Alla fine ci si nasconde nel proprio rifugio come luogo dei luoghi come la città delle città solo al buio sento di attraversare lo spazio e sbatto la faccia al muro i capelli indietro come la mafia.
“Mi chiamo Alì, sono egiziano. Ho qua da un anno mezzo, sono sposato, ho cinque bambini”. Scrivere del tuo lavoro non è facile. C’è di tutto: meloni, venditori ambulanti, tendoni, fotografia, immigrati, specchietti, sigarette, performance, elmi, tovaglie, automobili scassate, proiezioni, tigri di ceramica, luce e casino, tanto casino. E poi l’Italia. Delle volte faccio fatica a orientarmi perché sembra che tu l’abbia infilata tutta intera. Non quella dei luoghi comuni, o quella vincente del lusso e dell’alta cucina, ma quella più ruspante. Quella che da un paesino di provincia ho ritrovato nel quartiere milanese dove viviamo (via Padova/Pasteur): colorata, un po’ tamarra e a bassa risoluzione. Non so dirti esattamente perché, ma mi è venuto spontaneo pensare a Tondelli. A un lungo canto stonato che sale dalla provincia. Una provincia che non è più quella di Weekend Postmoderno. Adesso sa di zenzero e kebab e parla decine di idiomi diversi. Tanti di questi rumori, di questi sapori e colori che sullo sfondo grigio di Milano diventano ancora più esotici, li hai presi in prestito e remixati. Alì, l’egiziano filmato in Via Padova 138 (2008), potrebbe essere un buon esempio: non sa una parola d’italiano — per lui traduce un amico — e indossa un giubbotto azzurrissimo; in una mano tiene un melone giallo, nell’altra un microfono fuori moda. Parla di diritti, del desiderio di far parte di una nuova comunità, stando davanti a un plinto di marmo sbiadito, vicino a una saracinesca scassata. Nonostante il melone, il suo sguardo è risoluto come quello di un capo tribù. Tuttavia, se volessi raccontare il tuo lavoro, non parlerei di antropologia metropolitana. Per niente. Neanche di politica o di sociale. Piuttosto di una filastrocca così comica che poi mi commuove. Guardo e riguardo il panzone in canottiera di Circus Palermo (2007), una performance tecno-neomelodica: balla con un casco di limoni in testa Non, je ne regrette rien di Edith Piaf. Lo fa come una ballerina di samba tra le perline colorate di un bar. L’immagine scorre lenta. Lui sorride, mentre la gente gli passa davanti. Tiene una sigaretta appoggiata alle labbra e le mani aperte a ventaglio. Porta la catenina e gli anelli d’oro, avrà qualche anno in più di mio padre.
Azione inaspettata e imprevista del pubblico cambia la forma del mio lavoro gli specchi sono forse l’archetipo del mio sguardo tutto si schiaccia nel mio occhio.
Ridono i bambini facendo il bagno nelle fontanelle della Vucciria. Le radio delle auto parcheggiate pompano ad alto volume, i fanali sono accesi. Sotto una cascata di specchietti colorati i ragazzi bevono e ballano e i vecchi seduti guardano i riflessi pensando a cos’era l’amore. La parola che ritorna più spesso per definire quello che fai è, appunto, “circo”. Un circo che a me sembra improvvisato, senza artifici o talenti unici al mondo: una festa alla buona. Eppure i tuoi lavori non si fermano alle luci e alla baldoria di un girotondo da Strapaese. Dopo il divertimento e la spensieratezza, ciò che era certo si fa più sottile. Sfugge dalle mani. Come quando i primi si alzano e cominciano a salutare, e allora non serve tenere alta la musica e tutte le lampadine accese.
30 tigri di ceramica da Bretigny a Parigi in treno e in metro poi a piedi come dei lavoratori tutti in fila portiamo le tigri sulle spalle. Il ghiaccio indurisce la carne il ghiaccio fa un rumore invisibile.
Tarzan Noir (2011), Bretigny-Parigi. Parlavi della tensione che anticipa ogni performance, della paura di affrontare un gesto così intenso e significativo. Di quanto sia difficile dare una forma a ciò che si sente dentro e a renderlo accessibile agli altri. Farsi accettare per quello che si è non ammette distrazioni. Per capirlo, ho dovuto oltrepassare le luci abbaglianti del circo.
Soffro tirandomi il solito nervo del collo il dolore al ginocchio e alle spalle mi rendeva cattivo. Io sono egocentrico.
Quando ti ho conosciuto avevo di te l’immagine di Kasalpusterlengo (2006) — in cui sei appeso a un segnale stradale — e di Tagadà (2007), dove sembri un rugbista vichingo. Questa esteriorità esuberante — la forza, l’energia, la vitalità — che pure si riversa nel tuo lavoro, è contrapposta a una parte dischiusasi col tempo. Riflessiva, silenziosa, malinconica. Nel ritratto al Chelsea Hotel di New York (2009) sembri un condottiero che dopo mille battaglie si chiede se la guerra sia giusta. Se quello che fa e per cui vive ha senso. “Fare l’artista è una questione di resistenza” dicevi nel tuo studio, “conta l’ambizione e i gesti a cui non si dà peso”. Lì per lì non ero sicuro di aver capito. Ho provato a chiederti di spiegarmelo, ma il telefono è squillato. Hai detto “pronto” prima di schiacciare il tasto. Poi ti sei spostato in un’altra stanza, e io mi sono guardato intorno. Sul pensile della cucina c’era un’enorme “M” di metallo, come quella di un supereroe. La parete opposta era piena di foglietti bianchi e colorati carichi di appunti e intuizioni. Uno me lo ricordo: “Suora che corre a dalmine, la zona dove è importante. Messaggio non troppo reale”. Prima che tornassi, si è messa in moto la caldaia. L’acqua nei tubi faceva il rumore della pioggia, anche se fuori splendeva un sole arancione. Era un pomeriggio d’inizio dicembre, ma l’aria già quella di marzo.
A Parigi c’è l’Africa a Parigi c’è l’Africa a Parigi c’è l’Africa a Parigi c’è l’Africa a Parigi c’è l’Africa a Parigi c’è l’Africa e io rimango a fissarla.
Ritornato dalla Francia, mi hai detto che avresti inaugurato la tua personale al Macro il 15 marzo. Scherzando ti ho risposto che quel giorno a Roma è morto Giulio Cesare. Quindi, per assecondare la sincronia, avremmo inserito la sua figura in questo testo. Tra tutte le proposte, la più divertente sarebbe stata pescare qualche estratto dal De bello Gallico — le memorie ufficiali di Cesare sulle guerre transalpine — alternandolo con tuoi pensieri sulle emozioni provate durante le performance all’estero. Insomma, uno scritto d’artista che presentasse il contrasto tra immagine ufficiale e privata. Tra prevedibile e imprevedibile. Soprattutto perché lo stile del De bello Gallico — molto austero, chirurgico e prolisso — è opposto al tuo fatto di lampi e di visioni. Peraltro, le memorie di Cesare sono redatte in terza persona proprio per voler sottolineare la sua integrità. Per proteggere l’uomo dal guerriero. Tu invece scrivi in prima persona assoluta e senza punteggiatura. Quando ne abbiamo parlato hai detto solo: “A cosa serve il controllo?”. Lì mi sono convinto di aver fra le mani la chiave per raccontare la tua arte: affiancare, senza dare tante spiegazioni al lettore, i due lati della medaglia. Ho intravisto lo spiraglio per aprire e chiudere il testo nella frase con cui Cesare conclude i commentari, dove per la prima volta sembra uscire dal costume militare per lasciarsi scappare un presentimento a mezza bocca. Come se avesse voluto suggerirci che sapeva già tutto, ma non poteva dirlo.
Mi piace stare sovra pensiero è un momento barbaro.
Ciononostante, presentare in questo modo la contrapposizione che vedo in te e nelle tue opere avrebbe soltanto confuso le idee. Sarebbe stato troppo complicato e neanche tanto onesto mischiare le carte di due mazzi diversi. Perciò è seguito un lavoro più lungo: l’aggiustamento, la smussatura di due lati che hanno spigoli affilati e non vogliono essere confusi. “Forse mettere le mie frasi dentro Cesare diventa una cosa troppo intimistica”, hai notato, “anche se il mio lavoro non è solo casino e festa. Non voglio che diventi troppo atmosferico. Gordon Matta-Clark mi piace tanto perché è secco. È energetico, ma senza ‘circo’”. Questa dichiarazione improvvisa mi ha sorpreso. Non so se tu volessi una conferma o meno. Tuttavia, prima che potessi decidermi, hai aggiunto: “Matta-Clark spacca le cose. E anch’io se fingo nel mio lavoro si vede subito: le tigri che si spaccano non è più ‘circo’, è un gesto preciso. Un colpo di tosse”.
Lo sguardo che guarda fuori nel paesaggio senza appoggiarsi al nulla mi carico di energia.
“Una cosa esiste se la ripeti ad alta voce”, è stata l’ultima frase che hai detto quel pomeriggio. Chissà che ritratto ho dato di te e del tuo lavoro. La sola cosa che ora mi sento di fare è chiudere questo testo come lo avevamo pensato all’inizio, sperando che ogni parola faccia il suo dovere:
“Appena Cesare giunse in Italia, venne a sapere che, per iniziativa del console Marcello, le due legioni da lui fornite per la guerra contro i Parti, come da ordine del Senato, erano invece state assegnate a Pompeo e trattenute. L’accaduto non lasciava dubbi su che cosa stessero tramando contro di lui. Tuttavia Cesare decise di sopportare ogni cosa, finché gli restava qualche speranza di risolvere la questione in termini di diritto piuttosto che con le armi”.
Mi piacerebbe che tu curassi la regia del mio funerale sarebbe divertente fino alle lacrime .