Durante l’estate del 1888, seguendo il consiglio dell’artista Paul Gauguin, l’artista Paul Sérusier soggiornò nella località francese di Pont-Aven in Bretagna. Durante il loro soggiorno Sérusier creò il famoso capolavoro Le Talisman, l’Aven au Bois d’Amour, che portò a Parigi e mostrò ai suoi compagni artisti, i quali successivamente si definirono i Nabis, che in ebraico significa “profeti”. Quest’opera d’arte divenne per i Nabis un oggetto magico, un talismano appunto, il che spiega la possibilità che il titolo originale fosse semplicemente l’Aven au Bois d’Amour prima che fosse riconsiderato e quindi denominato Il talismano, l’opera d’arte che tutti conosciamo. Un altro elemento importante sta sul retro del dipinto che porta la firma “Fait en Octobre 1888, sous la direction de Gauguin par P. Serusier Pont-Aven” che significa “Fatto nell’Ottobre del 1888 sotto la direzione di Gauguin da P. Serusier Pont-Aven”. In altre parole Il talismano fu creato da Sérusier sotto l’influenza di Paul Gauguin.
Il mio tentativo di delineare le misteriose opere di Jules de Balincourt ha molto a che fare con questa storia. Fingiamo per un minuto che Bushwick, Brooklyn, sia come Pont-Aven. Immaginiamo per un secondo che il giovane e desideroso di imparare non è l’artista Sérusier ma bensì un redattore. Immaginate un Gauguin contemporaneo che vive un isolato dalla casa del redattore su Starr Street dove ha uno spazio che ospita eventi, mostre, feste e lezioni di yoga. Dettaglio fondamentale: questo spazio, il suo studio, è il luogo dove crea i suoi lavori.
Ora convincetevi, come fece il redattore, che è possibile scrivere un talismano, o meglio, per essere più chiari o più misteriosi a seconda dei casi, che è possibile scrivere non un testo su Jules de Balincourt ma piuttosto un testo sotto l’influenza di Jules de Balincourt. Vi avverto non sarà un compito facile. L’artista si rifiuta di rilasciare interviste, si rifiuta persino di parlare del lavoro. Allo stesso tempo svela frammenti della sua immaginazione che il redattore tenta di carpire mentre il suo sguardo è rapito dall’immaginario allucinogeno delle opere d’arte che vede durante le sue visite allo studio. L’artista dichiara: “è un universo dove l’astratto e le immagini rappresentative sono in collisione, orbita e satellite tra loro medesimi, creando pensieri liberi e narrative non lineari”. Il redattore è confuso. Scrivere non è sua abitudine. Preferisce lasciare fare ad altri, osservando come un voyeur, come lo scenografo che sta “dietro le quinte”. Nello specifico quando scrive fa spesso uso di note a pie’ di pagina e referenze, sentendo che la sua voce non è abbastanza autentica se non supportata dalle fonti da cui ha preso spunto.
Allo stesso tempo sa che questa volta non può seguire lo stesso metodo di lavoro. Deve lasciarsi ammaliare da queste immagini e da chi le ha prodotte. Deve sentire i profumi delle immagini che ti disorientano, della tavolozza che vibra di colori iridescenti. Cerca di capire da dove proviene quell’immaginario; pensa che Out of the Darkness and Into the Light (2009-2010) è direttamente collegato a un viaggio in moto che l’artista ha compiuto in India (forse una nuova Tahiti?) qualcosa che il redattore ha scoperto da un amico in comune con l’artista. Vanno insieme a vedere la sua ultima personale a Manhattan e il redattore rimane ipnotizzato dall’aura che quei dipinti emettono sulle pareti di una celebre galleria su Wooster Street. Li ha visti letteralmente brillare poiché i dipinti sono stati fatti su dei pannelli di legno e montati su una struttura che crea uno scalino e che permette alla luce di infrangersi e proiettare luci colorate sul muro. Questa situazione crea il seguente risultato: quando tenti di togliere lo sguardo dalle narrazioni immaginative (o meta-narrazioni) dei dipinti, del conflitto figurazione contro astrazione, sei rapito da queste strisce di ombre verdi, rossi o blu che circondano il muro intorno al quadro. Il redattore non può fare a meno di pensare a ciò che Gauguin disse a Sérusier: “come vedi questi alberi? Sono gialli, quindi metti del giallo; quest’ombra, piuttosto blu, va dipinta in puro oltremare; queste foglie rosse? Metti del vermiglione.”
Un alto tentativo è di associare il suo lavoro a quello degli artisti della sua generazione. Pensa a Dana Schutz o Christoph Ruckhäberle, oppure pensa ad artisti di generazioni precedenti come Luc Tuymans e Marlene Dumas e al loro uso di Internet. E poi c’è anche Neo Rauch il cui lavoro di sicuro ha inspirato Jules de Balincourt. Ma purtroppo non funziona così. Successivamente cerca di incorporare il lavoro dell’artista in quello che defininisce “Craft”, capendo che Jules de Balincourt non ha niente a che vedere con lo strategico pre-confezionato dell’Arte Concettuale, il suo lavoro non ha una ricetta o una strategia di marketing. Nel suo lavoro vede genuinità e un lato naif. L’artista non sembra avere nessuna altra preoccupazione se non quella di creare immagini mozzafiato. Il redattore sente che può procedere in questa direzione grazie alla sua conoscenza di questo argomento su cui ha scritto e con il quale ha una certa familiarità e dimestichezza. Il fatto che Jules de Balincourt abbia vissuto a Parigi, Zurigo e Ibiza, che sia cresciuto in California in una famiglia francese e studiato ceramica prima di trasferirsi a New York gli permette di compiere questa scelta. Ma poi realizza che questi lavori rifiutano la parola “fatto” sin dal primo momento.
Va ancora a visitare l’artista nel suo studio, che è dietro l’angolo dalla sua casa. Gli chiede come crea i suoi dipinti e il tipo di tecnica usata. L’artista risponde vagamente e il redattore chiede di più a scanso di dubbi, ma poi quando esce dallo studio e vaga per le strade vicine al Maria Hernandez Park dove corre e prega tutti i giorni realizza che tutti i dettagli tecnici sono svaniti dalla sua mente e solo le immagini rimangono impresse.
In Drawing Color Lines (2010) linee verdi brillanti e rosse su sfondo nero disegnano due profili umani che si incontrano come se fossero esseri umani, forse amanti, fatti di sole vibrazioni. In City Dwellers and Star Seekers (2010) un paesaggio metropolitano che potrebbe essere tanto Rio de Janeiro quanto Los Angeles, o magari Gotham City, rivela un baccanale di uomini e donne che si ritrovano in un rendez-vous surreale. In When’s my home leave? (2011) un soldato le cui sembianze, gli occhi e la bocca color lapislazzuli, fanno pensare a un personaggio del capolavoro di James Ensor L’entrata di Cristo a Bruxelles (dipinto nel 1888 come Il Talismano di Sérusier), continua la linea più politicizzata di de Balincourt di cui fanno parte lavori com If You See Something Say Something (2004), The Watchtower (2005), We Warned You About China (2007), Ambitious New Plan (2005), US World Studies (2005), United We Stood (2005) e l’emblematico Holy Arab (2007). Untitled (Boys’ Club), (2011) che è forse il più fotografico fra i suoi lavori e può sembrare la scena di film tanto diversi come The Social Network e L’attimo fuggente. Sebbene i due nativi americani ritratti in Dismounted (2010) possano dare spunto a interpretazioni politiche il redattore non può fare a meno di pensare ai cavalli dipinti da Marc Chagall, da Il cavallo blu a Il cavallo rosso, per non nominare il suo onirico capolavoro Io e il villaggio. Il viaggio termina con Technology Fails Me Us You (2008), dove un groviglio inestricabile di fili diventa il simbolo della nostra realtà, simbolo di quel che è rimasto nell’odierna società digitale.
Si vede con l’artista un’ultima volta nello studio. Appesi ai muri ci sono dei lavori che cominciano a parlare, sono lavori “radiosi” sia letterlamente che metaforicamente. Nel loro “parlare” questi lavori continuano il loro discorso sullo svilupparsi di questa tecnica, di come la resa dei dipinti possa ricordare i pixel delle immagini online. In altri casi il redattore nota come l’artista ha “attaccato” i lavori (tutti su pannelli di legno), graffiando e togliendo i colori per poi dipingere di nuovo sotto l’influenza di una furia visionaria. Li immagina disposti a quadreria, una disposizione che oltre al salon francese fa pensare a quando con un Mac puoi vedere, simultaneamente, tutte le finestre aperte sulla tua scrivania. Un dipinto nello studio, che l’artista descrive come un mix tra una marcia, una celebrazione e una rivolta, fa di nuovo venire in mente Ensor. Un altro, un dettaglio del pattern di un tessuto, sembra un panopticon (pensiamo a Michel Foucault) e questo dettaglio porta i due a discutere sul concetto di lavoro nella società americana vista dagli occhi di due europei a New York.
Verso la fine del suo percorso il redattore realizza che ha fallito di nuovo, è caduto nella trappola che ha tentato di evitare con tutte le sue forze. La storia, le informazioni e la tradizione dell’arte visiva hanno sopraffatto la sua immaginazione. Non è ancora pronto per spingere sé stesso verso un nuovo livello, non è ancora pronto a svuotare la sua mente, lasciando scorrere la sua immaginazione liberamente. C’è ancora molto da fare e ancora molto da dimenticare. Realizza solo ora che perfino la massima del pittore Nabis Maurice Denis: “Ricordati che un quadro, prima di essere un cavallo da battaglia, un nudo o un aneddoto qualunque, è essenzialmente una superficie piana coperta da colori disposti in un certo ordine” non è altro che pura poesia. Consapevole del suo desiderio, della volontà di imparare a dimenticare non può fare a meno di pensare a Paul Gauguin, che una volta disse: “È l’occhio dell’ignoranza che assegna un colore fisso e immutabile ad ogni oggetto, guardatevi bene da questo scoglio”.