Trentatré è il numero delle opere che Jeff Koons ha dislocato nelle otto sale del piano nobile e nel cortile dell’edificio rinascimentale di Palazzo Strozzi. “Shine” sembra porre al pubblico una domanda: dopo i mesi appena trascorsi abbiamo bisogno di messaggi positivi e rassicuranti?
La mostra, co-curata da Arturo Galansino e Joachim Pissarro, ripercorre quattro decadi della produzione di Koons. Sala dopo sala le opere sono raggruppate per serie secondo un ordine tematico- narrativo, non cronologico, suggerito dalle parole dell’artista che ricorrono nei pannelli didascalici. Un viaggio che fa riflettere, all’insegna dell’ottimismo e dell’autoaccettazione, attraverso l’esposizione di opere appartenenti alle sue serie più note come “Pre-New” (1978), “Luxury and Degradation” (1986-), “Celebration” (1994-), “Popeye” (2002-), “Antiquity” (2009%2013), “Gazing Ball” (2013%2021).
Con Celebration e Popeye, ready-made di palloncini, giocattoli colorati in acciaio inossidabile vengono levigati per anni fino a diventare superfici specchianti altamente attraenti, apparentemente gonfiabili e trasposti su grande scala. La produzione di Koons è una continua ricerca di un mondo felice ed eterno, finto e utopico.
La vita viene celebrata: gli oggetti vengono animati e sembrano pieni di ossigeno come corpi umani, ma nel rifiuto dell’idea che possano appassire, deperire o morire. Sono palloncini destinati a non sgonfiarsi mai. In Gazing Ball, alcuni grandi capolavori della storia dell’arte sono realizzati nuovamente in studio dai collaboratori dell’artista con l’aggiunta di una sfera blu riflettente in vetro soffiato.
Le opere catturano l’immagine dello spettatore, circoscrivendolo nelle loro forme e facendolo sentire protagonista del tempo passato e presente anziché vittima degli eventi. Secondo l’artista, infatti, è necessario interrogarsi sul vissuto, ripartendo da noi quali singoli individui, ponendoci al centro di ogni opera attraverso un percorso di autoanalisi obbligato basato sulla terapia dello specchio. Lasciandosi guidare dai bagliori, lo spettatore si immerge in un cammino mistico che l’artista definisce filosofico, volto alla trascendenza e al raggiungimento del piacere.
“Penso che quando esci dalla sala, ne esca anche l’arte. L’arte riguarda le tue possibilità come essere umano. Riguarda la tua eccitazione, il tuo potenziale e ciò che puoi diventare. Afferma la tua esistenza”. Messaggi come questo, preconfezionati da Koons come slogan pubblicitari, risuonano come statement fortemente capitalisti e consumisti. Fanno leva sul comune istinto animale che ci spinge al possesso, al collezionismo, soprattutto verso ciò che luccica1.
Le opere trasmettono ideali riconducibili all’individualismo e al machismo, ai deliri di onnipotenza che hanno dilagato negli anni Ottanta e Novanta per poi essere racchiusi sotto l’ombrello dell’antropocentrismo. In relazione a Olive Oyl (2003), uno dei lavori a chiusura del percorso espositivo che tra le molte immagini americanocentriche presenta anche la figura di Superman, l’artista giustifica così la presenza e il protagonismo dell’eroe DC Comics: “quel tipo di potere ha un aspetto pop, ma non è nostalgico. È molto fresco e Superman è proprio come Dio onnipotente”.
La produzione di Koons è rappresentativa di tutti quei difetti del Superuomo che stiamo cercando di superare soprattutto dopo le riflessioni emerse in clima pandemico. “Shine” è una mostra necessaria per farci accettare il fallimento delle generazioni precedenti, del sogno americano e di eroi come Superman, come già evidenziava Philip Roth nei suoi libri.