La maestosità del Salone degli Incanti si presta alla bellezza e al senso di perdita percepito innanzi al sublime che questa mostra, con le opere di 82 artistidi e 18 paesi, mette in scena.
Forte è l’impatto concettuale ed emozionale, risolto nel felice equilibrio fra media differenti. Il tutto all’insegna di una bellezza tesa fra natura e cultura, contemplando il sottile ma imperativo contraltare della criticità che sottende la relazione fra paesaggio naturale e antropizzazione. Rauschenberg, Dine, Rosenquist, i classici della fotografia in bianco e nero — Adams, Berengo Gardin, Giacomelli, e poi Marc Quinn, Almond e Collishaw — fino a Oleg Kulik, Ed Ruscha, Olivo Barbieri, accanto ai quali figurano artisti più giovani o del territorio che dimostrano una grande capacità di tenuta, concettuale e stilistica. Basti pensare alle fotografie di Mario Sillani Djerrahian e Sergio Scabar o alle installazioni di Carlo Bach e Stefano Scheda. Difficile trovare equilibri in una grande esposizione e peccato che questa mostra, invece di aprire una nuova stagione sull’arte contemporanea a Trieste, rischi di chiudersi su stessa per lasciare posto all’ennesimo Science Center, già previsto dall’amministrazione comunale.