Pubblicato originariamente in Flash Art no. 215, Aprile – Maggio 1999.
Il lavoro di Luisa Lambri è carico di silenzio e di attesa. Il tempo sembra essere provvisoriamente sospeso. la mancanza assoluta di figure umane aumenta il senso di indeterminazione, Io sguardo cerca un appiglio, un particolare che possa svelare qualcosa di più in relazione all’immagine, ma è un labirinto senza vie di uscita. Vediamo dettagli, visioni laterali, scorci, vie di fuga che spesso coincidono con fonti luminose, porte e finestre. È in scena il desiderio, la possibilità: si intravedono delle direzioni. Non siamo mai messi nella condizione di identificare il luogo.
FOTO-RICORDO
La memoria non ricostruisce i fatti oggettivamente. Spesso nell’oscuro bacino del rimosso si nascondono gli elementi chiave per comprendete l’andamento della storia e quello che affiora è poco più che un indizio, una pista da seguire. La lettera rubata di Pan — attraverso la quale Lacan invita a diffidare di ciò che abbiamo immediatamente sotto gli occhi — e a questo proposito un riferimento assai preciso. In ogni scelta linguistica prevale infatti, sempre e comunque, un punto di vista che a volte omette, cancella, letteralmente rimuove ciò di cui il soggetto narrante ritiene opportuno tacere. In questo caso la parte nascosta riguarda la centralità della visione degli edifici rappresentati, e il darsi della fotografia come immagine documentaria, immediatamente leggibile. La modalità con cui Luisa Lambri ha incontrato gli edifici di alcuni tra gli architetti simbolo della modernità (Terragni, Le Corbusier, Kahn, Aalto, la Milano di Aldo Rossi) aggiunge a questo proposito un passaggio importante. Nelle fotografie dell’anima emerge infatti una zona d’ombra dove la fiducia nella possibilità di dominare razionalmente Io spazio vincolandolo alla funzione per la quale è stato progettato, mostra la sua fragilità. Gli scatti di Luisa Lambri esemplificano con esattezza questo passaggio, mettendo a nudo interni che si somigliano. In particolare, la dominante blu della serie Blind Room contribuisce ad alleggerire il grado di realismo e ne fa ricordi materializzati, foto che ci restano incollate addosso, geometrie e atmosfere di cui non riusciamo a individuare la provenienza. L’artista non dichiara dove si trova quello che stiamo vedendo e nemmeno lo considera un elemento da tenere nascosto. L’informazione affiora più spesso per passaparola, per indizi tratti dai cataloghi, dai comunicati stampa delle mostre, rarissimamente dai titoli delle opere. Nel 1997 Luisa Lambri ha realizzato una serie di fotografie in India (Plan Libre) seguendo le tracce di Le Corbusier sia a Chandigarh che ad Ahmedabad e in altri luoghi esotici dove l’architetto ha cercato di ricostruire città moderne lontano da casa, lontano dall’Europa, materializzazioni improbabili dei propri desideri. Nel 1998 l’artista ha trascorso un periodo di alcuni mesi in Finlandia su invito del Nordic Institute for Contemporary Art. Lì è entrata in confidenza con l’architettura di Alvar Aalto, con la sua ricerca affannosa di luce, con i silenzi organizzati dei suoi spazi e da questa relazione ne è sortita una serie di lavori (Blind Room). Tutte queste però sono note a margine, un corpus di informazioni aggiuntive che scorrono attorno ai lavori un po’ come le parole imperfette integrano il racconto orale di un fatto e costituiscono una sorta di tessuto connettivo che aumenta il potere evocativo di ciò che vediamo. Scherzi della memoria: vedendo le fotografie di Luisa Lambri accade di provare In sensazione di quando si fa fatica a mettere a fuoco il nome di qualcuno di cui per paradosso si ha in mente un’immagine assolutamente precisa. Piccole forme di amnesia non associabili a stati patologici, cose che succedono. La mancata indicazione del luogo richiama il modo in cui Felix Gonzalez-Torres intitolava a sua volta i lavori: Senza titolo, a cui seguiva sempre una precisazione tra parentesi. È un modo di non sovraccaricare di senso l’immagine, di rispettare lo spettatore, di lasciargli il tempo ma soprattutto lo spazio mentale per gestire da sé la visione, senza sentirsi indirizzato verso interpretazioni forzate. Luisa Lambri pratica nei nostri confronti una forma di comunione analogamente discreta.
RITROVARSI/RIORIENTARSI
Luisa Lambri costruisce le sue immagini viaggiando. I suoi “reportage” sono il risultato di una dialettica costante tra il perdersi intenzionale e il ritrovarsi. A un iniziale disorientamento segue la cognizione di una mappa cognitiva assolutamente soggettiva. Una mappa dalle coordinate ricorrenti prende corpo lentamente e fa si che queste fotografie condividano una familiarità stupefacente. le cui variazioni si giocano all’interno di un vocabolario rigoroso. Nascono cosi relazioni inedite tra paesi, architetture lontane. E se una delle eredità degli anni Ottanta ribadita dal più recente ingresso della rivoluzione digitale, è la consapevolezza che la fotografia può allontanarsi dalla realtà al punto da introdurci in un gioco di specchi, un labirinto in cui si intrecciano diversi piani nessuno dei quali in grado di svelare il senso ultimo delle cose, oggi a questo pensiero possiamo aggiungere un altro tassello. Gli anni novanta, anche grazie alle voci femminili, hanno vino emergere un atteggiamento capace di svincolarsi dall’aspetto catastrofista e di attribuire centralità alla posizione del soggetto parlante. A una verità definitiva si sostituiscono tante circoscritte affermazioni, verità a loro volta importanti nella loro soggettiva provvisorietà. Luisa Lambri viaggia su questa lunghezza d’onda. Un passaggio fondamentale del suo lavoro é infatti la concentrazione assoluta sul proprio sguardo inteso come unico punto vista dalla quale a partire dal quale possibile guardare il mondo. Il gioco di specchi non è cancellato ma affiorano altre — molteplici — ipotesi. L’assenza, Io spazio volutamente rarefatto di particolari descrittivi e privo di presenze umane, è predisposto ad accogliere Io sguardo dell’osservatore. L’artista a sua volta ci richiede uno sforzo di orientamento verso noi stessi e di ripensamento della nostra posizione.
LA CITTÀ DEL FUTURO
In scelta di dialogare con l’architettura della città moderna non è del tutto innocente. Lo sguardo dell’artista si è rivolto ad alcuni tra i più determinati sostenitori di un’idea utopica di futuro pianificato. Luisa Lambri coglie l’atmosfera di questi edifici e ne restituisce un aspetto malinconico e uno sguardo affettivo che li fa sentire belli e basta. Nonostante l’età, nonostante siano figli di un sogno utopico che ha già abbondantemente rivelato la sua inadeguatezza. Si ha la percezione che siano tracce, per quanto tuttora ingombranti, di un mondo in via di estinzione. Questa condizione accresce comprensibilmente l’affetto dell’artista nei loro confronti.
INTIMITÀ
In una recente intervista Luisa Lambri definisce i soggetti delle sue foto “autoritratti” e cita tra i lavori a cui guarda con maggiore interesse quelli di Elke Krystufek, Collier Schorr, Cindy Sherman e Francesca Woodman. Autoritratti ostinati, esibiti con determinazione quelli appena citati, autori vatti pudichi quelli di Luisa Lambri. Ci troviamo prima di tutto di fronte a un paesaggio interiore, in cui ogni variazione di luce, di inquadratura entra in gioco e determina uno slittammo del discorso. Protagoniste le parti intime degli edifici, passaggi che di solito non si mettono in mostra, marginali.
Non c’è dubbio che l’accento sull’intimità sia uno dei caratteri decisivi di questi anni. Si pensi al lavoro di Gabriel Orozco. di Mona Hatoum, di Robert Gober, Rachel Whiteread e ancora, e soprattutto, a Gonzalez Torres e al radicale cambio di atteggiamento introdotto da questi artisti all’inizio degli anni Novanta. Con Ioro è tornata centrale una dimensione privata, estranea sia alla mostra di corpi nudi degli anni Settanta sia all’esibizione di interiorità eroica degli anni Ottanta, che fino a quel momento era meglio cercare di tenere nascosta. Anche Lambri rende protagonista l’intimità e la costruzione attraverso una relazione leggera con il vocabolario minimale.
Una sua fotografia del 1998, Untitled (House), ritrae due pareti di una casa estiva finlandese abitabile solo pochi mesi l’anno. Una casa trasparente progettata per vedere l’esterno da ogni lato: un’idea di residenza eterea che intesse un dialogo a distanza con il fantasma della più cupa House (1993) di Rachel Whiteread. Nel caso dell’artista inglese la forza drammatica del lavoro scaturiva dall’esibizione letteralmente oscena di un’intimità pietrificata. nel caso di Luisa Lambri la dinamica tra senso di protezione, senso di soffocamento. desiderio e paura per la relazione così ravvicinata con l’esterno, interagiscono in un gioco più sottile, meno dichiarato ma altrettanto determinato.
La griglia portante si trasforma in una struttura astratta, affiora una memoria pittorica in cui la tensione è data dalla presenza forte della luce. Si tratta di una fotografia in cui la semplicità è una conquista, il risultato di una somma di varianti complesse, non certo un punto ili partenza. Si confrontano in quest’immagine alto e basso, dentro e fuori, materialità e trascendenza, pubblico e privato. Ancora un autoritratto, una scrittura di luce, una pagina di diario.