldo Masullo – che rende ancora più vivace l’avventura umana e intellettuale di una persona speciale, di un sognatore poliedrico che non ha mai smesso di credere e scommettere sul presente, di ricercare la sagoma impalpabile del futuro.