IL DRAMMA
Andrea Bellini: Giorgio Agamben, in Categorie italiane [Venezia, 2006], sostiene che una delle più importanti categorie culturali italiane sia da individuare nella componente antitragica. Tu vivi in Italia dal 1957. Pensi che questo ragionamento possa funzionare anche nelle arti visive?
Jannis Kounellis: Non so. Le immagini che ho in mente io, le mie immagini, sono nate nel Rinascimento e dalla Controriforma. Caravaggio, per esempio, credo sia tragico, o magari non è un artista tragico, però è sicuramente drammatico. Per me l’Italia è tutta lì, e questi sono i riferimenti fondamentali dell’italianità, almeno per quello che mi riguarda, per come io ho vissuto da militante all’interno di questa cultura.
AB: Anche nel tuo lavoro c’è un aspetto drammatico, non è vero?
JK: Sempre. Perché i fondamenti sono questi. Il controriformismo come avvenire, come volontà critica di costruire una diversità, di compiere uno scatto feroce e rapido. L’antico però rimane sempre, non si mette mai in discussione.
AB: Cos’è il dramma? Una dimensione salvifica?
JK: In Italia se c’è un dramma esiste anche una prospettiva; tutte le novità sono delle novità drammatiche, le altre non sono novità. Penso a Visconti, a Pasolini, ma anche a Burri e a Fontana, tutti condividono una volontà drammatica. Lo stesso Sironi per esempio, le sue periferie, la sua idea di labirinto…
AB: Consideri Sironi un artista fondamentale per l’arte italiana del Dopoguerra?
JK: Decisamente sì. Sironi è un diapason, ha dato una misura, una nota inziale.
L’AMERICA
AB: In questo periodo hai una mostra a New York, da Cheim & Read. Quando sei venuto in America la prima volta? Quali sono gli artisti americani che consideri importanti?
JK: Sono venuto qui per la prima volta nel 1958, e sarei potuto rimanere; anche mio padre viveva qui, mio nonno era cittadino americano. Ma sono tornato. Allora consideravo la realtà europea del Dopoguerra molto più impegnativa sul piano intellettuale.
AB: Quali artisti americani senti più vicini alla tua sensibilità?
JK: Dell’America amo Jackson Pollock e Franz Kline. Amo quella generazione lì, che è una generazione epica, una generazione che ha strutturato uno spazio, che ha inventato lo spazio americano, ampio, lontano dai tonalismi da cavalletto, una superficie che nei casi più felici è vissuta con determinazione e radicalismo. È una generazione che ha anche annullato un’idea di centro nel quadro. È doveroso dire che, in qualche maniera, abbiamo un debito nei confronti di questa generazione drammatica e idealista, certo non nei confronti del gruppo Pop, estremamente pragmatico e apologetico.
IL LINGUAGGIO
AB: In termini di ricerca, qual è stato il tuo gesto fondamentale?
JK: Uscire dal quadro, già negli anni Sessanta. Sono uscito dal quadro per avere una disponibilità dialettica maggiore. È significato per me partire verso mille incontri. In termini di libertà, quel gesto mi ha aperto un mondo.
AB: Quale tensione ti spinge ancora verso la ricerca? C’è qualcosa che senti di non aver realizzato durante il tuo lungo percorso d’artista?
JK: Le novità non sono mai esistite. È soprattutto questo che mi spinge ancora a plasmare la materia. Il mio lavoro, la mia ricerca si svolge quotidianamente. Questo è un modo di esprimere il mio attaccamento alla civiltà umanista, parola che non va più di moda ormai. Ma a me non interessa.
AB: Cos’è la pittura?
JK: La pittura è una logica. In questo senso non ha nemmeno bisogno di supporto. Se non fosse così, dovremmo pensare che Masaccio è stato solamente un bravo pittore. In realtà, Masaccio ha espresso una visione rivoluzionaria dell’immagine. La pittura è questo patrimonio, rispetto al quale non è possibile nessun ritorno all’ordine.
AB: Quali tra le tue opere consideri particolarmente importanti o significative?
JK: Parlerei in realtà di momenti. La parola “opera” per me è ciò che va da “chiodo a chiodo”. Ci sono stati dei momenti di illuminazione, durante i quali ho provato stupore di fronte alle cose. Come quando ho messo un quintale di carbone nell’angolo di una stanza, nel 1966. Ho avuto questa grandissima sorpresa di vedere realizzato un momento di libertà. Non di libertà libertaria o libertina, ma di libertà in senso ampio. Attraverso quell’intervento in galleria, che in realtà è uno spazio pubblico, ho compreso e sentito l’idea drammaturgica dell’arte, l’atto unico del gesto. Vedi, anche in questo caso il dramma non si scorda mai. Caravaggio non è mai alle nostre spalle, è il nostro futuro.
L’ARTISTA
AB: Questo tipo di atteggiamento implicava uno scarto radicale nel modo di considerare la stessa galleria.
JK: Sì, esatto. Questo modo di intendere l’intervento in una galleria ha cambiato le regole del gioco. L’artista in questo modo ha cominciato a riprendersi un ruolo che aveva perso, e che era suo fin dal Rinascimento. La galleria non può essere considerata solo come un posto di mercato. L’intervento dell’artista deve avere un peso assertivo, anche sociale, l’artista non è solo un virtuoso e non può essere solo una mano felice.
AB: Cosa ha caratterizzato profondamente la tua generazione e in particolare il gruppo dell’Arte Povera?
JK: Il non avere nessun incubo dogmatico, il non partire da un Manifesto, l’accettare anche le contraddizioni. Avere un dogma significa avere la necessità di una difesa. Con un certo tipo di lavoro, già nelle prime mostre si sente la prospettiva futura, si intuisce se vinci o perdi. Non avevamo bisogno di difesa perché le nostre premesse erano immediatamente realizzate.
AB: Che ruolo può avere l’artista oggi?
JK: Non so, io non sono mai stato un modernista. Vivo però a Roma, e in quella città vedo il ruolo dell’artista ovunque. Il bello non è esteticamente bello, il bello è eversivo, è un punto di arrivo e l’artista manovra quella visione verso un bersaglio o un altro. Non bisogna poi dimenticare che a Roma, nel Pantheon, insieme ai Re d’Italia, riposa Raffaello.
AB: Che cos’è l’artista?
JK: È un intellettuale che nasce e muore all’interno di un immaginario, non ha dei romanzi da scrivere, non ha nulla se non il dono di questa illuminazione originaria in immagine.
L’UOMO
AB: Cosa sai dirmi della mostra da Cheim & Read? Ci sono dei letti, dei cappotti, delle scarpe…
JK: Si tratta dei miei ultimi lavori. Sono delle lamiere sulle quali sono appese queste presenze. La misura è sempre quella di un doppio letto. Da sempre sono legato a questo tipo di dimensioni e di rapporti. Non riesco a superare la misura dell’altezza di un uomo. Ormai è troppo tardi per fare delle cose più grandi (ride).
AB: Anche la questione della dimensione delle opere dà il senso del tuo umanesimo…
JK: Non voglio dimenticare l’uomo, non devo e non posso dimenticare le indicazioni culturali che ho ricevuto nel corso della mia educazione e che mi spingono ad accettare questo confine.
AB: E questo uomo è perennemente in viaggio…
JK: La più grande letteratura di avventura, quella omerica, parla di un viaggio che si realizza con un ritorno, può essere Itaca come può essere Dublino. Non si può uscire da questa condizione, quella di avanzare e di conoscere, di essere attratti dal viaggio e dalle occasioni. Il ritorno serve a codificare questa avventura.
IL TEMPO
AB: Quali degli artisti contemporanei ti sembrano più interessanti?
JK: L’artista vivente non è necessariamente contemporaneo. Amo gli artisti spinti verso l’avventura, il rinnovamento, quelli che non accettano mai l’evidenza del dato obbligato. Serve del coraggio. Prima parlavo di Pollock e Klein perché in loro non c’è mai debolezza. Casomai si spingono talmente tanto avanti da rischiare la vita. Se sei debole o fragile come artista il tuo peso diminuisce e diventi intercambiabile, decorativo. A livello intellettuale, in generale, il lavoro che nasce nell’area della debolezza è intriso di negatività, nel senso che sei portato ad accettare i compromessi.
AB: Insomma, il viaggio esiste solo in una dimensione eroica.
JK: Sì, ma penso a un eroismo dionisiaco, mai apollineo.
AB: E il passato è importante?
JK: A Roma, negli anni Sessanta, facevamo delle lunghe cene con Pascali e altri amici. Parlavamo a tavola degli artisti del passato. Caravaggio, per esempio, non mancava mai. Anche quando si discuteva di Pollock veniva fuori il discorso su Caravaggio. Il giovane che annulla questa ricchezza non capisce niente di politica e non capisce nulla del potere.
L’EMOZIONE
AB: Molti tuoi lavori, penso ai cavalli in galleria, ai pappagalli, ai lavori con la fiamma ossidrica, ai piombi, cercano nel pubblico una precisa reazione emotiva oltre che intellettuale. È vero?
JK: Sì, perché le cose nascono dal buio. Tutte queste immagini sono delle esperienze. Se gli togli l’emozione non le trovi più. Anche questo aspetto sembra oggi ormai demodé, ma secondo me si è fatto troppo presto a dire che quella dimensione era superflua. Serve un vero e proprio dogma per cancellare l’emotività, e io sono l’ultimo liberale antidogmatico.
AB: C’è qualcosa che non concepisci, che non accetti?
JK: Dopo cinquant’anni di questa piacevole fatica, non concepisco il tradimento, perché il tradimento segna l’inizio di tutte le debolezze più gravi. Il tradimento non è possibile.
AB: Tradimento in che termini? Del lavoro? Del linguaggio? Dell’amicizia?
JK: Tutti i tradimenti seri. Il tradimento interrompe il viaggio e l’esperienza in senso attivo. E ti porta appunto all’inevitabile ritorno all’ordine, il quale per me è inaccettabile.
AB: E verso cosa bisognerebbe essere fedeli?
JK: Bisogna essere fedeli in modo costante alla propria ipotesi di confine.
LA POESIA
AB: Jannis, a chi è destinato il lavoro?
JK: Si può lavorare, o scrivere, anche solo per 500 persone. Essere poeta per me vuol dire quello. Non credo nel cosmopolitismo di maniera. Certo non si deve rimanere fedeli a uno stile, ma non si può dimenticare che i quadri che si vedono nei musei sono, come un ultimo iceberg, delle rappresentazioni dell’emotività popolare incisa sulla superficie della tela.
AB: C’è un aspetto malinconico nel tuo lavoro?
JK: Malinconia… Come si chiama quel poeta romantico seppellito a Roma, nella zona della Piramide?
AB: John Keats, è seppellito nel cimitero protestante…
JK: Sì, lui. La sua lapide dice: “Here lies one whose name was writ in water” (“qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua”). Se la mattina presto riesci a costruire un’immagine credibile, la malinconia momentaneamente muore.
AB: A proposito di cimiteri… È ancora possibile il sacro?
JK: Sì, l’uomo possiede una sua sacralità. Dipingere un uomo è senza dubbio anche un fatto sacro, ma sono le infiltrazioni culturali a rendere espressiva la sacralità. Si crede alle indicazioni della cultura anche nel sacro, insomma è il coro che ordina al protagonista di “essere in quel tempo” assumendo quel ruolo.
AB: Jannis, cosa può esserci d’aiuto oggi?
JK: Oggi come ieri non può essere d’aiuto niente. Serve una grande energia per ristabilire il potere delle immagini.