In virtù della sua abbondanza e complessità, la metropoli moderna ci sottopone a una grande varietà di esperienze acutamente contrastanti. Le immagini che descrivono il paesaggio metropolitano riescono a darne solo visioni parziali senza rendere la vasta gamma di espressioni dell’arte spontanea, una gamma quadridimensionale che comprende la dimensione del tempo. Appartengono a questi due fenomeni che si sono sviluppati come antitesi estetiche: Graffiti e Street Art.
Entrambi risalgono a quasi mezzo secolo fa e sono ancora vividi, continuando a presenziare nell’odierna vita urbana. Il fenomeno dei graffiti nacque dall’ondata di scrittori — writer — che cambiarono volto alle strade di Manhattan Heights e South Bronx agli inizi degli anni Settanta. In questo decennio, l’atto stesso della firma — tag — non era necessariamente associato alla parola graffiti, ma piuttosto riferito alla traduzione letterale del gesto, writing. Il fenomeno venne poi ribattezzato erroneamente graffiti dai giornalisti del New York Times. Definendo il writing come graffiti si rischia di non comprendere correttamente tre aspetti fondamentali del fenomeno: l’atto del quale consta, il contenuto e il significato. Il writing consiste nel lasciare la propria firma in vista su un muro, letteralmente nello scrivere. Il fenomeno ha un significato legato alle ritualità della vita di strada, in base alle cui dinamiche i writer scelgono il proprio alias e studiano determinate lettere: si potrebbe definirlo come un ossessivo “ego-trip” fondato sull’autopromozione e sulla diffusione della propria tag: il nome che ogni esponente decide di ripetere infinitamente. L’origine della Street Art è invece anteriore. Potrebbe essere riconducibile ai primi anni Sessanta americani, un periodo in cui molti centri urbani diventarono aree di degrado cronico. In quelle città disastrate degli Stati Uniti vi fu una straordinaria esplosione di energia politica e culturale quando gli artisti uscirono da studi e gallerie e per strada misero in scena opere avventurose: happening, assemblaggi, performance.
Robert Sommer intitola Street Art uno dei primi libri sul tema1, dove vengono riportate le immagini di alcuni quartieri popolari americani dipinti dagli stessi residenti. In Europa invece il movimento prende visibilità dal maggio del ’68 a Parigi con i poster illegali di Atelier Populaire. Si sviluppa poi nei primi anni Ottanta a Parigi (Blek le Rat, Jérôme Mesnager, Gérard Zlotykamien), Berlino (Der Bananensprayer), Amsterdam (Hugo Kaagman) e in Svizzera (Harald Naegeli). Nonostante l’originalità delle loro opere, i primi esponenti della Street Art si ritagliarono comunque un ruolo secondario: fu il writing a conquistare nello stesso periodo le gallerie d’arte e i media, per poi esplodere tra i teenager di ogni paese europeo. Forse per l’immediatezza del messaggio, forse trainati dal movimento Hip Hop al quale erano associati, i graffiti fecero breccia nell’immaginario di un’intera generazione. Tag, throw-up e piece ebbero una diffusione straordinaria.
La Street Art invece non fece in tempo ad attecchire che subito svanì: pochi si accorgono che il suo ritorno a fine anni Novanta non è altro che un revival. La “nuova” Street Art viene accolta come movimento inedito in un ambiente underground ormai saturo di tag. Credo che su un punto possa essere molto interessante concentrare la ricerca: la ricomparsa del fenomeno, apparentemente ancora senza motivazioni, è legata agli stessi writer. Stak, a Parigi, converte le proprie lettere in un logo. Miss Van dipinge nelle strade di Tolosa figure femminili a pennello, anticipando una rivoluzione tecnica che gradualmente dimenticherà l’uso degli spray. Ad Amsterdam Delta e Zedz esasperano le personali ricerche sul 3D style tanto da progettarlo come un oggetto di design. La sommatoria di queste proposte impone una trasformazione radicale: sono i writer degli anni Novanta a rifondare la Street Art contemporanea o comunque a re-interpretare l’estetica del writing puntando su nuovi codici e strumenti. Street Art e writing si identificano progressivamente in due fenomeni simili ma non identici, accomunati dal contesto metropolitano e da sottili punti di contatto stilistici ma oggettivamente distinti per target, strumenti e ambito. La prima diversità riguarda il pubblico, il target, che nell’ambito dei graffiti coincide con i writer stessi: scrivere per farsi riconoscere tra i propri colleghi. Non a caso a partire dagli anni Ottanta prese piede uno stile particolarmente complesso chiamato “Wild Style”, dove le lettere arrivarono a essere volutamente illeggibili. La Street Art invece fa della comunicazione alle masse una condizione importante, spesso imprescindibile, lanciando input chiari e leggibili quanto uno spot pubblicitario. Contro la stessa pubblicità, il governo o la società consumistica, spesso prendono vita ideogrammi espliciti, assimilabili da qualsiasi cittadino. Un ulteriore grado di distinzione arriva poi dall’identità degli autori e dalla prassi di agire singolarmente o meno. Quello del writing è un percorso nato inizialmente dalla necessità di singoli scrittori di emergere nei quartieri newyorkesi dominati dalle gang. Le crew che si formano divengono quindi un punto di riferimento per affrontare la vita di strada e le rischiose dinamiche legate ai vagoni della metropolitana. L’appartenenza a una crew è così vincolante da anteporre spesso il nome del gruppo a quello dell’individuo: la tag dell’autore scompare in un gioco di squadra concentrato a diffondere l’idea del collettivo. Gli esponenti della Street Art invece credono nell’individualismo. Le crew lasciano spazio a un panorama costellato di individui che inseguono una condizione di unicità secondo molteplici canali. La scelta del contesto urbano, degli strumenti e del messaggio da lanciare comporta infinite variabili per emergere, distinguersi e ricavare una propria identità. L’intento è quello di definire il più possibile un percorso autonomo, un linguaggio specifico in modo che il concetto di unicità rimanga una matrice aperta in grado di assorbire ogni circuito compatibile, non per ultimo quello del business nel mondo dell’arte. Dalla moltitudine contemporanea della nuova Street Art è strategico emergere, by all means necessary: Banksy entra di prepotenza al MoMA affiggendo in incognito i propri quadri, Obey impone con gli sticker una campagna di comunicazione planetaria, Blu trova nella scala urbana la dimensione per trattare col pubblico, con un escamotage identificativo che permette l’omissione della tag e sintetizza la transizione dal mondo-graffiti. È proprio la diversità di questi esempi a restituire il quadro disomogeneo ed eclettico della Street Art odierna: assistiamo alla volontà di sensibilizzare un cittadino sempre più abituato al disturbo di strada. Non a caso ogni innovazione è costantemente monitorata dalle agenzie pubblicitarie di guerrilla marketing. Nel writing questo bisogno continuo di sorprendere, di stupire, non è riscontrabile. Un writer non cerca di emergere cambiando gli strumenti del mestiere o il contenuto di quello che scrive; si tratta più che altro di un atto di presenza e di un’evoluzione stilistica mirata a competere tra simili. Il muro di Berlino e quello recentemente eretto in Israele sono esempi utili a chiarire un modus operandi opposto. Entrambi i casi rappresentano bersagli ideali per dipingere il proprio disappunto su una parete ideologicamente rappresentativa. Il muro che guarda alla Palestina, semplicemente ignorato dai writer, è strategico per gli street-artist tanto da attirare l’attenzione dei maggiori esponenti. Analogamente dipingere durante gli anni Ottanta il muro di Berlino coincideva con una presa di posizione politica, significava lanciare un messaggio alla società che solo i muralisti colsero. I writer berlinesi non ignoravano la presenza del muro, semplicemente preferivano dipingerlo molto più a nord, lungo la ferrovia, lontano dall’attenzione dei media. Writing e Street Art in ogni caso condividono a tutti gli effetti un generico playground urbano. Tag, stencil, poster, adesivi occupano indistintamente tanto le superfici verticali delle città quanto i ritagli dell’arredo urbano, con una peculiare attenzione per gli interstizi: spigoli, cornicioni, angoli e altri spazi che attirano lo sguardo; un sottile o esplicito gioco di seduzione fondato sull’imprevisto. Lo scambio con l’osservatore è basato sull’immediatezza della tag o dello stencil, su un impatto istantaneo diviene anche comunicativo ed esplicito. Oltre a questa condizione sfuggente entrambi i fenomeni si identificano per un’estetica fondata sulla narrazione figurativa. Le Hall of Fame dove i writer dipingono grandi pareti tematiche o le imponenti realizzazioni dei muralisti chiedono al pubblico di fermarsi, osservare, leggere nel dettaglio l’opera.
In questo senso writing e Street Art condividono gli stessi spazi della città seguendo un percorso parallelo. La distinzione netta deriva dall’assenza nella Street Art della condizione dinamica. Sembrerebbe che solo le lettere siano legittimate a scorrere nello spazio, sui vagoni delle metropolitane, nelle fiancate dei camion o dei treni merci. La Street Art lì non arriva. Sorprendentemente, è assente anche a ridosso delle linee ferroviarie e delle tangenziali lungo le quali il writing si esprime in un meccanismo questa volta passivo: è lo spettatore a muoversi e ad osservare. In un’ipotetica spartizione del suolo pubblico, sembrerebbe che i writer chiedano l’esclusiva di ogni asse infrastrutturale, dei mezzi di trasporto e in generale di uno sguardo in motion dell’opera: massima visibilità nel minor lasso di tempo. La sfida che presenta la Street Art contemporanea a chi voglia mettere in evidenza i suoi caratteri e le sue possibili linee di trasformazione è sempre più ardua, a causa di un duplice ostacolo. Il primo dipende dal fatto che — a differenza, se si vuole, del writing — essa costituisce una sorta di stadio intermedio dell’esperienza urbana. Il costante spaesamento indotto sia dai suoi esponenti sia da chi se ne occupa a scopo di studio, il senso di stare dappertutto e in nessun luogo, suggerisce un’analogia con una generale crisi d’identità, di riconoscibilità e quindi anche di denominazione: si continua a usare Street Art quale termine generico e approssimativo. Il secondo ostacolo dipende dal moltiplicarsi e dal differenziarsi nel mondo di questo fenomeno metropolitano nei luoghi e nelle forme più diverse. Di questa estetica metropolitana o comunicazione non-convenzionale abbiamo conoscenza abbastanza superficiale, nonostante l’overdose mediatica degli ultimi anni. Il concetto di Street Art sta progressivamente diventando più nebuloso, trasformandosi in una serie di movimenti a zig-zag sovrapposti l’uno all’altro, costretti a convivere in un periodo storico nel quale sembra accadere troppo. Esiste allora una definizione adeguata a rappresentare la realtà urbana contemporanea? Presumibilmente no. Mentre il fenomeno graffiti segue un percorso definito e lineare, il movimento della Street Art dell’ultimo decennio non si è ancora cristallizzato. È esploso, ma non si è stabilizzato. Proprio in questa condizione incerta e generica potrebbe celarsi il suo potenziale; quando si cristallizzerà, forse la sua forza espressiva sarà esaurita.