Alma Ruiz: Mi piacerebbe cominciare la nostra conversazione dal presente. So che hai lavorato assiduamente fin dall’inizio della tua carriera. Ora cosa stai facendo?
Lynda Benglis: Sto lavorando sulle fontane. È questo il fulcro principale del mio lavoro oggi.
AR: Da dove nasce questo interesse?
LB: Fin dai primi anni Ottanta sono stata attratta da questo tipo di forma. Realizzai una stampa a Chicago chiamata North South East West perché aveva quattro piani, e l’ho finalmente completata trent’anni dopo, nel 2009. Ero molto influenzata dalla forma degli obelischi egiziani. Avevo già presentato questi lavori in giro per l’America, in diversi musei. All’epoca lavoravo con metalli e bronzo, e le opere presenti nella mostra al MOCA sono le prime “eruzioni” fosforescenti (Phantom, 1971). Non mi piace ritornare sui miei passi, mi piace guardare avanti, perché ciò che esprimo rappresenta il mio rapporto con il tempo e con ciò che sta accadendo in questo momento: ogni volta questo rapporto è interpretato in maniera differente, a seconda della generazione, dell’età, della cultura. In quanto artisti, siamo capaci di segnare questi eventi storicamente, di rappresentare la cultura in qualità di scrittori, pittori, scultori, critici. Ciò che sopravvive sono le informazioni che raccontano il tempo, e le persone che lo vivono possono interpretarlo in maniera differente. Non puoi controllarlo.
AR: L’opera dal titolo North South East West è in relazione con quella che hai realizzato a Dublino all’Irish Museum of Art nel 2009 oppure si tratta di un lavoro differente?
LB: Questo lavoro è stato realizzato negli anni Ottanta. All’inizio degli anni Ottanta ho cominciato a pensare che dovevo fare qualcosa con l’acqua. Sono cresciuta circondata da questo elemento: la Louisiana è sotto il livello dell’acqua e quando ero molto piccola sono andata in Grecia su una barca, attraversando l’Atlantico, in un’isola remota. L’acqua è un elemento che ho nel sangue, e inoltre volevo realizzare qualcosa che avesse un legame con le rocce e il paesaggio.
AR: Dopo le fontane, hai ripreso a lavorare ad alcune idee che avevi formulato precedentemente oppure hai cominciato a esplorare nuovi territori?
LB: L’idea successiva era quella di lavorare a sculture più piccole. Nel mio studio a Long Island avevo alcuni materiali avanzati che non ero riuscita a buttare via dopo uno o due anni, ma ero riuscita a immaginarli in altre forme. Così ho presentato questo lavoro a Miami. Ho realizzato altre piccole fontane, basate su esplosioni atomiche. Le prime erano colate di poliuretano; le altre erano in poliuretano espanso, costruite in maniera lineare. Entrambi i lavori erano molto fluidi e richiamavano a concrezioni naturali.
AR: Questa è un’idea molto forte: le dimensioni umane e il modo in cui utilizzi il corpo nel tuo lavoro. Penso che questa sia una delle ragioni che ci consentono di identificarci con esso, sei d’accordo?
LB: È vero, e ci sono anche tanti altri elementi che lo rendono facile da identificare. Anche gli animali possono relazionarsi con il mio lavoro.
AR: Nella retrospettiva del MOCA la serie dal titolo “Figures” ricordava animali rannicchiati sul pavimento (ho avuto chiaramente questa sensazione) mentre, appesi alle pareti, si trasformavano in concrezioni sottomarine. A cosa sono collegate queste figure?
LB: Sono figure connesse alle immersioni sottomarine. L’immersione mi ha aperto una visuale completamente nuova. Nell’acqua sentiamo il galleggiamento, come se fossimo nel grembo materno, e tutta la mia arte ha sempre avuto a che fare con questo: un senso di antigravità, una conferma che abbiamo la percezione di un’altra peculiare realtà emotiva nel modo in cui facciamo, vediamo e sentiamo le cose.
AR: È interessante vedere come l’acqua sia un elemento importante nel tuo lavoro. Anche la geografia sembra essere determinante nella tua ricerca, dato che hai lavorato in diverse parti del mondo — Stati Uniti, Europa e Asia. Come è cominciata la tua relazione con l’Asia?
LB: Robert Rauschenberg e Robert Morris me l’hanno raccomandata. Era la fine degli anni Settanta. Sono arrivata lì nel 1979 ed era un momento straordinario per la mia crescita, era come andare in una stanza diversa all’interno della tua casa. La mia casa è il mondo.
AR: In India hai realizzato lavori particolari che non avresti mai realizzato negli Stati Uniti o in Europa?
LB: In India posso facilmente trovare immagini che non trovo altrove. Per quanto riguarda certe superfici e materiali, in India ci sono i marmi più puri; anche l’idea di lavorare con l’acciaio viene da qui, così come quella di fondere enormi vasi di cera. Si tratta di un modo di lavorare che è possibile solo in alcuni luoghi e non in altri. Ho fatto esperimenti con mattoni intagliati, pezzi enormi, una parete trapezoidale inserita all’interno del paesaggio. Negli Stati Uniti avrei lavorato in un modo differente, più limitato. In India ritrovo delle possibilità che qui non ho a causa delle nostre leggi e delle nostre regole.
AR: Nella mostra del MOCA ci sono molti lavori del passato in un unico spazio. Questa situazione ti ha portato a farti più domande?
LB: Ho dovuto aspettare di vedere le “Figures” sulle pareti, e ancora non so se voglio andare avanti con queste immagini in termini di materiali e superfici. Vado avanti e indietro. È una sorta di qualità esplosiva: le cose esplodono e implodono in una totemica forma embrionale. Allora diventano una farfalla, un albero, un paesaggio, una nuvola, una montagna, una lava.
AR: Il mercato dell’arte negli anni Settanta era importante come lo è oggi?
LB: Gli artisti sono persone d’affari, pertanto sono soggetti al mercato. Eppure ai nostri tempi il mercato non era percepito come lo è oggi. Io lo prendevo in giro. Quando i prezzi dell’oro sono saliti, ho voluto realizzare un dildo d’oro puro. Ne feci uno placcato, ma non era bello. Ne volevo uno vero e qualcuno quasi comprò l’idea. All’epoca sarebbe costato 20 mila dollari, oggi ancora di più.
AR: Nel corso della tua carriera hai avuto a che fare con molte correnti, come la Minimal e l’Arte Concettuale; facevi anche parte del movimento femminista, quando c’era questa idea del processo, della forma… Eppure tu non sei mai appartenuta a un gruppo. Mi sembra che tu sia sempre rimasta te stessa. Hai la capacità di essere molto “fluida”…
LB: Ho capito molto presto dallo studio della filosofia, dal pensiero e dalla logica che formulare una particolare idea e attenersi a essa per cinquanta o sessanta anni è veramente noioso, davvero! Perché dovrei attenermi a una sola idea? A ogni modo, nessuno è in possesso della verità.
Patrick Steffen: In una tua recente monografia, Dave Hickey ha scritto a proposito delle tue prime foto osé definendole in questo modo: “Guardando queste foto oggi, sembra che lei stia nuda al crepuscolo, nel momento preciso in cui ‘l’artista come pin-up’ potrebbe sembrare una cosa sexy e divertente da fare”. Che relazione hanno queste immagini pubblicitarie con i lavori astratti e colorati che realizzavi all’epoca con il latex, la cera, la schiuma, ecc.?
LB: Nessuna. Per esempio, ho trovato il dildo sulla 42ma Strada, e ho voluto realizzarlo in diversi materiali, lavorando prima con l’oro, poi con il vetro. Tuttavia, nessuno lo ha compreso perché all’epoca io non ero molto conosciuta, così mi sono resa conto che dovevo fare uno statement sulla sua componente femminista. Non c’era abbastanza ironia e le donne venivano fraintese ed emarginate come artiste. Ho dovuto mettere dello humour senza lamentarmi e ho dovuto trovare la forza di prendere una posizione che ponesse domande sulla situazione ma seguisse le mie idee. Insomma, ho dovuto fare quello che sentivo, era la cosa più giusta da fare.
PS: Quasi quarant’anni dopo, come pensi sia cambiato il femminismo nell’arte contemporanea?
LB: Penso che ora sia accettato. In passato veniva considerato proprio una cattiva parola, a nessuno piaceva veramente e tutti coloro che avevano a che fare con l’arte odiavano l’idea di femminismo. Solo alcune “Giovanne d’Arco” molto coraggiose erano qui a combattere, sventolando la bandiera e andando alle manifestazioni. Per me andare alle manifestazioni era una grande perdita di tempo: sentivo che avevo bisogno di fare la mia arte piuttosto che partecipare alle manifestazioni. Ma ho ammirato molto donne come Vera G. List, una collezionista che mi ha dato la possibilità di realizzare delle opere, inclusa una per il suo bagno!
AR: Eri molto vicina a Robert Morris, Richard Serra e Richard Tuttle. Cosa pensavano del tuo coinvolgimento con il movimento femminista? Ti hanno reso la vita difficile?
LB: No, perché ero interessata a quello che stava accadendo e a quello che loro facevano. Non ho mai giudicato, e credo che sia importante non giudicare quando si fa arte, bisogna accettare le persone per come sono. Nell’arte non esiste giusto e sbagliato.
PS: Ti riconosci ancora nella pubblicità di Artforum del 1974 con quell’enorme dildo?
LB: Sono io, mi ricordo come mi sentivo allora, e ricordo che volevo dare vita a un’immagine perfetta e dura, al contempo maschile e femminile, che potesse mettere fine a tutte le idee di modelle “deteriorabili”. Non tutti hanno capito ciò che volevo fare veramente. Andy Warhol mi ha voluto in uno dei suoi primi film ed è stato proprio ciò a spingermi in questa direzione. Voleva che recitassi con un ragazzo scozzese carino e affascinante; lui era biondo, io avevo i capelli scuri, e Andy voleva che facessimo una scena d’amore. Ho incominciato a pensarci, cercando di resistere all’idea di essere una groupie. Così ho pensato: non voglio essere un oggetto, voglio fare qualcosa che prenda in esame la situazione femminile. Il video The Amazing Bow-Wow che ho realizzato nel 1976, che aveva per oggetto una creatura ermafrodita, era il mio manifesto definitivo dell’identità sessuale. Devo ringraziare Rena Small, che ha interpretato Bow-Wow, e Stanton Kaye: lo abbiamo fatto veramente noi tre insieme. Si trattava di un’opera scomoda, e dopo non potevo occuparmene più, mi sentivo vulnerabile. Il dolore del sesso e del rifiuto, l’ambiguità, la paura di essere zittiti, presente in ogni cultura… mi ci è voluto un anno e mezzo per montarlo. Era così difficile che ho detto a me stessa “Basta!”.
AR: Hai avuto un periodo, dal 1972 al 1976, in cui hai realizzato molti video. In seguito ne hai realizzato altri?
LB: Ho fatto un video negli anni Novanta basato sul ritmo della bocca e degli occhi, come una sorta di percussioni ispirate alla danza tradizionale indiana Kathakali. Più recentemente ho realizzato un video dedicato a un musicista indiano, filmando la sua cremazione. Il tema ruota intorno ai tempi di cremazione, il suo corpo e il fuoco. Non l’ho montato, ma il montaggio potrebbe anche non essere interessante o necessario. Quello che volevo fare era filmare le persone presenti alla cerimonia sul fiume, la natura, i boschi.
PS: Quando hai sentito per la prima volta l’impulso di fare arte?
LB: Penso che mia madre sarebbe stata un’artista fantastica, era molto creativa. Non ho mai capito perché non abbia continuato. In un certo senso mia madre ha sbagliato e questo mi ha insegnato qualcosa. Scegliere di essere un artista non ha tanto a che fare con il talento, ma piuttosto con il bisogno, il sentimento che hai nei confronti dell’arte. Consapevolmente ho voglia di sapere e questo per me è molto importante. Mi metto alla prova continuamente.
PS: Nella sua poesia autobiografica, Poeta delle Ceneri (1966) Pier Paolo Pasolini scrive: “Vorrei esprimermi con gli esempi.
Gettare il mio corpo nella lotta”. Il tuo forte coinvolgimento fisico mi riporta alla mente queste parole.
LB: Mi piace. Per me è stata una continua lotta fin dal principio, quando ero una bambina a scuola e avevo questa immagine di me che lottavo con i miei fogli, volevo lottare contro qualcosa. È un approccio puramente fisico, ma allo stesso tempo è una chiara posizione mentale. Se non lo fai, sei sempre in un limbo. Hai paura, sei paranoico: se non crei, resti immobile.