Della centralità dell’Italia
Pierluigi Sacco: Caro Giancarlo, tu che con Flash Art hai attraversato quattro decenni di arte italiana e internazionale, pensi che ci sia stato un momento in cui l’Italia ha avuto una reale opportunità di acquisire una vera centralità sulla scena internazionale e l’ha persa, oppure la nostra marginalità va considerata un fatto inevitabile? La nostra è una storia di occasioni mancate o di battaglie perse in partenza?
Giancarlo Politi: Certamente la nostra è, come spesso accade, una storia di occasioni mancate ma anche (e questo si dimentica spesso), la vicenda di un Paese che ha perso la guerra, dunque con un cammino in salita. La battaglia però è stata realmente persa tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, allorché stava nascendo il sistema dell’Arte. In quegli anni a New York Leo Castelli (italiano e grande amico dell’Italia e desideroso di collaborare con il nostro Paese) era diventato un riferimento internazionale e poco dopo lo divenne anche la sua ex moglie, la grande Ileana Sonnabend, nei primi anni Sessanta a Parigi e successivamente a New York, attenta all’Italia e amica di galleristi italiani. Ma nella Grande Mela, agli inizi degli anni Settanta, c’era anche Virginia Dwan (successivamente rilevata dal suo direttore, John Weber), tempio del Minimalismo e dell’Arte Concettuale e poco dopo anche Paula Cooper, altro riferimento minimalista e oggettuale. In Germania, a Düsseldorf, oltre al grande Alfred Schmela, che rappresentava Joseph Beuys e il Nouveau Realisme, imperava Konrad Fischer, epicentro del Minimalismo e dell’Arte Concettuale in Europa e che, ricordo, si vergognava di mostrare il lavoro di Gerhard Richter, suo compagno di studi. A Parigi, oltre alla Sonnabend che inizialmente si divideva con New York, iniziava Yvon Lambert e a Londra faticosamente si faceva strada la Lisson. E in Italia? A Roma, allora il centro nevralgico e culturale del Bel Paese, Fabio Sargentini e Plinio De Martiis erano sì un riferimento, ma come spesso accade da noi, giocavano a fare le prime donne con Pascali, Kounellis e Schifano. Un po’ in disparte ma molto snob, operava in solitudine Gian Tomaso Liverani, che con la sua galleria, la Salita, era riuscito a scandalizzare il mondo (non solo romano) con una mostra di maiali vivi in gabbia di Richard Serra e a far impacchettare il Pincio al giovane Christo. A Napoli esordiva, tra mille difficoltà economiche e programmi spesso locali prima di incontrare Beuys, Lucio Amelio. A Torino, dove cercava di consolidarsi l’Arte Povera, Christian Stein e Gian Enzo Sperone presentavano Boetti, Paolini e la Minimal Art americana. A Milano, oltre a Guido Le Noci che con grande e profetica intuizione aveva presentato Yves Klein, Christo e Manzoni, il vero riferimento dell’avanguardia internazionale era Franco Toselli (dapprima in società con Françoise Lambert e che successivamente si staccò per diventare il riferimento della Minimal Art e la cui incidenza è stata troppo presto dimenticata), con grandi intuizioni ma troppo debole e introverso per alleanze strategiche internazionali.
Le grandi occasioni
di Franco Toselli
Ma le grandi mostre dei protagonisti internazionali, soprattutto americani, avevano luogo in via Melzo, da Toselli, incoraggiato e seguito soprattutto da Giuseppe Panza di Biumo che in quegli anni amava e seguiva questi artisti. E quello (anche proprio grazie al conte Panza di Biumo, allora il solo grande collezionista internazionale, che tenne in vita gallerie e giovani artisti oggi mitici: a questo proposito ho vivissimi ricordi personali di quando Panza di Biumo arrivava a New York e gallerie ed artisti — Richard Serra, Walter De Maria, Bob Morris, Sol LeWitt, Dan Flavin, Bob Ryman — entravano in fibrillazione) fu il solo momento di centralità dell’Italia artistica che, con un po’ di coraggio e lungimiranza, avrebbe potuto assumere un ruolo come la Germania (anche lei con una guerra persa ma con diverse energie e motivazioni di riscatto). Invece prevalse la mentalità narcisistica e di prime donne (Sargentini, De Martiis, Sperone, che si accontentavano dei riflettori sotto casa) o di bottega. Dobbiamo riconoscere che Gian Enzo Sperone pensò di giocare un ruolo internazionale partecipando alla galleria a tre a New York (l’allora famosa Fischer/Sperone/Westwater). Idea apparentemente vincente che ben presto naufragò per le intemperanze dei soci. Erano anni quelli in cui con quattro spiccioli si calamitavano le principali gallerie e artisti cult del momento. Ma il sentirsi al centro del mondo stando in casa, impedì ai nostri galleristi più illuminati di intuire l’importanza delle alleanze che in realtà allora apparivano superflue perché imperava l’autarchia. Ma soprattutto penso con rammarico al ruolo non giocato, per mancanza di coraggio e forse di lungimiranza, di Franco Toselli, che con un po’ di disciplina e organizzazione sarebbe potuto diventare uno dei grandi galleristi e mercanti della Terra, al pari di Pace, Paula Cooper, Ileana Sonnabend. Purtroppo (per lui e per noi) le cose andarono diversamente. Perduto quel tram non è stato più possibile riacciuffarlo. Poi fu la volta dei venditori. In primis, Emilio Mazzoli, con ottimi programmi italiani (la Transavanguardia), ma con una forte vocazione mercantile, poca preparazione e nessuna professionalità. A differenza invece di Massimo De Carlo che soffrì fortemente agli inizi ma che, con una informazione e preparazione adeguata, divenne in breve un riferimento internazionale godendone (quasi) subito i frutti economici e di visibilità. Più pavida e reticente, quasi in sordina, anche se spesso di qualità, l’attività di Claudio Guenzani. Più intimo ma abbastanza illuminato il lavoro di Emi Fontana, ahimè, ormai quasi americana. E oggi le nostre gallerie di riferimento, Zero… a Milano e Noero a Torino, tentano alleanze e collaborazioni internazionali, mentre maggiori difficoltà incontra, forse anche per il suo carattere, Francesca Kaufmann. Ottimo programma con seducenti prospettive future quello di Sonia Rosso a Torino, T293 a Napoli e Monitor a Roma. Questa, in breve, caro Pierluigi, dal mio osservatorio, la storia veloce e appena accennata delle gallerie d’arte italiane e del sistema dell’arte dagli anni Sessanta a oggi.
Dei critici e dei curatori
PS: Nel corso del tempo, su Flash Art hanno scritto, ancora giovanissimi e pressoché sconosciuti, molti critici e curatori internazionali che hanno poi fatto molta strada (penso ad esempio a un vecchio numero di Flash Art in cui segnali ai lettori un Dan Cameron poco più che ventenne come una delle grandi promesse del futuro). Da cosa si riconosce il giovane critico o curatore che ha una marcia in più?
GP: Il giovane critico o curatore con una marcia in più è determinato, ambizioso, umile, amico e frequentatore di artisti di riferimento, inizialmente più interessato alla qualità delle sue scelte e della sua sua scrittura che al conto in banca: così è stato Dan Cameron agli inizi ma anche Francesco Bonami, Massimiliano Gioni, Giacinto Di Pietrantonio e ora Andrea Bellini e Marco Scotini: gente inizialmente allenata a tirare un po’ la cinghia ma non a transigere sulla qualità. Ma così furono anche Germano Celant e Achille Bonito Oliva. A differenza della nuova generazione di critici e curatori italiani preoccupati solo della quantità e molto poco della qualità delle loro scelte.
Dell’artista e del suo successo
PS: Sappiamo bene che per portare un artista, per quanto bravo e promettente, ai vertici del sistema occorrono grandi investimenti e quindi grandi capitali. Un gallerista con poche risorse economiche ma con grandi idee e grande fiuto per gli artisti può farcela in qualche modo, e se sì, come? O deve accontentarsi, nel migliore dei casi, di portare acqua al mulino dei grandi galleristi?
GP: Caro Pierluigi, rigetto categoricamente la tua affermazione che farà gongolare galleristi e artisti sfigati, frustrati e demotivati che non aspettano altro di poter sostenere con te che anche in arte solo chi ha soldi e amicizie può farcela. Non è così. E per diventare Gagosian o Jay Jopling (ma anche Massimo De Carlo) non bastano il conto in banca o le relazioni forti. Occorre dimostrare per almeno un decennio che hai occhio infallibile e capacità manageriali. E pochi sanno che dietro Gagosian o Jay Jopling vi è sempre una concomitanza di input (artisti della galleria, studiosi, curatori, collezionisti, amici illuminati). Una scelta importante non è (quasi) mai personale e casuale. L’autorità di queste due gallerie e di altre (Marian Goodman, Barbara Gladstone, Mary Boone, Paula Cooper, Jeffrey Deitch, Andrea Rosen, Metro Pictures, ecc.) è legata alla loro storia, alla loro dedizione all’arte, alle loro grandi capacità di interpretare gli artisti, lo Zeitgeist e i cambiamenti. Gagosian e Jopling hanno iniziato dal nulla: si racconta che Larry (Gagosian), abbronzato playboy della West Coast, invitato ai party di collezionisti, fotografava con la sua Polaroid le opere della collezione, offrendole poi in vendita all’insaputa del proprietario a gallerie o altri collezionisti. Poi tornava dal collezionista e offriva il doppio del valore, avendone già virtualmente ricavato il triplo. Se questa non è creatività… E Jay Jopling, compagno di classe di Damien Hirst al Goldsmiths, divenne suo agente su richiesta di Damien che voleva imitare il successo dell’allora famosissimo gruppo musicale dei Blur, già con un aereo personale, anche loro compagni di classe. E per alcuni anni, prima di imparare e iniziare il mestiere di gallerista, Jay Jopling fu solo l’agente di Damien. Altra geniale spinta innovativa nel sistema dell’arte. Da noi Massimo De Carlo faceva il gallerista di giorno e il farmacista di notte. E quando hai di queste marce in più, credimi caro Pierluigi, non occorrono capitali, perché oggi, a differenza di ieri, non c’è capitale paragonabile all’intelligenza (vedi Bill Gates). Dunque la mia risposta è categorica: per portare un artista ai vertici della piramide e del successo, occorre soprattutto il grande artista e poi forse una buona galleria. Anche se spesso (vedi Maurizio Cattelan) il grande artista traina le gallerie con cui lavora.
Musei come legittimazione o sperimentazione
PS: Un tempo i musei d’arte contemporanea erano i luoghi della legittimazione, del riconoscimento degli artisti al vertice della carriera, oggi sono sempre di più luoghi di sperimentazione che a volte precedono addirittura le stesse gallerie. Quale pensi che sarà il futuro dei musei? Saranno ancora importanti oppure rappresentano un modello ormai superato e in fase di decadenza? E se ci saranno ancora, quale sarà il loro ruolo?
GP: Io ritengo che i musei siano sempre un po’ (non molto) luoghi di legittimazione e non di sperimentazione. Perché la vera scoperta e consacrazione sarà sempre più e solo appannaggio delle gallerie private e delle fiere, anche perché i musei e spazi pubblici, spesso moralistici e a conduzione politica, sono facilmente influenzabili e corruttibili (per una mostra al Guggenheim di New York, ma non solo lì, può essere sufficiente un forte sponsor come tu sai e come alcuni artisti e stilisti italiani possono confermare). E un curatore museale con i suoi due o tremila dollari mensili di stipendio è facilmente ricattabile. Ma tu quando parli di musei forse ti riferisci soprattutto a quegli spazi espositivi agili come il New Museum a New York, al Palais de Tokyo di Parigi o alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Perché il futuro è di questi spazi con bassi costi di gestione, nessuna collezione ed eventi a getto continuo per catturare pubblico. Nuovi musei? Non credo. Solo qualche Museo Nazionale in paesi emergenti (come a Riga, in Lettonia, dove Rem Koolhaas sta costruendo un bellissimo, straordinario spazio museale che ci farà morire di livore, pensando che da noi si sarebbe ricorso al geometra del cantiere, come è accaduto per l’Aeroporto di Malpensa). Creare una collezione internazionale di rilievo ormai è impossibile quasi per chiunque. Dunque lunga vita a code interminabili al MoMA, Pompidou, Tate Modern, Reina Sofia, MoCA, Ludwig, Guggenheim, ecc. Invece spazi e visibilità a grandi collezioni private (Pinault a Venezia, Dakis Joannou ad Atene, Yvon Lambert nel Sud della Francia, ecc.).
Dell’arte come mercato di massa
PS: Nell’intervista che mi hai fatto nello scorso numero, ti dicevo che secondo me l’arte contemporanea si avvia a diventare un mercato culturale di massa. Tu che ne pensi? Pensi che sarebbe più che altro un’opportunità o una minaccia?
GP: Ma l’arte contemporanea è già un mercato di massa. Quello di cui ci occupiamo noi è solo la punta dell’iceberg. Pensa alle televendite (altro fenomeno affascinante e devastante da troppi sottovalutato), le vendite porta a porta, ma soprattutto il mercato locale, fatto di notai, dentisti, farmacisti che comperano le promesse o le stelle locali, sia alla fonte che da corniciai. Pare che tutto questo rappresenti più dell’80% del mercato contemporaneo. Non è mercato di massa questo? Però ci sarà sempre il collezionista illuminato, superinformato e snob che andrà a comperare da Zero…, Noero, Sonia Rosso, T293. E sarà proprio questi che si imbatterà nel nuovo Cattelan o nel nuovo Sasnal. Gli altri potranno trovare solo un pessimo Schifano o un falso Boetti a prezzo triplicato.
Del mercato sommerso e l’Iva al 4%
PS: Molti sostengono che il mercato italiano dell’arte contemporanea sia in buona parte sommerso e che questo si debba soprattutto all’iva del 20% sulle vendite. Secondo te se l’iva fosse portata, come molti chiedono, al 4% si avrebbe finalmente una emersione del mercato oppure il problema rimarrebbe comunque?
GP: Certamente buona parte del sommerso affiorerebbe. Ma non mi faccio illusioni. L’Italiano (talvolta anche a ragione, visti i servizi che riceve) tende ad eludere l’ufficialità. Conosco gallerie con un profilo esteriore molto basso, ma in realtà con un giro di affari enorme e con off shore di 35 metri. Come tu (non) sai l’Italia è il Paese in cui pare che circa il 90% del mercato del Novecento sia in mano a un attempato signore milanese che molti ignorano e pochi conoscono. Tutte le opere di Picasso, Balla, Boccioni, De Chirico, Fontana, ecc., che tu vedi ad ArteFiera a Bologna o altrove e distribuite nelle varie gallerie, sono di proprietà di questo canuto “mister x”, il Grande Vecchio dell’arte italiana. Pertanto non so se basterebbe portare l’iva al 4% per sconfiggere il nostro sommerso artistico.
Di un giovane intelligente e di belle speranze
PS: Se oggi un giovane intelligente, preparato e di belle speranze ti chiedesse un parere, se dedicarsi ad aprire una galleria in Italia oppure continuare a lavorare nella redditizia azienda di papà, tu cosa gli consiglieresti?
GP: A mia figlia Gea consiglierei (dopo studi, frequentazioni ed esperienze adeguate) di aprire una galleria anziché accollarsi il peso di una azienda come Flash Art. In Italia le aziende, soprattutto tendenti alla qualità e alla legalità, sono eccessivamente vessate. Rispetto ad Artforum o Frieze, io sono costretto a operare in condizioni di inferiorità abissale. Una galleria d’arte contemporanea, se ben gestita, con una buona e continua comunicazione, con una sapiente fidelizzazione e un programma di qualità e che non cerchi solo di violentare la cultura del territorio, può aspirare a un ottimo successo. E sono sorpreso talvolta di vedere città ricche (Vicenza, Mantova, Treviso, Padova, Rovigo: sì, proprio il tuo Nord Est) con rarissime gallerie e talvolta nessuna. Vuol dire che non si è lavorato bene. Ma ripeto, occorre una forte volontà di comunicazione attraverso la pubblicità, soprattutto in riviste di settore, la produzione di cataloghi, la spedizioni di inviti, partecipazione alle fiere giuste, ecc. Per mantenere la clientela abituale e acquisirne sempre di nuova. Purtroppo molto spesso le gallerie più propositive (che avrebbero bisogno di maggiore visibilità per rigenerarsi) attuano strategie terroristiche o miopi nei confronti del cliente, come la comunicazione ermetica o inesistente, respingendo il cliente con la voluta omissione dei nomi degli artisti o i titoli delle opere in mostra.
Le gallerie italiane troppo egoiste ed egocentriche
Debbo dire purtroppo che anche gallerie note e prestigiose, per snobismo ma soprattutto egoismo congenito (Massimo De Carlo, Guenzani, Noero, Kaufmann, Zero…, Sonia Rosso, ecc.) si servono di una comunicazione ridotta al minimo, evitando ogni forma di pubblicità, in quanto, operando in condizioni di quasi monopolio, ritengono che tutto gli sia dovuto. Mentre i loro colleghi oltreoceano, a cui tanto spesso si riferiscono, anche solo per contribuire alla loro sopravvivenza, sono ben presenti in Artforum, Frieze e Flash Art International. Ricordo il grande Leo Castelli che mi diceva di non aver bisogno di pubblicità ma per lui era un dovere morale contribuire a sostenere le riviste d’arte, tassello miliare del sistema dell’Arte e strumenti imprescindibili di una corretta e selettiva informazione. Altrimenti i riferimenti, a poco a poco diventano sempre più le televendite e le riviste trash e di bassissimo profilo che contribuiscono a riempire i cestini della spazzatura di tutte le fiere e gallerie. E ricordo che il grande Leo Castelli mi elencava le riviste di allora (le sole sul mercato in quel momento) dove lui era presente con intere pagine di pubblicità: Artforum, Flash Art, Art in America, Art News, anche se talune testate erano lontane e forse avverse alle sue scelte. Le gallerie italiane dovrebbero forse guardare con maggior rispetto questa sensibilità a tutto tondo dei loro colleghi americani.
Vuoi diventare ricco e famoso con poco? Apri una galleria d’arte
In ogni caso, l’Italia è un Paese molto generoso e che premia chi osa ed è bravo. Lo dimostrano gallerie che hanno fatto fortuna come Lia Rumma, Christian Stein, Massimo Minini, Alfonso Artiaco, Enzo Cannaviello, Massimo De Carlo, Continua, tanto per citare le più prestigiose e storicizzate. Ma forte visibilità e notevole successo economico hanno raggiunto anche gallerie nuove e propulsive, come Marella, che grazie a una gestione manageriale e a una comunicazione efficace e propulsiva e alla sua espansione all’estero (Pechino), ha ampliato a dismisura, per sopperirne talvolta, la limitata disponibilità, il numero dei suoi clienti, che oggi ammontano ad alcune centinaia. Senza dimenticare realtà come Raffaelli, In Arco, Pio Monti, Poggiali e Forconi, ecc. forse più orientate verso il mercato ma sempre con buone scelte e con notevoli soddisfazioni economiche. Come vedi, di spazio, per chi è intraprendente e informato, ce n’è. Vorrei concludere dicendo: vuoi diventare ricco e famoso con modesti investimenti? Studia, viaggia, guarda e poi apri una galleria d’arte. Non ti pentirai. Un consiglio anche per te, caro Pierluigi, invece di sbatterti tra varie università, correre a espletare consulenze nei tre continenti, apri una bellissima galleria d’arte a Padova, con succursale a Pescara. Sarai più famoso, più ricco e più vezzeggiato. E magari con qualche soddisfazione in più.