Ai Wei Wei, l’artista-architetto più noto della Cina, è cresciuto in esilio, nella remota zona desertica dello Xinjiang. Suo padre, il celebre poeta Ai Qing, accusato di attività anticomunista durante la Rivoluzione Culturale, fu mandato al confino con la famiglia e costretto a vivere in una baracca senza acqua corrente e senza elettricità. Ai Wei Wei mi dice in un’intervista [pag. 91] di non provare rancore nei confronti del regime, semmai preoccupazione per la velocità con cui sta cambiando il suo Paese. Si tratta in effetti di uno dei pochi intellettuali cinesi impegnati a comprendere e a raccontare cosa stia accadendo oggi in Cina. L’ho incontrato a Pechino, lo scorso settembre, sotto un cielo grigio e inquinato, in occasione di un convegno organizzato da Art Basel presso il Museo Nazionale. Il meeting, il cui tema generale era il sistema museale cinese, si è trasformato rapidamente in una sorta di atto di accusa, da parte di critici e curatori come Huang Du e Fei Dawei, dei limiti e delle inadeguatezze del circuito locale dell’arte contemporanea. Tutti ovviamente stanno beneficiando della straordinaria attenzione che l’Occidente dedica in questo momento alla Cina, ma la sensazione diffusa è che questa immensa regione asiatica rappresenti in realtà solo l’ultima Mecca di un esercito di speculatori. Secondo Fei Dawei, il mercato internazionale sta condizionando lo sviluppo — e forse la direzione stessa — dell’intera scena artistica cinese.
L’intervento più duro è proprio quello di Ai Wei Wei, il quale da un lato mette in dubbio l’utilità stessa del discutere dei futuri musei cinesi con il jet set internazionale, e dall’altro invita a ragionare attorno a questioni che ritiene ben più significative per la Cina di oggi, come ad esempio quella relativa ai diritti civili.
MERCATO E REGIME
In Occidente si tende in effetti a dimenticare che la Cina, nonostante le riforme economiche di Deng Xiaoping, è oggi più che mai in balia di un Partito Comunista dispotico, nepotista e mafioso. Qui, artisti e galleristi fanno quotidianamente i conti con la censura; spesso le mostre vengono chiuse, le opere bandite e i cataloghi sequestrati. Lo scorso maggio due artisti, invitati a una mostra a Shanghai, sono stati arrestati per i contenuti “pornografici” delle loro opere. Insomma, mentre numerose gallerie occidentali, non sempre di primo livello, vanno a caccia dei cosiddetti nuovi talenti per soddisfare la “febbre gialla” di un crescente numero di collezionisti, in Cina alcuni critici, curatori e artisti stanno cercando faticosamente di mettere in piedi una parvenza di sistema dell’arte. è chiaro che, in questa fase, personalità come Fei Dawei guardino con preoccupazione alla crescente agressività del mercato internazionale, il quale — da un paio di anni a questa parte — sembra letteralmente fuori controllo. Secondo Zhang Wei — direttrice di Vitamin Creative Space — l’estrema disponibilità del mercato ad assorbire qualsiasi cosa provenga dalla Cina sta pregiudicando la qualità stessa dei lavori. Per questa ragione, nonostante il numero crescente di gallerie che aprono quotidianamente in quartieri dedicati esclusivamente all’arte, come la Factory 798 di Pechino o il Moganshan Road Art District di Shanghai, non è semplice trovare in Cina una mostra decente, o lavori che non siano studiati a tavolino, secondo gusti e aspettative importate. Ciò che è mancato fino a oggi in questo Paese, e che si sta lentamente cercando di costruire, è insomma una piattaforma critica autonoma, un sistema articolato di critici, storici, curatori e galleristi in grado di raccontare e sostenere l’arte cinese dall’interno.
SHANGHAI
Eppure, rispetto a quando Frank Uytterhaegen e Ai Wei Wei organizzavano nei primi anni Novanta delle piccole mostre semiclandestine all’interno dell’appartamento di Hans Van Dijk a Pechino, molte cose sono cambiate in questo immenso Paese. A Shanghai, per esempio, un anno fa ha aperto i battenti il MOCA, un centro per l’arte contemporanea che ha poco o nulla da invidiare ai più moderni musei occidentali. Immerso nel verde di un parco situato nel perimetro del “People’s Park”, il MOCA ha avviato — tra le altre cose — una sorta di analisi sistematica del panorama artistico del Paese. Ogni due anni, una mostra-ricognizione “tematica” sull’arte cinese, chiamata “MOCA Envisage”, sarà inaugurata parallelamente alla Biennale di Shanghai. “Entry Gate: Chinese Aesthetics of Hetereogeneity”, la prima rassegna di questa serie, inaugurata lo scorso settembre, si è posta subito come uno degli appuntamenti più interessanti del variegato, spesso mediocre, panorama espositivo locale. Curata da Victoria Lu e da una serie di collaboratori, la mostra ha voluto rendere conto dell’eterogeneità e della complessità dell’arte contemporanea cinese, e al tempo stesso metterne in risalto l’unicità rispetto a quella occidentale. Qualcosa nella mostra non ha funzionato a perfezione e forse il rapporto tra contemporaneità e tradizione, così importante anche per altri Paesi di questa area come il Giappone, poteva essere indagato più a fondo. Eccessivamente didascalico è sembrato per esempio l’approccio di Wang Mai, con la sua lanterna rossa appesa al soffitto, così come superficiale e pretestuosa appare la pittura segnica di Tian Wei, o anche la performance su un box luminoso del trio Dant Den, Victor Liu e Tim Chen. Eppure, complessivamente “Entry Gate: Chinese Aesthetics of Hetereogeneity” contribuisce a creare un’immagine interessante e variegata della scena artistica di questo Paese, mostrando personalità anche molto distanti fra loro come il giovane videoartista Yang Fudong e il settantenne scultore artigiano Zhou Changxing. Curiosa anche la contrapposizione tra il gruppo di artisti del Nord, più formalisti, come Ai Wei Wei, Zhan Wang e Tian Wei, e quelli provenienti dal Sud del Paese, più interessati a costituire — come sostiene in catalogo la stessa Victoria Lu — un’atmosfera poetica e lirica, come Lu Fusheng, Zheng Zaidong e Huang Chih Yang. Purtroppo non si può dire lo stesso della 6a edizione della Biennale di Shanghai. L’obiettivo del team curatoriale, diretto da Zhang Qing e composto da Huang Du, Gianfranco Maraniello, Shu-Min Lin, Wonil Rhee e Janathan Watkins, è quello di indagare le contaminazioni tra arte e design, e quindi di mettere in evidenza la centralità del ruolo del design nel colmare il divario tra arte e vita. Si tratta di un tema interessante e cruciale per una cultura come quella cinese, che ha fatto storicamente del design una forma d’arte privilegiata. Tuttavia, solo raramente i lavori selezionati dimostrano un qualche legame con l’idea curatoriale di base. In generale l’intera mostra, affollata nei diversi piani dello Shanghai Art Museum, si pone come un ammasso di opere incapaci di dialogare non solo con il tema scelto, ma anche fra di loro e con l’angusto spazio che le ospita. Si tratta di un’esposizione generica e discontinua, che spazia da alcuni lavori troppo vecchi, come Ikea Furniture (1999) di Joe Scanlan, ad altri semplicemente mediocri, come le tele di Yang Qian e di Zhong Biao, dalle presenze scontate, come quelle di Sylvie Fleury, Julian Opie e Yoshimoto Nara, ad altre semplicemente inspiegabili, come nel caso delle fotografie di Ron Terada e Caro Niederer, o delle sculture di Peter Callesen e di Gerda Steiner & Jörg Lenzlinger. Non basta la presenza dei lavori di Matthew Barney, Jorge Pardo, Annika Larsson, Hans Op de Beeck, Atelier Van Lieshout, Patrick Tuttofuoco e pochi altri a salvare questa Biennale da un fastidioso effetto “fiera d’arte di serie B”. Troppo folta, infine, la pattuglia degli artisti asiatici il cui lavoro ricorda da vicino quello di più noti artisti occidentali, come nel caso del coreano Cody Choi, impegnato a fare il verso alla pittura di Gerhard Richter, oppure del fotografo Wang Guofeng, che presenta una versione cinese del lavoro di Andreas Gursky, e per chiudere, Qiu Anxiong, che imita invece le animazioni di William Kentridge. Questa Biennale da un lato non assolve al ruolo di informare il pubblico sugli aspetti più interessanti della ricerca in atto, almeno in Cina, e dall’altro fallisce nel tentativo di esprimere un qualche punto di vista sull’arte di oggi.
TRA OCCASIONI PERDUTE E SPERANZE RITROVATE
In un Paese dove l’attività espositiva è gestita quasi esclusivamente dalle gallerie private, biennali di questo genere rappresentano a dire il vero un cattivo affare. In Cina le occasioni per mettere in piedi delle mostre di ampio respiro, in grado di proporre una lettura della ricerca contemporanea in corso, sono insomma piuttosto rare. Così come sono ancora poche quelle realtà che tentano di sostenere e stimolare la giovane arte, se escludiamo l’interesse del mercato nei confronti degli ipotetici “nuovi talenti”. Tra queste merita senz’altro di essere ricordata BizArt a Shanghai, forse l’unico non profit cinese nel senso classico del termine. BizArt è un’associazione composta quasi esclusivamente da artisti, ed è diretta dallo storico dell’arte Davide Quadrio e dall’artista Xu Zhen. Con i suoi 1.500 mq situati nel Moganshan Road Art District, questo spazio rappresenta una delle realtà più interessanti della Cina di oggi. Finanziato dai suoi soci e da sponsor privati, BizArt si occupa della promozione e della diffusione della giovane arte cinese, dell’organizzazione di mostre e di vari eventi culturali. Nel corso dei suoi otto anni di storia, l’associazione ha prodotto ed esposto opere di artisti diventati in seguito delle star, come Yang Fudong, Shi Yong, Zhao Bandi, Song Dong, Yang Zhenzhong, Gu Lei, Song Tao, Liang Yue, Hu Jie Ming, ecc. Oltre ai soliti tre o quattro eventi espositivi al mese, Davide Quadrio e Xu Zhen organizzano inoltre due residenze per artisti asiatici.
Un altro spazio molto interessante è Vitamin Creative Space a Guangzhou, il quale —sebbene non sia un non profit — cerca di ritagliarsi un ruolo di spazio indipendente. Come sostengono i fondatori di Vitamin, Zhang Wei e Hu Fang, tra le personalità più brillanti del panorama cinese, “l’obiettivo essenziale di Vitamin è cercare di capire cosa sia l’arte contemporanea in Cina, e riconoscere le sue potenzialità nel contesto cinese”. Attraverso l’organizzazione di mostre e soprattutto di workshop, Wei e Fang tentano di creare degli spazi di confronto e di riflessione. In questo periodo, Vitamin sta organizzando per esempio una serie di workshop in una località di montagna, dal titolo “Fools Move Mountains”. L’idea di base è di mettere insieme non solo artisti ma anche filosofi, architetti e designer, al fine di comprendere meglio, e in modo più ampio, il “sistema Cina” e le sue rapide trasformazioni. Ovviamente sia a Shanghai che a Pechino operano poi importanti gallerie private, spazi ormai noti, come ShanghArt, Eastlink, Vanguard Gallery, Art Scene China, Red Gate Gallery, Long March Foundation, Chinese Contemporary, Beijing Commune, Galleria Continua, Galleria Marella, ecc. Nessuno vuole ingenuamente mettere in dubbio il ruolo, culturale ed economico, che queste gallerie hanno nella definizione e nella costituzione del nascente sistema dell’arte in questo bizzarro Paese comunista. è anche vero però che le gallerie da sole non bastano, “this is not enough”, ripete varie volte Fei Dawei al meeting organizzato da Art Basel. Tutti in questo Paese sperano che prima o poi si cominci a parlare di arte contemporanea in Cina, e non di arte “contemporanea cinese” come fenomeno trendy e di mercato. Fino a che l’arte cinese non sarà in grado di sottrarsi a questa immagine stereotipata di “etnoavanguardia”, il suo sistema dell’arte non potrà dirsi né autonomo né tantomeno sicuro per gli stessi collezionisti.