La stretta sintonia con alcune forme di spettacolo, che può far storcere la bocca ai puristi, nostalgici delle azioni dure e fredde degli anni Sessanta e Settanta, tradisce in realtà le origini “popolari” della performance. Non è nata, la performance futurista, in un teatro? E non ha visto i suoi esordi, quella dadaista, in un cabaret? Non sono state l’ironia, la parodia, la provocazione finalizzata a coinvolgere un pubblico largo, i primi strumenti usati per scandalizzare i benpensanti?
È chiaro che questa consonanza con l’entertainment fa sì che questo genere di performance possa sfiorare facilmente il kitsch. Il linguaggio dei media, quello della società dello spettacolo insomma, viene ripreso da questo genere ibrido, basato sul plurilinguismo, sulla mescolanza, sulla sovrabbondanza.
Jason Rhoades, che della sovrabbondanza da gran bazar era un campione, poco prima di morire, nel 2006, ha dato luogo nel suo studio a quella serie di serate molto libere e partecipative che andavano sotto il nome di “Black Pussy Soirée Cabaret Macramé”, dove in una specie di Merzbau stracolmo di oggetti e scritte al neon (con decine di modi diversi per indicare il sesso femminile) ognuno interveniva inscenando concerti o reading: tra il mercatino di Portobello e il programma La corrida.
La moltiplicazione degli oggetti in scena e il loro utilizzo stravagante, la commistione di generi, sono il metodo prevalente anche di alcuni europei, quali John Bock e Jonathan Meese. La differenza principale, tra i due, è che mentre il primo materializza le sue performance nonsense attorno a temi generali, in cui prevale il mondo della scienza e della fantascienza, dove l’artista è un po’ sempre l’inventore pazzo che sperimenta strane associazioni, il secondo mantiene una forte attenzione alla Storia, specie a quella della Germania. Qualche anno fa, in un teatro sperimentale di Berlino, per esempio, Jonathan Meese rappresentò per oltre cinque ore Mutter Parzival (2005), articolando discorsi e gesti con l’aiuto di oggetti, mentre dalla Staatsoper andava in diretta il sottofondo sonoro del Parsifal wagneriano. Tra saluti nazisti, croci, fucili, scheletri e bottiglie di vino, scorre via con leggerezza la decadenza della Germania e dei suoi simboli.
Ma il kitsch si presenta anche sotto forma di parata o di sfilata. Come non ricordare quelle memorabili di Fabrice Hybert alla Biennale di Venezia del 1997 (che ricostruiva un atelier di moda) o di Jeremy Deller a Manifesta 5 a San Sebastian (con vari gruppi e associazioni che sfilavano ciascuno con differenti simboli e costumi). Su questa scia Jeffrey Deitch ha addirittura ideato l’Art Parade, organizzata annualmente a New York, a cui partecipano decine di artisti, anche sconosciuti. Quanto al rapporto tra performance e realtà, è interessante notare come queste parate non si discostino troppo da incontri popolari come i gay pride o le feste di Carnevale.
Basta la parola
Se le performance futuriste erano in gran parte giocate sulla parola, con monologhi/comizi che portavano sul palco la stessa imitazione della politica che sulla carta aveva dato luogo al testo/manifesto, nulla di come la parola era stata fino allora restava inalterato. Il Futurismo mirava a scomporre il sistema rigido della tipografia, per riscoprire la sonorità della lingua, con tutto il suo potenziale di rottura del sistema sociale e culturale vecchio e anchilosato. La declamazione entrava così decisamente nell’agone artistico fin dagli esordi del genere performativo, assumendo nel corso del tempo, dalla poesia sonora alle lezioni beuysiane, un ruolo sempre più importante.
Se la sfida al kitsch rappresenta l’ala sensuale, mondana, della ricerca performativa, l’uso della parola la colloca maggiormente sul piano concettuale. Tutti ricordano, per esempio, la durezza e l’impietosità della performance di On Kawara a documenta XI (re-enactment di una performance realizzata già al Dia Center for the Arts di New York nel 1993), con alcuni attori che si alternavano a leggere una sequenza di numeri per tutta la durata della mostra. Rainer Ganahl recita invece in modo asettico per ventiquattro ore Il Capitale di Karl Marx, ma anche Antonio Gramsci e Pierpaolo Pasolini.
Ma l’oralità diviene spesso anche un mezzo carico di empatia, capace di toccare i tasti della sensualità. Che la parola non sia più solo rigore, punizione, censura, ce lo dice anche il versante della poesia. Dopo illustri oratori della vecchia guardia, come Allen Ginsberg o l’italiano Arrigo Lora Totino, le generazioni di poeti più recenti hanno riscoperto il piacere del certame: si incontrano su un palco, recitano o leggono animatamente di fronte a un pubblico; il pubblico vota, un poeta vince. La parola recupera così tutte quelle variazioni di toni e di espressività che il suo prevalente uso scritto aveva cancellato.
Siamo di fronte a un uso preponderante ma, tutto sommato, ancora parziale della parola, che partecipa alla performance assieme ad altri agenti, primo fra tutti l’espressività corporea. Ma a volte la parola diviene l’unico mezzo di comunicazione, la performance può anche essere ridotta a lecture, a pura narrazione. Alejandro Ramirez, costaricano che lavora mescolando la cultura hip hop con quella popolare del suo paese, fa raccontare a un’anziana signora una fiaba in cui si critica apertamente la possibilità di giustificare tutto attraverso l’arte. Una soluzione che consente all’artista di tirarsi fuori, almeno idealmente, dal sistema dell’arte, gettando un’ombra di dubbio sulla legittimità di tante asserzioni artistiche. L’italiano Nark Bkb prende una strada ancora più drastica, eliminando dal palco ogni presenza e lasciando solo una voce amplificata: è quella di Marco Pannella, il vate del Partito Radicale, che parla sotto l’effetto dell’astinenza dal cibo per lo sciopero della fame. Senza altre distrazioni, senza effetti, la voce registrata suggerisce insospettabili osservazioni sul rapporto tra la fame e la parola, intesa non tanto come linguaggio formalizzato, ma come frutto delle associazioni mentali intuitive del parlante: le idee scaturiscono senza freni inibitori dalla chimica del corpo.
Da ultimo non va dimenticato Francesco Vezzoli, che proprio di recente, in occasione di Performa 07, al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, ha riproposto una lecture di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello. La tipica atmosfera glamour cara all’artista, garantita dalla presenza tra il pubblico di attrici quali Anita Ekberg, Uma Thurman e Brooke Shields, viene incrinata, messa in dubbio dallo stesso testo. Siamo ciò che crediamo di essere o siamo come gli altri ci vedono? E quanto questa domanda che rimbalza nelle parole della vicenda pirandelliana possa toccare il mondo delle star hollywoodiane è abbastanza evidente.
Uno strumento politico
La capacità della performance di essere aderente alla realtà, di mescolarsi con essa, le consente talvolta di addentrarsi al suo interno toccando questioni politiche e sociali, soprattutto quando inaspettata, realizzata occupando di nascosto spazi e situazioni. Del resto, in questo senso la performance si connette alla più antica delle azioni politiche, la protesta, spesso fatta proprio attraverso atti di “guerriglia”, intrusioni, segnali arguti magari iscritti la notte sui muri. È il caso di molti artisti dell’America Latina, dove le condizioni politico-economiche depresse e, se vogliamo, un certo temperamento “caliente”/militante dei suoi abitanti favoriscono le azioni di carattere politico. Anibal Lòpez, che da qualche anno preferisce farsi chiamare con la sigla del suo passaporto A-1 53167, ne ha realizzate alcune memorabili, come quando ha rapinato una persona per produrre con il ricavato una mostra (El préstamo, 2000), o quando ha cosparso di carbone la strada di Città del Guatemala dove il giorno dopo (30 de Junio, 2000) avrebbe dovuto marciare in parata l’esercito: i neri segni lasciati dagli scarponi al passo di marcia, che trascinavano inevitabilmente il carbone con sé, rappresentavano bene la metafora di un potere cieco e inflessibile.
Anche se spagnolo, si colloca pienamente nell’atmosfera latinoamericana Santiago Sierra, che almeno fino a un anno fa aveva del resto scelto Città del Messico quale base d’azione. Dopo aver pagato delle persone per farsi tatuare una linea sulla schiena e dopo aver chiuso il padiglione spagnolo della Biennale di Venezia lasciando la possibilità di entrare dal retro solo ai detentori di un passaporto iberico, un paio di anni fa a Stommeln, presso Colonia, nell’antica sinagoga, ha toccato il tema scottante dell’olocausto. La sinagoga era piena di CO2, emessa da automobili collegate con l’interno. Il pubblico poteva accedere con la maschera. Ma le maschere antigas, di un unico formato, non erano adatte a tutti; solo chi aveva la testa di una certa proporzionata misura poteva utilizzarle e quindi era ammesso alla “mostra”: la discriminazione ariana si perpetuava a rovescio, selezionando i visitatori che intendevano entrare.
Interventi politici perlopiù sviluppati mediante i mezzi di comunicazione sono quelli dell’italo-svizzero Gianni Motti. Del resto, ogni fatto, anche il più insignificante, si carica di tensione quando è amplificato dai media, diviene un fatto sociale. Motti attua spesso questi cortocircuiti dell’informazione. Dai più ironici e giocosi, come la performance del “presenzialista” — in cui l’artista insegue per un giorno intero i fatti caldi della città, tra conferenze, cerimonie e incidenti, facendosi fotografare casualmente su ogni luogo, tanto che il giorno successivo il giornale locale non può che riportare ripetutamente la sua figura nelle varie pagine, lanciando un ironico allarme sulla veridicità dell’informazione in generale — a quelli più forti, come quando durante la semifinale dei Roland Garros, dove era prevista la presenza di Bush, nel 2004, mescolato tra il pubblico ha indossato un sacchetto giallo in testa. Trasmessa in mondovisione, l’operazione finisce per alludere a Guantanamo e Abu Ghraib.
Tra i più giovani, bisogna ammetterlo, la vocazione politica è più debole. Contro cosa protestare in un mondo in cui le ideologie sono cadute, le contrapposizioni sono sfumate e ogni azione si imbatte nel classico muro di gomma senza nemmeno produrre una reazione? Cinthia Marcelle, giovane brasiliana di Belo Horizonte, ha vinto due anni fa il Premio Internazionale della Performance di Trento con una performance intitolata Grey Demonstration. Un corteo di persone grigie, con grigi oggetti e stendardi, in un ambiente fumoso: una protesta silenziosa, che ormai non significa più niente.
Minime performance
Ci sono poi performance che non si vedono, che si confondono con la realtà al punto da non essere quasi percettibili. Trasmettono energie deboli, messaggi a basso voltaggio. Che dire delle performance storiche di Jirí Kovanda, che guardava fisso negli occhi una persona senza motivo o cercava di sfiorare distrattamente i passanti?
Lo slovacco Roman Ondák, per esempio, ha fatto avvicinare quotidianamente un uomo allo spazio espositivo, chiedendogli di guardare dentro le vetrine senza alcuna altra particolare caratterizzazione. Oppure ha creato false file di pubblico alla fiera di Frieze, a Londra, o di fronte al Kunstverein di Colonia. Nulla di più normale e irrilevante, in gesti a cui solo l’osservazione della loro reiterazione finirebbe per attribuire un senso, così come un flusso di energie deboli dentro il circuito di un computer acquista significato solo in relazione con gli altri.
Azioni minime, quasi invisibili, addirittura inesistenti, sono anche quelle della spagnola Lara Almárcegui, che punta il più delle volte a preservare dei terreins vagues, degli spazi abbandonati all’interno della città, mettendoli a disposizione del pubblico come luoghi di visita, di paradossale momento di stasi nella frenesia metropolitana. Oppure giunge persino a eleggere a performance eventi già programmati, come l’abbattimento di un edificio, per il quale invita la gente in una precisa data e ora ad assistere allo spettacolo del crollo. Insomma, siamo alla performance ready made.
Mario Ybarra Jr., invece, non solo ha rilevato a Los Angeles un negozio di barbiere dove vengono invitati artisti a realizzare mostre, ma spesso si cimenta nella “performance del barbiere”: taglia i capelli a chi si mette a disposizione, seguendo disegni stravaganti, sinuosità hip hop o futuriste.
Il polacco Cezary Bodzianowski compie azioni solitarie, spesso impercettibili, che rende poi note attraverso dei brevi video. Fin troppo spettacolare è l’approdo in barca alla Alte Nationalgalerie di Berlino, coperto da un bianco velo come la figura de L’isola dei morti di Arnold Böcklin, opera conservata proprio all’interno di quell’edificio museale. Ma a volte le performance sono ancora più brevi ed essenziali, come quando, nel giorno di inizio del carnevale veneziano, si è appostato con cappello, mantello e bautta, in piazza a Trento, proprio di fronte all’Hotel Venezia, tenendo in mano uno spiazzante cartello con scritto “sciopero”. L’arte tende così ad appiattirsi volutamente sulla realtà, a confondersi tra le sue maglie, avvicinandosi al linguaggio spontaneo dei gruppi giovanili e dei motti di spirito.
Il pubblico come performer
Ma il compimento della performance, il fine ultimo a cui la sua natura partecipativa aspira, è il coinvolgimento del pubblico. Sono trascorsi meno di dieci anni dalla teorizzazione dell’“estetica relazionale” di Nicolas Bourriaud, ma più di quindici dagli esordi dei suoi principali esponenti. La relazionalità si è ormai diffusa, entra in qualche grado ormai in ogni produzione performativa. Se Rirkrit Tiravanija è un maestro nell’attivare spazi, nel far sì che essi siano effettivamente utilizzati dal pubblico per la funzione adibita, bisogna ricordare che questo tipo di operazione è abbastanza tipico del Sud-Est asiatico, dove la creatività si insinua concretamente nella realtà, e solo per una definizione esterna viene riconosciuta come arte. Navin Rawanchaikul ha realizzato numerose iniziative pubbliche portando l’arte nei taxi e nei tuk-tuk, oppure organizzando party in giro per il mondo alla ricerca di tutti i Navin dispersi nel pianeta. Celebri sono invece i mercatini di Surasi Kusolwong, con in vendita oggetti taiwanesi, in cui si può comperare come in un normalissimo mercato, ma al costo fisso di un euro per ogni oggetto.
Ma ormai un certo grado di relazionalità è insito nel lavoro di moltissimi artisti, dai portoricani Allora & Calzadilla, che distribuiscono in una piazza dei grandi gessi con cui il pubblico può scrivere per terra, alla canadese Althea Thauberger, che raccoglie le madri di bambini nati lo stesso giorno o invita cori e gruppi di danzatori a ideare delle messe in scena. Così, anche artisti di generazioni precedenti hanno trovato nelle pratiche relazionali un aspetto importante della loro produzione, da Alberto Garutti, che del rapporto con l’ambiente sociale in cui il lavoro viene creato ha fatto il suo carattere distintivo, a Gillian Wearing, che ancora a Trento sta realizzando Family Monument: una famiglia rispondente ai caratteri statistici della famiglia trentina di oggigiorno è stata selezionata per diventare il soggetto di un monumento di bronzo collocato in piazza Dante. I dibattiti, le polemiche, il rumor che il lungo processo di selezione ha innescato sono parte sostanziale del progetto, caricando il monumento di significati ambigui.
Performance o performatività?
Ormai un certo grado di performatività è entrato in molti lavori artistici, anche quando mantengono una conformazione oggettuale. Come considerare per esempio Hollywood di Maurizio Cattelan, realizzato a Palermo in occasione della Biennale di Venezia del 2001, e poi ovviamente smontato? Quell’opera poteva esistere solo in quel momento e in quel contesto, in relazione all’atmosfera glamour della Biennale, catapultando con un volo apposito un gruppo di vip nella discarica palermitana.
Di questo fatto se ne è già accorto alcuni anni fa Jens Hoffmann, autore insieme a Joan Jonas del libro Perform (Thames & Hudson, 2005), in cui raccoglie una serie di lavori che performance in senso stretto non sono, dalle sculture di Duane Hanson ai video di Matthew Barney. E mostre che affrontano il tema della performatività sono sempre più numerose, da “The Impossible Theatre”, alla Kunsthalle di Vienna nel 2006, a “The World As A Stage”, alla Tate Modern di Londra nel 2007.
Ma ormai la consapevolezza della relazione inevitabile tra percipiente e percepito è entrata nella visione comune, alla stregua del principio di Heisenberg che riconosce che è impossibile “fotografare” l’elettrone nella sua precisa posizione, perché l’energia del nostro sguardo lo sposterebbe inevitabilmente dal luogo in cui si trova. Anche in una mostra tradizionale l’esperienza del visitatore è sempre un po’ performance. Santiago Sierra sostiene che tutto entra nella percezione della mostra, persino la disposizione del bookshop o, se c’è, una pianta collocata lì per caso. Sul versante opposto, anche situazioni non artistiche si collocano nella dimensione performativa. Jeremy Deller è autore di un libro che fa una ricognizione sulle feste popolari e le ricostruzioni storiche in Gran Bretagna. Sebbene nate senza un intento specificamente artistico, queste performance assurgono a un livello di artisticità popolare. Insomma, che tutto sia performance e che basti solo guardarsi intorno?