L’interesse di Akomfrah — e della sua generazione — per gli Studi Culturali si è imposto come uno dei principali temi di discussione attorno a uno degli ultimi lavori di Akomfrah, The Unfinished Conversation, 2012, l’installazione video a tre canali, della durata di 45 minuti, interamente dedicata agli anni di formazione del pensatore e teorico di Stuart Hall. Nato in Giamaica nel 1932 (all’epoca ancora colonia inglese) e trasferitosi da studente in Gran Bretagna nel 1951, Hall è figura tra le più brillanti della sua generazione ed è stato un pioniere degli Studi Culturali e della New Left inglese, oltre che fondatore del Center for Contemporary Cultural Studies di Birmingham (CCS) e della rivista New Left Review. Attraverso il film, Hall discute della sua storia, della scoperta e insieme della costruzione della sua identità profondamente legata al multiculturalismo delle sue origini: le vicissitudini personali assumono una dimensione politica — nel senso etimologico di “cosa pubblica” — e suggeriscono così l’idea fondante della stessa metodologia degli Studi Culturali, secondo la quale la propria soggettività si forma attorno e attraverso gli eventi di cui veniamo a fare parte. Presentato per la prima volta nel 2012 all’interno della Biennale di Liverpool, il video è stato esposto in numerosi altri contesti internazionali (come alla 11ma Biennale di Sharjah nel 2013, il New Art Exchange a Nottingham, la Tate Britain a Londra o ancora l’Haus der Kulturen der Welt a Berlino) e si è affermato ogni volta come opera chiave di tali esposizioni. Il lavoro è in altre parole sempre stato capace di abbracciare attraverso la sceneggiatura scelta (il racconto del decennio 1950 – 1960 in relazione alla storia di Hall) i fatti privati e gli avvenimenti storici del periodo (come l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica, la crisi di Suez o ancora l’invasione dell’Egitto da parte della coalizione franco-inglese-israeliana). Il lavoro ha così saputo soprattutto coinvolgere lo spettatore in una struttura narrativa complessa e coinvolgente, che testimonia quanto i processi che concorrono alla costruzione dell’identità culturale siano una conversazione mai finita. Artista e cineasta tra i più sofisticati nell’interpretare il tema della diaspora della cultura africana in Europa, Akomfrah (Accra, Ghana, 1957) è noto per essere un pioniere del black cinema inglese e per aver fondato, con Lina Gopaul, Avril Johnson, Reece Auguiste, Trevor Mathison, David Lawson e Edward George il Black Audio Film Collective. Attivo dal 1982 al 1998 il gruppo di ricerca è considerato uno dei più influenti collettivi artistici emersi in Inghilterra negli ultimi anni, impegnato nella produzione di film, fotografia, video, installazioni e interventi in ambiti istituzionali e spazi indipendenti. Con dovizia di documenti d’archivio orchestrati all’interno di storie personali e collettive, immagini familiari e documenti di cronaca, la filmografia del BAFC ha investigato figure seminali d’intellettuali e pensatori del XX secolo (come per esempio in Seven songs for Malcom X, 1993) accanto alla ripresa di fenomeni di disobbedienza sociale sviluppatisi durante gli anni Ottanta in Inghilterra (come in Handsworths Songs, 1986). Questi ultimi sono stati letti come prime espressioni di storie nascoste, legate ai disordini sociali e alla profonda insoddisfazione culturale ed economica sorta a partire dal dramma del declino industriale inglese durante il governo della “Iron Lady”, Margaret Thatcher. Per Akomfrah dunque, e la generazione degli intellettuali formatisi negli anni Settanta, i Cultural Studies erano prima di tutto una voce critica, che privilegiava all’accento sull’identità quello sulla struttura narrativa di una conversazione infinita in grado di sciogliere in immagini e suoni le problematiche connesse al tema della memoria, del dislocamento identitario, della storia e della cultura. Affermatisi in Gran Bretagna a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, e in modo particolare attorno alla nascita del Center for Contemporary Cultural Studies di Birmingham gli Studi Culturali sono di fatto una risposta alla necessità di includere nello studio della critica letteraria e degli studi sociali la complessità del reale, data dalla interrelazione tra pratiche sociali e comunicazione di massa, le ricerche sulla antropologia tanto quanto quelle sulle dinamiche socio-politiche. In questa prospettiva, gli Studi Culturali si sono offerti come territorio ibrido, ontologicamente aperto alla contaminazione tra discipline e contrario a ogni confine ideologico definito, affermandosi progressivamente come il terreno privilegiato di verifica e analisi delle tematiche più rilevanti della seconda metà della seconda metà del XX secolo, quali per esempio il razzismo, la conquista dei diritti civili, il femminismo, il post-colonialismo, la sessualità, la diversificazione delle classi sociali, la relazione tra media, politica e ideologia, affrontanti sempre evitando ogni categorizzazione e classificazione enciclopedica. Nel video moltissimi sono i footage tratti da programmi televisivi. Il ruolo dei mass media, e della relazione tra media-politica e ideologia è stata d’altronde al centro di alcuni tra i più significativi articoli di Hall stesso, come per esempio The Unity of Current Affair Television, pubblicato per la prima volta nei “Working papers” in Cultural Studies, della Università di Birmingham nel 1976 e analizzato da Angela McRobbie nel libro The Uses of Cultural Studies (Sage, 2005).
Anche in The Unfinished conversation sorprendente è il ruolo della televisione e la capacità di Akomfrah di trattare l’archivio visivo della televisione come parte del vocabolario che concorre alla costruzione dei processi identitari, al pari di una lettera, un documento, un verso di Virginia Woolf, un brano di Miles Davis. Sui tre grandi schermi che avvolgono lo spettatore scorrono fatti e immagini ritmate da una colonna sonora calibrata e appassionante, e anche qui in grado di alternare trasmissioni radiofoniche e televisive del periodo a brani tratti da William Blake, Charles Dickens, Virginia Woolf e Mervyn Peake e a partiture jazz e gospel. La televisione come “educatore”, come strumento in grado di produrre una conoscenza alternativa e in parte migliore del profilo proposto dall’accademia parte proprio dal suo utilizzo come schermo capace di alternare immagini in movimento a un bagaglio di informazioni laterali, storie parallele, cariche di possibilità e potenzialità espressive. In questo modo Akomfrah rivela ancora una volta il suo interesse nell’investigare le possibilità della narrazione all’interno della quale i protagonisti, centrali come Hall o così detti “silent partners”, come li definisce l’artista stesso a partire dal titolo del libro a cura di Slavoj Žižek, LACAN: the Silents partners (2006), concorrono allo stesso modo ad aprire il progetto ben oltre i confini della biografia. Non una disciplina accademica dunque, ma un’energia nuova che dava vigore all’importanza della storia, della congiunzione dei fatti, della narrazione e del discorso, per Akomfrah i Cultural Studies sono stati prima di tutto una voce critica, che privilegiava all’accento sull’identità quello sulla struttura narrativa di una conversazione infinita. Processo cognitivo dunque, prima che organizzazione sistematica del sapere, gli Studi Culturali e, come loro figura seminale e pionieristica lo stesso Stuart Hall, rispondono anche sul piano della ricerca visiva di un artista come Akomfrah al bisogno di abbracciare la complessa interrelazione tra i fatti e le vicende che concorrono alla costruzione di una cultura contemporanea con i suoi conflitti, i suoi tratti distintivi e i suoi strumenti.
Nei 45 minuti spesi a guardare The Unfinished Conversation tutto questo ovviamente non si dice, ma si percepisce chiaramente. La costruzione di un’identità culturale che viene descritta attraverso il percorso formativo di Hall è una esperienza affatto esistente, ma del tutto in divenire, come lo è la visione dell’opera. I tre schermi sono a loro volta tre narrazioni possibili: le immagini s’integrano perfettamente l’una nell’altra senza tuttavia eliminare la possibilità di essere lette individualmente o in combinazioni diverse. In questo modo le cronologie, i passaggi tra passato e presente, tra personale e collettivo sfumano in un continuum. E forse anche per questa ragione i 45 minuti passano in fretta: terminano i titoli di coda e la storia riprende di nuovo, come un file inedito di una conversazione infinita, piuttosto che una ripetizione di un capitolo già letto. Muovendo la macchina da presa tra accenti poetici e una solida documentazione d’archivio, il tempo perde i suoi connotati. Il ritmo della narrazione si fa palpitante e chi guarda si sente parte del pentagramma, di una esperienza visiva, di grande carica emotiva.