Antonio Grulli: Di recente hai suddiviso le tue opere in tre aree tematiche: “Architettura”, “Competizione”, “Tremolio”. Spesso nei tuoi lavori diversi linguaggi (scultura, fotografia, video, performance) si sovrappongono e contaminano, ma mi sembra che una certa dimensione performativa sia in ogni caso sempre rintracciabile. Le stesse tre macrotematiche richiamano alla mente situazioni in cui la presenza umana (o forse sarebbe meglio chiamarla “presenza vivente”, dotata di una certa intensità emotiva — di un’anima forse?) è sorgente e origine di tutto. Condividi questa interpretazione?
Italo Zuffi: Sì, soprattutto nelle mie ultime opere manifesto segnali di attenzione per l’essere umano, a volte focalizzandomi sul suo carattere di permeabilità, altre volte prendendo in esame i suoi meccanismi di azione/ inazione. In realtà, l’aspetto che mi interessa e affascina maggiormente è la tenacia con cui il nostro organismo si adopera nei confronti del concetto di “limite” e le modulazioni comportamentali , spesso agonistiche, messe in atto per fronteggiarlo.
AG: Molti tuoi lavori, soprattutto scultorei, nascono dall’incontro, quasi sessuale, di due o più elementi che finiscono per fondersi e crearne un terzo, con risultati dotati di una certa anormalità, quasi a suggerire che la creazione di qualcosa di nuovo non possa che nascere dalla mescolanza del già esistente. Per fare alcuni esempi, ricordo una torcia elettrica che si fonde con una clava; una cerniera di dimensioni enormi inserita sulla base di una colonna palladiana; una finestra ridotta alle dimensioni di un foglio A4; nomi di artisti famosi combinati a coppie a formarne uno solo, e via dicendo. Qualcosa di simile accade anche in alcune tue performance, dove l’intrusione cercata di un elemento di disturbo, alieno, crea dei quadri viventi particolari e nuovi. Spesso sembra che tu voglia immettere, in quelle azioni altrimenti semplici, una componente di scomodità. Un esempio potrebbe essere la partita a bocce in cui hai sostituito queste ultime con ortaggi. Ma penso anche a una delle tue primissime azioni, realizzata a Londra nel 1997, in cui ti irrigidivi rimanendo in equilibrio su due sedie. Da questo incontro con uno o più elementi che creano una resistenza, un inciampo, sembra che si produca un attrito da cui nasce una componente di energia in eccesso.
IZ: Alcune mie performance sono certamente impostate affinché si svolgano sotto sforzo, o in base a margini di indeterminatezza. Tuttavia, non mi interessa “estremizzare” la fatica, né evocare forme di sadismo, bensì visualizzare semplici esercizi di sopportazione. I partecipanti possono infatti interrompere l’azione prima che essa provochi in loro un fastidio pungente o cedimenti irreversibili. Chiedo però di mantenere le posture almeno fino a quando i corpi non abbiano irradiato una qualche forma di vibrazione, per la tensione a cui sono sottoposti. La componente di scomodità serve quindi non solo a disciplinare e concentrare i partecipanti, ma anche ad armonizzarne tra loro i corpi. Poiché solo se l’azione arriva a manifestare sonorità e tremore, il suo scopo può dirsi effettivamente raggiunto.
AG: A Stoccolma, nel 2008, avevi scelto di rinunciare alla traduzione scritta di una tua opera, composta di un testo in italiano stampato su quattro fogli, optando per la presenza di un essere umano che assolvesse in diretta a quel compito. Quale componente riveste il concetto di “comunicazione orale” in questo o in altri tuoi lavori?
IZ: Trovo molto pertinente l’uso dell’espressione “comunicazione orale” in riferimento alla mia pratica. Infatti, è in corso un conflitto tra la mia anima scultorea, che mi sprona a impossessarmi dello spazio disponibile, e un’attitudine che vede nell’uso della parola una forma meno invasiva d’opera d’arte. Nei momenti in cui la seconda modalità prevale posso generare “notazioni” da risolvere oralmente, oppure racconti da comporre all’interno di opere grafiche. Questi racconti, in lingua italiana o inglese, possono essere affidati a una persona presente in mostra lì accanto, con il compito di interpretarli direttamente nella lingua del pubblico. Ciò per evitare che la traduzione venga fissata su un semplice foglio stampato, in questo modo consentendo allo spettatore di prendere parte a una sorta di nuova genesi di quel lavoro.
AG: Con intenti forse meno narrativi, altre volte sembra invece che tu riduca l’elemento umano a “persona-display” per tramutarlo in un veicolo di informazioni, quasi uno strumento comunicativo nelle tue mani. Quando fai leggere le classifiche degli artisti apparse su Flash Art, o quando ricorri a uomini e donne sandwich, sembra che tu sia interessato a una forte componente funzionale perché i testi letti, declamati, trasmessi hanno una funzionalità: didascalie, elenchi, liste, traduzioni… Al tempo stesso queste forme comunicative “di servizio” vengono spesso tradotte in un qualche linguaggio che comprende una componente sociale, quasi rituale: la recita teatrale, il concerto, ecc. È così?
IZ: In effetti, quando voglio trasporre elenchi e liste in una dimensione pubblica, ne delego la declamazione a un gruppo musicale. Dal primo elenco presentato al Teatro Studio di Scandicci nel 2001 (con i nomi delle gallerie con cui lavoravo o avevo avuto semplici contatti, ma anche quelle con cui avrei desiderato lavorare) a quello con i nomi e i luoghi di nascita dei trentuno artisti inclusi nella pubblicazione Espresso. Arte oggi in Italia, fino appunto alle ultime “graduatorie” di artisti (e relativi punteggi) estrapolate da Flash Art, si tratta di diffondere degli aggiornamenti (quasi dei brevi notiziari, se vuoi, da inframmezzare alla mia consueta, e forse più nota, produzione di opere) che hanno sempre come oggetto di riferimento l’arte e i suoi linguaggi, ma direi soprattutto le sue dinamiche competitive.
AG: Un altro punto che mi piacerebbe affrontare (anche se forse non è in rapporto diretto con le tue performance) è la presenza umana così frequente nella documentazione dei tuoi lavori, soprattutto scultorei. Spesso si vedono persone fotografate durante l’inaugurazione, o in uno dei giorni di visita, intente a osservare con attenzione i tuoi oggetti, a volte a interagire con questi. Che importanza ha quella presenza umana?
IZ: Si tratta di un aspetto importante: sono infatti convinto che un’opera necessiti di quei continui “avvicinamenti”, e anzi si nutra di essi. All’artista non rimane allora che predisporsi a una certa indulgenza nei confronti del pubblico, per accoglierlo non come un’entità passiva ma, al contrario, capace di ripensare l’oggetto a cui si rapporta. Solo in questo modo lo spettatore potrà rinunciare a forme di relazione o letture già determinate, per attivare dinamiche che lo responsabilizzino e gli consentano di colonizzare e abitare l’opera. Per sottoporla, infine, a un innesto vitale e agli sviluppi, propositivi o caotici, che esso produrrà.