Rita Selvaggio: Proviamo a definire a grandi linee la categoria “noise” e il discorso che la riguarda?
Igor Muroni: Il “rumore” nasce come presa di coscienza di un importante cambiamento: il Modernismo. L’Arte dei rumori, scritto nel 1913 da Luigi Russolo, analizza l’evoluzione del rumore che ci circonda — dal silenzio degli antichi all’apparire delle macchine nella società industriale — rivendicandolo come elemento essenziale del linguaggio musicale, non meno dei “suoni determinati” della tradizione. Questa evoluzione della musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine. Al suono, svolto in forma orizzontale, s’introduce la “perpendicolarità” dell’accordo degli intonarumori. Così Russolo introduce le dissonanze che dominano la musica contemporanea e l’avvicinarsi al “suono-rumore”. Nel 1948 a Parigi Pierre Schaeffer definisce la Musique Concrète, affermando che il suono deve essere considerato nella totalità dei suoi caratteri e delle sue proprietà. I suoni e i rumori, provenienti da qualsiasi contesto, vengono registrati con il magnetofono e successivamente elaborati mediante le varie tecniche di manipolazione, miscelazione e montaggio, descritte nei Cinq ètudes de bruits. Un rumore, suono non musicale, con una semplice ripetizione (loop) diventa musica. Tagliando la fase iniziale di un suono si modifica la sua morfologia, facendolo diventare un nuovo suono. Dalla concezione musicale classica, dove il compositore scrive una partitura letta e performata da un’orchestra, Pierre Schaeffer registra dalla tonalità del mondo sonoro e compone un testo riprodotto da lettori di nastro magnetico e diffuso da altoparlanti. L’atto performativo si sposta così dallo strumento musicale alla gestione di apparecchiature elettroniche. Questa innovazione, dove il suono d’ambiente diventa parte del testo sonoro, si è poi ritrovata in diverse forme musicali pop. Un esempio significativo è Alan’s Psychedelic Breakfast, il brano conclusivo dell’album Atom Heart Mother (1970) dei Pink Floyd. Da qui inizia una storia discografica ramificata di generi e provenienze geografiche che porta a entusiasmanti sperimentazioni e concezioni della musica. Solo nei primi anni del 2000 s’inizia a catalogare alla voce “noise” — se non altro perché a un ascolto iniziale proprio di rumore si tratterebbe — la produzione musicale di gruppi provenienti dalla provincia americana, quali Lightning Bolt, Black Dice, Wolf Eyes. Si tratta di una musica caratterizzata dall’impiego massiccio di elementi di distorsione, atonalità, dissonanza e volumi alti, che provocano all’ascolto reazioni fisiologiche e psichiche e pertanto impossibilitata a coinvolgere grandi platee.
RS: Quando il noise entra nella tua pratica artistica e perché?
IM: La mia idea di noise tende a emanciparsi dalla definizione di genere musicale. Con noise intendo un immaginario collettivo che esprime nuove forme di criticità nel rapporto tra reale e realtà: una condizione di fastidio soggettivo e di disagio collettivo. Il carattere pervasivo delle attività comunicative e immaginative nell’epoca mediatica ha da una parte generato il processo d’identificazione della classe media nel consumo di massa e dall’altra determinato il definirsi di un immaginario collettivo popolare o “pop”. La produzione capitalistica di spettacolo è essenzialmente una sostituzione della vita con una merce che la rappresenta, è la sostituzione del vissuto con la sua immagine. L’essere costantemente sottoposto a tale sfrenata produzione, in modo immersivo-passivo, pone l’individuo in una perenne condizione di desiderio bulimico pubblicamente condiviso eppure necessariamente insoddisfatto. In questa prospettiva, intendo per noise la definizione di uno stato fisico nauseabondo conseguente a una condizione di bulimia pop. È in questi termini che la mia pratica abita il territorio noise.
RS: A quale categoria possiamo collegare il noise, per esempio all’happening, alla performance?
IM: Tutta una serie di artisti ha prodotto interagendo con lo spazio inteso come fenomeno, con nuove modalità di lettura e percezione, usando il suono come materiale di costruzione: dalla partecipazione all’interattività, dai Musicircus di John Cage alle improvvisazioni collettive di Cornelius Cardew, fino agli ambienti sonori interattivi di David Rokeby o di Rafael Lozano-Hemmer. All’inizio la mia ricerca si traduceva in live concert di musica sperimentale. Questi, poi, dal linguaggio performativo si sono declinati a quello installativo, dalla scultura sonora al visivo e all’audiovisivo. Il mio lavoro si evolve su un’urgenza di riflessione dei processi partecipativi.
RS: Ti senti anche un musicista?
IM: Ci sono diversi modi di intendere la figura del musicista, emblematico è il lapidario giudizio di Arnold Schönberg su John Cage: “Non è un musicista ma un geniale inventore”. Sostanzialmente, nel mio ambito il problema si pone rispetto a una partitura della dimensione sonora. La mia produzione non avviene attraverso un’impostazione musicale classica che coinvolge un insieme finito di strumenti musicali, anche se non la escludo. Attivo e processo delle sorgenti sonore che definiscono uno spazio sonoro. In questi termini mi considero un musicista.
RS: La ricerca nella dimensione sonora necessita secondo te di un background di conoscenza musicale?
IM: Credo si possa parlare più che altro di una conoscenza che non si limita a una teoria musicale, ma si espande a competenze di fisico-acustica, psico-acustica e a tutta la teoria che sta dietro al suono stesso. È indispensabile per costruire uno spazio sonoro.
RS: Se un artista noise deve produrre anche visivamente, come riesce a tradurre in modo tattile un lavoro che nasce come rumore?
IM: Per quel che mi riguarda, si tratta di un movimento dello sguardo che attiva un’imprevedibile lettura della partitura, la trasposizione di un tessuto sonoro in una grammatica visiva. Le mie sculture sono dei monoliti che definiscono e ribadiscono il corpo fisico del modellato sonoro, invece al negativo le installazioni sonore immergono lo spettatore nel monolitico spazio sonoro. Nella mia personale “Noiser” presso Room Galleria, in uno spazio di un nero assoluto, un potente impianto audio emetteva una traccia sonora composta da frequenze molto basse che si riverberavano sulle superfici definendo una percezione fisica e quasi tattile del suono stesso. Questo vuoto esclusivo originava un corpo non-corpo, una trama acustica che si addensava ripetutamente dando vita a un imponente monolite sonoro, invisibile e al tempo stesso onnipresente, come il mitico minotauro nel labirinto. Il buio era allo stesso tempo disagevole e allettante, come in una vera e propria dark room, dove il corpo tende a prendere altre direzioni rispetto alla mente. Considero invece i monocromi delle partiture vere e proprie, dei testi sonori noise. Traducono la stesura riverberante e la trama dissonante di un magma, sono la trasposizione visiva di uno stato di bulimia pop. Il glitter che utilizzo è la sostanza pop per eccellenza: una partitura massimale della condizione costante propria del luccichio.n