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19 Maggio 2017, 3:42 pm CET

N.Y.F.C. di Francesco Spampinato

di Francesco Spampinato 19 Maggio 2017
Nate Lowman "Ain’t No Fun" (2009). Courtesy Maccarone Gallery, New York.
Ryan McGinley "Fireworks Hysterics" (2007- 2008). Courtesy Team Gallery, New York.
Ryan McGinley “Fireworks Hysterics” (2007- 2008). Courtesy Team Gallery, New York.

“We move through a city that produces boys and girls and extends itself through them”

Reena Spaulings1

Gli artisti amano talmente NYC che è difficile credere che nelle opere d’arte qui prodotte dai giovani la città sia spesso rappresentata come luogo di degrado, violenza e delirio. Per ritrovare le origini di questa insofferenza possiamo guardare all’era beat, al punk, all’epoca d’oro dei Graffiti, alla Pictures Generation, alla No Wave. La situazione che si è venuta a creare negli ultimi anni, tuttavia, è peculiare dell’epoca di violenta recessione economica, riflesso della ben più profonda crisi ideologica che investe l’Occidente all’indomani dei tragici fatti del 9/11.

A questo si aggiunga l’inarrestabile processo di gentrification, con atti di speculazione selvaggia e “brandizzazione” dei quartieri, e l’invasione di attività commerciali multinazionali — le decine di Starbucks e H&M causano déjà vu anche sul più allenato new yorker. Inoltre, alcuni eventi sono decisivi per il mondo dell’arte: da un lato l’apertura delle nuove sedi del MoMA nel 2004 e del New Museum nel 2007, dall’altro la chiusura nel 2005 del Pop Shop di Keith Haring e del CBGB’s, roccaforti della produzione artistica indipendente.

La giovane comunità di Downtown, sotto la quattordicesima strada, reagisce con spirito punk e DIY (do it yourself), che Anne Elizabeth Moore definisce: “a culture estabilished by people unwilling to live by the standards set for youth in society”2. NYC assomiglia sempre più a una vetrina, quindi tanto vale mettersi in mostra, mimetizzarsi con la sfera commerciale e, se si tratta di cultura, fare il verso a quella ufficiale. Alcuni già parlano di Bowery School.

La galleria di riferimento è Deitch Projects. Fida collaboratrice di Jeffrey Deitch e teorica della Downtown NYC è Kathy Grayson, artista e curatrice, cui si devono mostre come “Trunk of Humors” (2004), “Mail Order Monsters” (2007) e “Constraction” (2008) da Deitch, “Panic Room” (2006) alla Deste Foundation di Atene e “New York Minute” (2009) prodotta dalla Depart Foundation al MACRO Future di Roma. Grayson ha compilato insieme a Deitch Live Through This. NYC in the Year 2005, compendio della scena.

Non bisogna dimenticare, però, la preziosa attività di gallerie come Alleged, Team, Gavin Brown’s enterprise, Maccarone, Foxy Production, John Connelly Presents, Greene Naftali, Zach Feuer, Canada, James Fuentes, Rivington Arms e persino Gagosian. Inoltre, la comunità Downtown beneficia del supporto di Charles Saatchi e Dakis Joannou e di un network internazionale con Peres Projects a Los Angeles e Berlino, Honor Fraser a Los Angeles, o.h.w.o.w. a Miami e V1 a Copenhagen. Va infine ricordato il ruolo del PS1 con “Greater New York” (2005) e delle Biennali del Whitney dove molti di questi artisti vengono presentati al pubblico dell’arte ufficiale.

“I DON’T DO. I JUST AM”3

L’attuale scena Downtown nasce tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila. La storia dell’arte qui si mescola con quella di chi vive questi anni. Deitch ricorda di aver ospitato una sfilata di Bernadette Corporation organizzata da Colin de Land nel 19974. Altri citano Street Market di Barry McGee, Steve Powers e Todd James del 2000. Grayson ricorda Chris Johanson e Forcefield alla Biennale del Whitney del 20025. Per quanto mi riguarda, fu ad un concerto dei Suicide da Deitch, nel febbraio 2002, che mi resi conto che qualcosa di incredibile stava accadendo. Ebbi l’impressione che l’influenza che quel gruppo esercitava sui giovani di Downtown, a venticinque anni dal debutto, facesse da ponte con l’epoca dell’East Village.

Il lavoro di questi artisti non è media-specifico, regna una forte tendenza appropriazionista, uno spirito pop, ed è profonda l’influenza delle sottoculture giovanili: skateboard, punkrock, graffiti, fumetti, scienze occulte, club culture. Ma la pratica che accomuna tutti è la performance, non la performance in quanto tale, però, in cui si prevede possa accadere qualcosa, ma la performance come attitudine esistenziale, indistinta dalla vita vera. Il confine tra una manifestazione contro la guerra e un evento di Creative Time o tra una parata popolare come quella di Halloween e la Art Parade è sempre più lieve.

Il vissuto quotidiano diventa contenuto di ricerca. I soggetti delle fotografie di Ryan McGinley e Dash Snow sembrano usciti dal film Kids di Larry Clark, come Leo Fitzpatrick, protagonista del film, anche lui artista. Non a caso McGinley intitola una mostra “The Kids Are Alright”. Sono compagni di notti brave all’insegna dello sballo. Sesso, droga e rock’n’roll sono ancora gli ingredienti di questo decadente scenario post-adolescenziale, che ha fatto la fortuna di una rivista come Vice, cui il destino di Snow e McGinley, sulle orme di Terry Richardson, è stato inestricabilmente legato.

Caratteri fondamentali dell’attuale scena Downtown sono la dimensione giovanilistica e l’aspetto comunitario. Questi circa-trentenni men in the city6 fanno riferimento a un immaginario ribelle di godimento della vita e promiscuità, almeno fino a quando miti e riti verranno condivisi all’interno della propria cerchia. Gli artisti di cui parliamo si conoscono tutti e il loro lavoro nasce spesso da collaborazioni e scambi di ruoli. L’atto stesso di “fare network” diventa strumento di indagine. Tim Barber su tinyvices.com archivia decine di portfolio utilizzando Internet come laboratorio per progetti espositivi ed editoriali.

Altro catalizzatore di energie è Scott Hug con K48, pubblicazione annuale che raccoglie umori e passioni della comunità di Williamsburg. Approccio analogo è quello di Aaron Bondaroff, fondatore dei brand aNYthing e Off Bowery, animatore del compianto Wreck Center e co-fondatore di o.h.w.o.w. a Miami. Aaron Bondaroff, conosciuto nell’ambiente come A-Ron the Downtown Don, veicola le energie degli artisti del Lower East Side puntando sull’aspetto comunitario di progetti tra arte e commercio. Uno degli slogan sulle t-shirt vendute nel suo ibrido negozio di Hester Street è “Community Approved”.

Gardar Eide Einarsson "...And I’ll Give Em Hell" (2007). Courtesy Team Gallery, New York
Gardar Eide Einarsson “…And I’ll Give Em Hell” (2007). Courtesy Team Gallery, New York

BEAT STREET

Peculiare dell’attuale scena Downtown è l’intreccio tra arte, musica e moda, secondo una tradizione nata tra le pareti della Factory di Andy Warhol e consolidatasi nell’East Village. Sulla linea di aNYthing si muovono Alife e Supreme, brand streetwear alla ricerca di collaborazioni con artisti locali. Non bisogna poi dimenticare i capi firmati Jeremy Scott e threeASFOUR, in vendita da Barneys, il cui cuore pulsante, però, rimane ben piantato nella strada, a conferma che, come sostiene Elizabeth Currid, a NYC: “…fashion, art, music aren’t just cool. They’re economic drivers”7.

Pensiamo poi all’importanza della moda nel versante art rock di questa scena. Dai costumi “costruttivisti” de Le Tigre agli abiti barocchi dei Fischerspooner, band impegnate nella ridefinizione del concetto di popstar che fanno della presenza scenica ambito fondamentale di ricerca ed espressione8. Altri artrockers sono: Black Dice, Devendra Banhart, A.R.E Weapons, Delia Gonzalez & Gavin Russom, Gang Gang Dance, Phiiliip, Avenue D, Animal Collective, Tracy + the Plastics, BARR e recentemente MGMT e Telepathe.

Alla scena Downtown appartengono artisti che fanno della strada medium e messaggio. Basti pensare ai massi di Dan Colen ricoperti di graffiti, ai dipinti di Aaron Young realizzati con delle motociclette e alle barcollanti strutture di Agathe Snow costruite con materiali di seconda mano. Evan Gruzis e Tomoo Gokita ritraggono soggetti nebulosi come quelli che non mettiamo a fuoco tra la folla. New York è terra di nessuno — come quella di John Carpenter —, da cui fuggire, come lo scenario del film I guerrieri della notte. Così Spencer Sweeney ribalta una macchina della polizia sul soffitto sostituendo alle sirene luci stroboscopiche.

Creare uno spazio aperto all’interno di una mostra a Downtown è un invito a condividere un’occasione di visibilità con la propria gang. Rimane memorabile la serra dove Peter Coffin ospita band come i Black Dice, come poi è solito fare AVAF (assume vivid astro focus) nelle sue installazioni. Ma l’operazione più riuscita è quella di Dash Snow e Dan Colen che con altri Warhol’s Children9 occupano Deitch Projects per un party notturno trasformandolo in Nest (2007), sporco antro urbano tappezzato da tag dove suonano i Gang Gang Dance.

La distanza tra strada e galleria si accorcia. Le mostre di Steve Powers, KAWS, Neck Face e Swoon, come quelle degli artisti della San Francisco Mission School, Barry McGee, Margaret Kilgallen e Chris Johanson, sono un inno alla street culture. Le loro opere raccontano di reietti, immigrati clandestini, senzatetto. Dipinti, disegni, wall painting e installazioni riproducono angoli bui della città di notte, insegne di piccoli negozi, rifiuti. I loro riferimenti vanno dai graffiti all’arte folk, una generazione di “Beautiful Losers”, come la battezza Aaron Rose nella grande mostra di cui molti sono protagonisti.

Forcefield "Mystery Brinkman in Fur Suit (Fort Thunder)" (2001). Fotografia di Hisham Akira Bharoocha.
Forcefield “Mystery Brinkman in Fur Suit (Fort Thunder)” (2001). Fotografia di Hisham Akira Bharoocha.

SUBWAY MONSTERS

Arte folk, cartoon e fumetti sono il cuore del lavoro degli artisti che definiscono i “new trends in monstrous figuration”10 attraverso fanzine, collage, dipinti, installazioni e performance: Paper Rad, Dearraindrop, Jules De Balincourt, Taylor McKimens, Ry Fyan, Misaki Kawai, Keegan McHargue, Matt Leines. Non bisogna dimenticare poi il Fort Thunder di Providence, centro autogestito a due passi dalla Rhode Island School of Design, da cui emergono Forcefield e Lightning Bolt, formazioni noise nelle quali militano Hisham Bharoocha, Ara Peterson, Jim Drain, Brian Chippendale e Mat Brinkman, l’ala lisergica di Downtown.

Psichedelici e surreali sono gli ambienti di assume vivid astro focus, composti da luci al neon, gomma e plastica sullo sfondo di wall paper fluorescenti che fondono psichedelia, tradizione tropicale e club culture. Simili riferimenti valgano per Takeshi Murata e Michael Bell-Smith, geek con la passione viscerale per i videogame. Le loro animazioni dimostrano forte attenzione al mondo dell’informazione nell’era della Open Source Culture.

La cultura digitale è fonte di ricerca anche per Tauba Auerbach e Cory Arcangel, trionfanti alla recente triennale del New Museum intitolata “The Generational: Younger Than Jesus”. Se però Tauba crea nuovi linguaggi tipografici, Cory si misura con qualcosa di preesistente: mass-media, cinema e videogame, di cui si appropria per investigarne le proprietà. Sullo stesso terreno si muovono Nate Lowman, Lizzi Bougatsos e Gardar Eide Einarsson che fanno propri pubblicità e fumetti uscendo dall’underground e avvicinandosi a una ricerca concettuale.

La definizione di undeground, del resto, è così labile! Come dice Deitch, il passo a salire, “above ground”, è breve11. Ma in riferimento alla Downtown NYC degli ultimi dieci anni, il termine underground risulta ancora comodo, non solo perché descrive il livello di visibilità di molti artisti ma anche perché richiama un mondo nascosto, popolato da insetti e liquami. Le misteriose sculture di Terence Koh, Sterling Ruby e Banks Violette si sciolgono sotto l’azione di catrame e melma come quella che vediamo tra i binari della metropolitana.

Attenzione particolare, infine, è data alle problematiche femministe e di gender. Kembra Pfahler dei Voluptuous Horror of Karen Black è nuda, dipinta di rosa, con sguardo assassino. JD Samson de Le Tigre sfoggia orgogliosa folti baffi nelle foto che la ritraggono alla ricerca della sua Lesbian Utopia12. Le donne di Francine Spiegel sono imbrattate di un inquietante putridume escrementizio, mentre quelle di Aurel Schmidt sono composte da mozziconi di sigarette, assorbenti, preservativi e insetti, tanti insetti. Uno dei simboli di NYC, in fondo, è il “cockroach”, viscido scarafaggio che attraversa la strada quando meno te lo aspetti. 

Francesco Spampinato è artista e critico d’arte. Vive e lavora tra Bologna e New York.

Note

1. Bernadette Corporation, Reena Spaulings, Semiotext(e), New York 2004, p. 55.

2. Anne Elizabeth Moore, Unmarketable. Brandalism, Copyfighting, Mocketing, and the Erosion of Integrity, The New Press, New York 2007, p. 12.

ùojects, New York 2005, p. 67.

5. Kathy Grayson, “Live Through This. New York 2005”, in Jeffrey Deitch & Kathy Grayson, Live Through This. NYC in the Year 2005, Deitch Projects, New York 2005, p. 71.

6. “Men in the Cities” è una serie di fotografie e disegni di Robert Longo, New York 1976-1982.

7. Elizabeth Currid, The Warhol Economy. How Fashion, Art & Music Drive New York City, Princeton University Press, Princeton 2007, p. 46.

8. Francesco Spampinato, “Never New York. Artrock 2001-2006”, in Luca Beatrice, Sound & Vision, Damiani, Bologna 2006.

9. “Warhol’s Children” è il titolo di copertina del New York Magazine del 7 gennaio 2007 che contiene un lungo e influente articolo di Ariel Levy su Dash Snow, Dan Colen e Ryan McGinley intitolato “Chasing Dash Snow”.

10. Kathy Grayson, Mail Order Monsters, Picturebox, New York 2008.

11. Jeffrey Deitch, “Live the Art”, in Jeffrey Deitch & Kathy Grayson, Live Through This. NYC in the Year 2005, Deitch Projects, New York 2005, p. 66.

12. JD Samson, JD’s Lesbian Utopia, Calendario, Deitch Projects, New York 2006.

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