Gigiotto del Vecchio: Vorrei cominciare con una domanda che credo sia importante per l’analisi del tuo lavoro. Mi racconteresti dei tuoi studi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, della tua tesi di laurea su Hans Richter e dell’esperienza al Centro sperimentale di Cinematografia di Roma? Il tuo maestro è stato il grande direttore della fotografia Giuseppe Rotunno…
Marinella Senatore: Di Hans Richter mi affascinava il percorso linguistico, il passaggio dalla pittura alla pellicola, con tutto quello che avrebbe comportato in termini di fruizione del tempo e del ritmo, e quindi di “montaggio”, un concetto che mi interessa molto, ancor più se applicato a lavori installativi o pittorici e non esclusivamente filmici. Mi piaceva anche il fatto che fosse un artista che lavorava con il cinema, che si era avvicinato a questo linguaggio per necessità espressive, e non fosse etichettato nei termini rigorosi dei generi e degli stili.
Ho studiato cinema, invece, solo per conoscere la luce; di tutti gli elementi che costruiscono il linguaggio filmico, la luce è da sempre quello che attira la mia attenzione e ammetto di aver avuto sempre una relazione speciale con l’illuminazione, molto intuitiva in una prima fase. La figura di Giuseppe Rotunno è stata fondamentale per la mia formazione, innegabilmente, soprattutto per capire le possibilità evocative, di sintesi, costruzione e traduzione della luce stessa; di grande importanza è stato anche il suo particolare punto di vista rispetto all’immagine e alla fotografia cinematografica, dove “la fotografia non è fine a se stessa, è tanto più bella quanto più valorizza i messaggi che sono nel racconto, e trasmette al pubblico tutti i significati che regia, scenografia e suono riescono a mettere insieme”. La dimensione narrativa dell’illuminazione è un punto fondamentale del mio lavoro, permette di creare un senso d’attesa e una certa tensione narrativa. Ritrovo queste suggestioni nel lavoro di Edward Hopper, per esempio, o quando si parla di “luce verbale” nella pratica cinematografica di David Cronenberg.
GDV: Quanto conta la narrazione nel tuo lavoro?
MS: I personaggi che appaiono nelle mie storie sono pretesti per parlare di qualcos’altro, eroi inutili fugacemente apparsi nelle pagine di un quotidiano degli anni Cinquanta e di cui non si sa molto altro.
Utilizzo come materiale di ricerca fotografie di famiglia — non necessariamente la mia — riviste d’epoca, notizie estrapolate da bollettini radiofonici ascoltati per caso, articoli di cronaca, ecc. Ci sono anche cose che decido di non mettere in scena o di non dipingere. Attraverso una miscellanea di riferimenti, ritrovo molti punti comuni di ricerca; mi è di grande ispirazione la micro-narrativa, nella cronaca locale e in tutte quelle tonalità emozionali sparse, vicende che fondono autobiografismo, storia e sguardo esterno. La narrazione è sicuramente uno dei fulcri del mio lavoro, è probabilmente il meccanismo che genera il progetto visivo, ma il modo in cui la utilizzo è volutamente libero, sempre in bilico tra i poli della realtà e della finzione, tra la verità e l’invenzione (che ancor più mi parla della realtà…).
Per il video How Do U Kill the Chemist, realizzato nel 2009 durante la residenza all’Art Omi International Artists’ Residency di New York, ho collaborato con dei rapper che hanno scritto con me la sceneggiatura e hanno interpretato il racconto con il loro particolare slang. La costruzione della narrazione in tutte le sue declinazioni mi affascina moltissimo: anche il formato del musical e l’utilizzo della canzone rientrano in questa mia ricerca sulle modalità narrative. Il racconto, in tutte le sue forme, diventa la miccia che permette di snodare attorno a sé una serie di immagini, molto spesso centrate su tensione, attesa ed euforia, che la luce (e i suoi tagli a volte duri) sottolinea fortemente.
GDV: Le arti visive e il cinema si sono continuamente scambiati estetica, ispirazione, poetica, concetti, immagini. Tu credi ci sia ancora la possibilità di porre in relazione le due esperienze o sei convinta che la definizione stilistica e di medium sia riduttiva?
MS: Ridurre a una definizione stilistica propria, soprattutto in questo momento mi sembra limitativo, in quanto l’opera di tanti artisti percorre ormai più campi e possibilità espressive. Non credo che il mio lavoro nello specifico sia il video o il cinema in senso classico: ricerco una base operativa allargata, un confronto dialettico che utilizza i diversi linguaggi come strumento e non come fine. Lavoro con la pittura, il video, il film, la performance, l’installazione e il disegno in maniera cosciente ma libera e seppure in diversi momenti — soprattutto legati alla progettazione — il filtro della drammaturgia cinematografica sia presente, quello che davvero m’interessa è dar corpo a una percezione intensa della realtà, utilizzando il confine tra visioni oggettive e costruzioni artificiali. Del resto, non è un caso che per indagare alcune condizioni esistenziali e conflitti sociali concentro lo sguardo su qualcosa solitamente lontano sia dalla mia formazione sia dalle esperienze quotidiane: la middle class americana come l’architettura coloniale o il paesaggio nordamericano.
GDV: Per te l’insegnamento è una pratica molto importante. In che modo l’esperienza didattica entra nella dimensione poetica. Esiste una relazione tra le due esperienze?
MS: Insegno in Spagna, all’Università Complutense di Madrid e all’Università di Castilla – La Mancha, e ho sempre sentito l’attività didattica in forte relazione con il mio lavoro, il quale si alimenta di un processo preciso, fatto di progettazione, discussione, condivisione, partecipazione collettiva, considerando il risultato filmico, fotografico (ma anche pittorico o installativo) il punto d’arrivo di un’attività ben più dinamica. Il coinvolgimento di attori e tecnici non professionisti sul set, i casting popolari, l’inserimento “del dietro le quinte”, la trasformazione di un semplice processo di realizzazione di un’opera in un prodotto corale, in cui l’evidenza dello sforzo collettivo e di tutti coloro che contribuiscono al risultato rappresenta un atto politico imprescindibile, sono da tenere sempre presente al fine di una corretta lettura generale. Gli studenti vengono coinvolti nella realizzazione (o sono protagonisti) delle mie opere. È soprattutto in quest’ottica che la mia attività pedagogica trova un forte riscontro nella mia metodologia poetica.
GDV: In una variante del tutto contemporanea, mi verrebbe da associare il tuo lavoro ad alcune delle esperienze più intensamente politiche dell’opera partecipata e dell’happening — l’aspetto aggregativo, la necessità di dialogo e di discussione, la costruzione del lavoro attraverso livelli di collaborazione collettivi — ma anche, per citare possibilità più attuali, al rigore al limite con la fotografia di Manon De Boer e all’interdisciplinarietà — le contaminazioni tra testo, disegno ed esperienza teatrale — nel lavoro di Keren Cytter. Cosa ne pensi di queste associazioni? E chi consideri un punto di riferimento nella tua formazione artistica e intellettuale?
MS: Mi ritrovo nelle esperienze che citi, ma guardo anche a realtà più “pop”, così come a registi e scrittori. Penso a Hopper, Wilhelm Sasnal, ma anche Stan Douglas, Douglas Gordon, Tacita Dean, Félix González-Torres, o addirittura Ingmar Bergman e David Lynch.
Negli ultimi anni, la dimensione sociopolitica sostanzia fortemente i miei lavori, soprattutto in termini di prassi; mi interessa il ruolo dell’artista come “attivatore” di alcuni processi, senza imposizioni di alcun genere, morali o falsamente educative. Sento di essere parte di quei processi partecipativi che vedono l’artista come un regista che ha uno spartito attraverso il quale i partecipanti negoziano, o contestano, la loro partecipazione. In questo senso cerco di mettere in atto uno scambio affettivo, che passa di storia in storia, di voce in voce. Il racconto stesso diventa scambio e, secondo modalità che inevitabilmente si modificano rispetto ai contesti, molto spesso si costruisce una situazione di laboratorio aperto, dove chi lavora impara qualcosa e lo porta con sé assieme al ricordo di essere stato sul set, per questo mi interessa ribaltare la posizione di chi guarda da passivo a partecipante.
GDV: In che modo credi ciò sia percepibile nelle tue opere e quale credi sia il momento in cui questo scambio diventa evidente?
MS: Credo sia chiaro soprattutto nel momento della produzione, ma anche nello stesso stile di ripresa o nell’uso dell’illuminazione — mostrando il dispositivo —, arrivando a un risultato filmico o comunque estetico che, sebbene in lavori di partecipazione corale sia stato lungamente caratterizzato da un’estetica più documentaristica, sento invece per formazione e tensione molto più vicino a un artista come Omer Fast o all’estetica formale di Manon de Boer. Del resto quello che posso condividere è ciò che sono, la mia formazione, la tradizione della composizione che viene dalla scuola fotografica del cinema italiano, il particolare utilizzo della luce e la sintesi della visione.
Non lavoro sull’immaginario visivo delle comunità con le quali opero ma con la loro diversa forma di raccontare, per questo in America ho collaborato, come ti dicevo prima, con un gruppo di rapper di New York.
È un dovere politico per me che l’opera venga realizzata e i dati estetici, che sono iscritti nel film, sono la testimonianza che c’è un modo in cui il film (o l’installazione, la fotografia o qualunque altro lavoro finale) può raccontare le relazioni umane che lo hanno prodotto. Il risultato è sempre il punto d’arrivo di un’attività ben più dinamica, frutto della cooperazione con un pubblico sempre più vasto che viene coinvolto come attore, co-autore e addirittura produttore, laddove il valore della condivisione di un’esperienza è più rilevante rispetto a quello di una mera scelta stilistica. Anche per questo non presento dei prodotti finiti, ma opere che rilanciano all’osservatore la possibilità di essere completate.
GDV: Con quale obiettivo?
MS: Certamente quello di mettere in connessione comunità differenti, luoghi dove non si è creato un senso di comunità o dove ritengo che il valore della condivisione possa essere un elemento significativo. Nel musical Speak Easy, il lavorare con il pubblico si è andato definendo sempre più come un fine, non come un mezzo; il video, realizzato nel 2009 a Madrid è il frutto della cooperazione di quasi 1800 cittadini: oltre 94 studenti della Complutense che hanno ricoperto tutti i ruoli della creazione cinematografica (dal costume alla scenografia, dalla camera all’illuminazione), associazioni di donne che hanno realizzato i costumi, gruppi di artigiani in pensione, impegnati nella costruzione di tutte le scenografie (il musical è ambientato a New York negli anni Cinquanta). Tre comunità provenienti da tre quartieri limitrofi molto differenti fra loro e in grande conflitto sociale hanno scritto la sceneggiatura originale con gli studenti preposti al ruolo di sceneggiatori. Tutti hanno partecipato a un laboratorio aperto e continuo, condividendo tempo, esperienze, imparando, ballando, scrivendo i testi delle canzoni originali, fino a toccare il nodo della produzione. Con la campagna “1 € to be a producer” — che ha caratterizzato molti dei miei progetti realizzati in Spagna negli ultimi anni —, attraverso la donazione di un euro, circa 1200 persone hanno interamente prodotto gli ultimi video dandomi la possibilità di interpretare l’intero processo in chiave politica e di riconsiderare il ruolo dell’artista e il sistema produttivo dell’opera d’arte.