“Romanistan” di Luca Vitone – progetto vincitore della quarta edizione dell’Italian Council 2018 –è una personale che ha il sapore di una retrospettiva, in cui l’artista raccoglie trent’anni di ricerche sviluppandole ulteriormente. Una danza sulla linea del tempo dove storia universale e storie personali si intrecciano, confondendosi. Opere datate ma seminali, in questa indagine sono ripensate e riallestite, come le Carte atopiche (1988-92), mappe prive di ogni riferimento grafico che si trasformano in puro paesaggio, esposte per la prima volta nella mostra “Der unbestimmte Ort (Il luogo imprecisato)” alla Galleria Christian Nagel di Colonia nel 1994. L’incontro con la società Rom costituisce il nodo essenziale di tutta la ricerca: la comunità diventa luogo fisico mentre lo spostamento, dovuto all’assenza di una conformazione nazionale effettiva, diventa metafora esistenziale e modello evolutivo.
Il titolo Romanistan richiama il sogno di Manush Romanov, rappresentante Rom bulgaro, che ha immaginato la fondazione di un unico paese Rom. Vitone individua proprio nell’instabilità geografica di questa etnia, l’ideale moderno e transnazionale in cui un popolo riesce a esprimere tanto la propria identità quanto l’impermeabilità ai tentativi di omologazione, argomento così centrale nel dibattito politico contemporaneo.
La ruota del carro, simbolo del nomadismo Rom, è la bussola che accompagna il percorso in mostra, il sigillo mimetizzato in ogni lavoro: di legno appesa sulla parete tra due campiture orizzontali verde terra e azzurro cielo; stampata sulla bandiera che sventola davanti l’ingresso del museo; timbro postale sulle cartoline che l’artista spedisce al figlio dalle città attraversate durante l’itinerario; puntatore mobile che disegna le tappe del tragitto sulla mappa che apre il film.
Sei settimane di viaggio passando per Slovenia, Croazia, Serbia, Romania, Bulgaria, Macedonia, Grecia, Turchia, Georgia, Armenia, Iran e Pakistan per ripercorrere a ritroso, da Bologna a Chandigarh, il cammino che Rom e Sinti intrapresero dall’India Nord occidentale fino all’Italia tra l’VIII e il XIV secolo. Lo spostamento via terra onora il tempo biologico e il valore stesso del viaggio, permettendo alla carovana (due automobili e otto persone) di aderire costantemente al movimento, vero protagonista di questo lavoro epico. Movimento geografico e al tempo stesso mentale, che diventa parola scritta nel diario di bordo del libro d’artista edito da Humboldt Books; musica e discorso orale (quasi sempre romanì) nel film presentato in anteprima al festival “Lo Schermo dell’Arte” a Firenze; e ancora immagine nel breve video sinottico e nella serie fotografica che chiudono la mostra.
Vitone riesce con abilità a oltrepassare i cliché sociali che generalmente accompagnano la cultura Rom, offrendo allo spettatore una visione completa e lucida, allo stesso tempo coinvolgente, di una popolazione tanto eterogenea quanto complessa: non sono i campi Rom a essere oggetto di studio, bensì l’intellighenzia fatta di politici, attivisti sociali, accademici, ormai numerosi ed estesamente assorbiti e naturalizzati nella società.
Fa da collante invisibile ma indispensabile del progetto un riferimento fortemente autobiografico: con indosso i sandali del padre, venuto a mancare pochi mesi prima, Vitone si trova a ripercorrere la stessa rotta del viaggio intrapreso da Genova al Golfo Persico nel 1977 insieme alla sua famiglia (all’età che oggi ha suo figlio). Come nota Cristiana Perrella – co-curatrice della mostra insieme a Elena Magini – è singolare che in inglese “filling someone else’s shoes” indichi proprio il tentativo di riempire il vuoto lasciato da qualcun altro. I sandali lasciano dunque posto a una fusione in bronzo, primo tentativo di scultura per l’artista. In ogni passaggio generazionale la memoria personale contrae un debito con la Storia: nell’essere genitore ci si riscopre figlio, per poi ritrovarsi improvvisamente primo anello della catena continuando, come spiegava in maniera raffinata Emmanuel Lévinas nel suo Il Tempo e l’altro (1979), ad essere un io nell’alterità di un tu, unico risarcimento al mistero della morte.