Di fronte all’ultima opera-provocazione di Damien Hirst, For The Love of God —discusso teschio umano incrostato di diamanti esposto alla White Cube di Londra — ha osservato: “È una brillante trovata pubblicitaria, che sarebbe di scarso interesse se il suo prezzo non fosse stato tanto pubblicizzato”. Salvo poi ricredersi e parlare del gioiello da 50 milioni di sterline come di “una sofisticata fusione di arte concettuale e operazione pubblicitaria”. Ha rischiato la rovina, negli anni Novanta, per produrre il più ambizioso progetto di Jeff Koons, “Celebration”, che aveva accettato di finanziare profondamente convinto della sua potenziale portata artistica. E ancora, si è fatto promotore di una crociata artistico-performativa volta a mantenere vivo lo spirito trasgressivo della Manhattan di Dowtown, organizzando per il terzo anno consecutivo il grandioso happening della Art Parade. Questo e molto altro è Jeffrey Deitch, art advisor, dealer, critico, curatore e gallerista newyorkese tra i più attivi e interessanti delle ultime due decadi. Questo e molto altro appare Deitch attraverso gli occhi del critico del New Yorker Calvin Tomkins, che in un lungo articolo pubblicato lo scorso 12 novembre sulla storica rivista ne traccia un affresco decantato e fedele, mescolando il ritratto biografico con la contestualizzazione in un mercato dell’arte internazionale in continua evoluzione. O piuttosto, in asfissiante e continua ascesa. Un mercato cui Deitch ha assistito e preso parte in tutte le sue oscillazioni, saggiandone i cambiamenti e godendone effetti e difetti nelle sue successive parabole. Così da conoscerlo pressoché alla perfezione, tanto da prevederne gli andamenti con sapiente anticipo. Significativo, in questo senso, l’aneddoto secondo cui il dealer avrebbe profetizzato la svolta epocale dell’asta di arte contemporanea da Sotheby’s lo scorso 15 maggio: sarebbe stata la prima volta in cui il contemporaneo avrebbe superato Impressionismo e Arte Moderna nei risultati finali. E così è stato, grazie alle vendite da capogiro di pezzi di Rothko, Bacon, Basquiat. Un artista, quest’ultimo, coccolato e seguito da Deitch a livello artistico e personale, fino all’elogio funebre tributatogli al precocissimo funerale. Perché una delle linee guida di tutta la carriera di Deitch — come dealer, come consulente, e come profondo amante dell’arte — è l’inscindibile legame tra arte e vita, come discrimine per riconoscere un artista di alto livello.
Tomkins ripercorre le svolte fondamentali della carriera di Deitch nel mondo dell’arte internazionale, fin dagli esordi come art advisor per la CityBank nel 1979, passando attraverso la sua decisione di diventare un dealer indipendente: una carriera solida e lungimirante, che lo porta negli anni tra il 1988 e il 1996 a costruirsi una vasta rete di clienti-collezionisti e di conoscenze tra artisti, curatori, critici, direttori di musei. Oltre a significative collaborazioni con importanti riviste del settore, che lo vedono tra l’altro primo U.S. Editor di Flash Art. Risale alla metà degli anni Novanta la creazione di Jeffrey Deitch Projects, duplice progetto espositivo articolato in due sedi a Soho, alle quali il gallerista dedica ora la quasi totalità delle sue energie (pur non avendo abbandonato completamente la sua attività di consulente e dealer privato). Una programmazione di alta qualità, fresca e trasgressiva, dedita principalmente a testimoniare gli sviluppi della performance newyorkese e internazionale. Più che una semplice galleria, Deitch ama definirla una “piattaforma per una comunità creativa, l’estensione della vita nell’arte e dell’arte nella vita”. Forse, alla base, si avverte la voglia nostalgica di tornare agli anni ruggenti in cui il Village e downtown erano la culla della ricerca artistica d’avanguardia. Gli anni in cui, come il dealer ritiene, “il mondo dell’arte era una comunità, mentre ora è un’industria”. Deitch guarda con lucidità e consapevolezza ai cambiamenti avvenuti nel mondo dell’arte negli ultimi decenni: a livello generale, con l’arrivo di Internet e della globalizzazione, che hanno portato a un dilagare della cultura come industria in settori non più esclusivamente artistici; e a livello più specificatamente di mercato, in cui si assiste allo spostamento dell’asse del collezionismo dall’Occidente all’Est del mondo. Il nuovo collezionismo privato, notano Tomkins e Deitch, è giovane, rampante, e viene dalla Russia, dall’India, da Hong Kong, dalla Corea del Sud. Ed è follemente, morbosamente orientato verso l’arte contemporanea. Il che avviene sostanzialmente per due ragioni: in parte, per una ormai inevitabile scarsità di pezzi importanti di Impressionismo, Post-Impressionismo e Arte Moderna, ma soprattutto è il desiderio di possedere le opere degli artisti più cool del momento a prevalere nel giovane collezionismo dell’Est: sono le star dell’arte contemporanea i bocconi attualmente più appetibili sul mercato. Jeff Koons, Richard Prince, Takashi Murakami e naturalmente l’ancora indiscusso re del mercato mondiale, quel Damien Hirst in cui — per tornare all’aneddoto iniziale — Deitch vede un grande comunicatore e un intelligente sfruttatore della propria immagine a fini promozionali. Vero prototipo dell’artista dell’era moderna, senza alcun dubbio.
I nomi dei grossi collezionisti occidentali — Saatchi, Pinault, Joannou — rivivono intanto nell’articolo di Tomkins in ricordi privati e pubblici, cui Deitch è rimasto indissolubilmente legato. L’autore li dosa con aneddoti e impressioni, mantenendo quasi sempre un tono neutrale per quanto partecipe. Ecco, tra l’altro, il racconto di un recente viaggio ad Atene, in cui Deitch raggiunse Joannou per collaborare come curatore alla realizzazione di “Fractured Figure”, una delle più significative mostre tematiche di opere della collezione del magnate greco. Come è noto, la collaborazione tra i due si è rivelata solida e proficua lungo tutta la carriera di entrambi, e ha visto la realizzazione congiunta di più di una mostra di questo tipo alla Deste Foundation, ciascuna allo stesso tempo testimone e motrice di snodi significativi dell’arte contemporanea. Da aggiungersi, nel caso specifico, il contributo curatoriale di Massimiliano Gioni, giunto ad Atene in compagnia di Maurizio Cattelan per un consulto sul progetto espositivo, volto ad analizzare gli effetti sull’immaginario collettivo degli avvenimenti politici del momento. Una mostra al cui centro si è voluto porre il riflesso dell’attuale condizione umana sulla rappresentazione della figura, in cui Deitch ha letto “un senso di ‘disforia culturale’, uno stato di ansia e insoddisfazione, l’esatto contrario dell’euforia”. Secondo il curatore, la figurazione attuale è “fragile, come le persone reali”. Deitch ha visto nelle opere contemporanee che ha selezionato per la mostra (realizzata lo scorso settembre) il riflesso della nuova ricerca di verità della società contemporanea: una verità nuova, forse disillusa e disincantata, non più volta a una verità assoluta ma figlia di quel relativismo che percorre i giorni nostri. Una verità fratturata, inevitabilmente: di nuovo, figurazione frammentaria, testimone di un mondo a pezzi. Una visione pessimistica? Non sarebbe esatto. Eminentemente realista. Jeffrey Deitch, come emerge dalle pagine di Tomkins, ha i piedi per terra ma uno sguardo alla Luna. Se gli si chiede, come ha fatto il critico del New Yorker, se sia realmente convinto che l’arte contemporanea valga i prezzi da capogiro che sta raggiungendo, la sua risposta è affermativa. Davvero il gallerista è convinto che l’arte dell’ultimo decennio abbia quel qualcosa di eccitante che la rende unica rispetto alle glorie passate. E riflette con disincanto sulla crescita all’impazzata del mercato, il tema su cui Tomkins ama naturalmente interrogarlo di più: questo mercato così straordinariamente internazionale, competitivo, orientato all’estero come mai prima d’ora. Due cose in effetti potrebbero accadere, secondo le previsioni del dealer: che il mercato prima o poi collassi sotto il suo stesso peso, oppure — più probabilmente — che subentri un fattore esterno, come il collasso di parecchi grossi capitali di investimento attualmente coinvolti nell’eccezionale euforia dell’ultimo periodo. “Certo”, afferma Deitch, “penso che prima o poi il mercato subirà un arresto, una discesa, ma poi ricomincerà a salire”. E ancora, “ciò che trovo più rilevante è il fatto che ci sia stato un vero incremento di collezionisti seri, che acquistano opere a lungo termine”. Come quelle gloriose figure a lui care — Joannou, Pinault, Cohen, Eli Broad — che non possono essere intaccate da alcun andamento negativo del mercato, tanto solide sono le loro basi di acquisizioni. E fin che ci saranno figure come le loro, riflette Deitch, non si può che avere una visione sostanzialmente positiva del futuro del mercato dell’arte.
Jeffrey Deitch ora ha cinquantacinque anni, vive da solo in un bilocale di Uptown, va ogni mattina a fare jogging a Central Park, e ancora vive, assolutamente e innanzitutto, di amore per l’arte. Se si entra ora nelle due sedi della galleria, al numero 76 di Grand Street e — a due passi di distanza — al 18 di Wooster, si avverte il peso della tradizione. Mescolato, inesorabilmente, con la profonda consapevolezza del nuovo.