Paola Noè: Ho notato l’adesivo sul retro della tua macchina “I n Judd”. È tua la macchina che guidavi durante la video intervista sul sito web della Saatchi? Trovo quell’adesivo fantastico e vorrei iniziare proprio da lui, Donald Judd. Che cosa rappresenta per te e per la tua ricerca?
Matthew Day Jackson: Quella è la macchina che avevo comprato per lavorare alle fotografie per Lower 48 nel 2006. A proposito di “I n Judd”, nonostante si tratti di un adesivo divertente, esso diventa effettivamente un punto interessante nella cosmologia di tutto ciò su cui mi concentro. Il quadrato è assoluto e in rapporto alla comprensione dei formalismi propri del fare arte, Donald Judd diede un contributo assoluto al vernacolare del fare oggetti. Il mio lavoro si costruisce su questo. D’altronde non potevo avere un adesivo che dicesse “I ♠ Judd”, quello andrebbe bene per qualcuno che semplicemente indossa le scarpe di Judd. Ho provato ad assorbire il suo lavoro in quello che conosco e faccio. Lui e molti altri sono parte della fondazione formale alla quale sto lavorando e che spero si vada ad aggiungere all’antico linguaggio dell’arte.
PN: Davanti ad alcuni dei tuoi lavori, per esempio Dimaxion Family presentato recentemente a Basilea, penso alla famosa frase di Donald Judd: “La cosa come un tutto, la sua qualità nella sua interezza, è ciò che interessa”. Cosa ne pensi? Penso anche alla sua unità di dissimilitudini…
MDJ: Mi cimento in cose costruite dall’inizio alla fine, ma lasciando che siano i materiali a comunicare per quello che sono. È un equilibrio delicato che non sono sicuro di padroneggiare già con successo. Credo sia qualcosa che ho acquisito dall’aver speso molto tempo a contatto con il lavoro di Judd. Fare o costruire qualcosa dall’inizio alla fine suggerirebbe una manipolazione di tutte le sue parti. In antitesi al lasciare che qualcosa sia così com’è. Il tutto è la somma delle parti, a loro volta somme di altre parti e così via fino all’infinito; tutte sono interconnesse. Questo è qualcosa che molto probabilmente continuerò a perfezionare. Probabilmente morirò provando. Cerco di tenere le distanze dallo “specifico” che è il contrario all’idea del tutto. Inseguo una bellezza coesiva nell’interconnettibilità del nostro essere, sebbene il modello sociale di specializzazione sia piuttosto forte.
PN: Il tuo lavoro è caratterizzato da allusioni, simboli e referenze che sembrano innumerevoli. Riguardo per esempio a Dymaxion Family, tu avevi già realizzato Dymaxion Skeleton, dove il titolo si riferisce al lavoro di una delle figure più importanti all’interno della tua ricerca, Buckminster Fuller, e ai suoi Dymaxion House, Dymaxion Car, Dymaxion Map, Dymaxion Sleep. Potresti spiegare il tuo Dymaxion? E potresti spiegare la tua relazione con Fuller?
MDJ: Io sono la somma di tutte le mie esperienze. Sono una creatura dalla natura in continua crescita ed evoluzione. Non posso muovermi più veloce dell’atmosfera che mi circonda. L’atmosfera di cui parlo è la cultura. La cultura non è qualcosa di esterno. Noi la informiamo tanto quanto essa stessa ci informa, fino al nocciolo della nostra identità. Richard Buckminster Fuller, che credeva nello smantellamento del pensiero distruttivo proprio della “specializzazione”, inventò il termine “Dymaxion”. Questa fratturazione sociale in branche specialistiche sconnesse tra di loro rende impossibile risolvere le problematiche mondiali. Tale struttura parcellizzata favorisce soltanto capi di stato e di corporazioni. Questa fede generale deve essere quindi separata dalla struttura formale alla quale lavoro. Tale struttura dovrebbe funzionare come lo specchio di ciò che sono. Dymaxion è una parola che funziona abbastanza bene nel descrivere uno degli elementi principali di questo formalismo. È la combinazione di tre parole: tensione, maximum, dinamica. Un Dymaxion vuole dare una collocazione a tutte le componenti di un sistema in modo tale che l’efficienza del sistema stesso venga aumentata. In relazione a ciò che faccio, il termine Dymaxion vuole massimizzare il potenziale narrativo-comunicativo del materiale/immagine/ iconografia/artefatto. E devo dire che questo funziona generalmente anche nella mostra e non solo nei lavori presi singolarmente.
PN: Come sei arrivato a concepire Dymaxion Family?
MDJ: Certe cose avvengono in sogno, o in forma di visoni o riflessioni. Semplicemente succede e non mi interessa sapere come. Attribuisco alle mie sculture e al materiale che uso una sorta di significato genetico, evoluzionistico. Ho usato la struttura del corpo umano come una cornice di riferimento per riflettere sulla società nella quale vivo come lo sviluppo della geometria e della materia nell’architettura e nell’industria. Il cranio di ciascuna figura è fatto di un metallo diverso, piombo per quello maschile, bronzo per quello femminile, il cranio del bambino più grande, per età e dimensione, è di ferro e quello del bambino più piccolo è fatto di alluminio. Quindi nello sviluppo di Dymaxion Family ho compresso la storia della metallurgia allo scopo di accentuare lo sviluppo di questi corpi che sono però tutti assolutamente contemporanei, sono una famiglia. Questo lavoro è incentrato sul fatto che le nostre credenze sono rispecchiate nella storia e nella mitologia, quella antica come quella contemporanea, che noi impersonifichiamo nel comportamento, abbigliamento, cibo e nel fare tutto in un determinato modo. In più, io e Laura avremo un figlio in autunno, la mia vita personale influenza sempre in qualche modo tutto ciò che faccio.
PN: Per continuare a parlare delle allusioni e citazioni rintracciabili nel tuo lavoro, esse sono davvero forti e inusuali. Penso per esempio a Here and Now che avevi presentato l’anno scorso da Peter Blum a New York. La carta da parati era la riproduzione fuori misura di un dipinto del pittore romantico Albert Bierstadt.
MDJ: Here and Now è composto dallo schema grafico di una veduta aerea del luogo dove avvenne il massacro di Jonestown, realizzato creando un tracciato su un pannello di formica, e dalla riproduzione su carta da parati di un dipinto di Albert Bierstadt intitolato Donner Lake. Le immagini di Bierstadt sono quelle dell’America del West e catturano la psicologia del sogno americano, profondamente intricate al principio di possedere la terra. Questo “diritto divino” è il “destino manifesto”. Credo che la struttura narrativa di base del massacro-suicidio di Jonestown così come del disastro della famiglia Donner rispecchi alcuni dei principi esistenti nella mitologia della democrazia e nella promessa del sogno americano. Il breve percorso che porta all’oceano Pacifico, a Valhalla, e che si era rispecchiato nella morte e nella sconfitta, lo vedo riflettersi nella contemporanea narrativa della nostra crisi del mercato immobiliare e nel concetto del debito nazionale che è una sorta di cannibalismo. L’utopia di coloro che si erano trasferiti a Jonestown era la bellezza, il desiderio di essere con i propri cari e di vivere egualmente con i propri simili, utopia con la quale molti simpatizzerebbero. I sogni di queste persone erano stati eletti da Jim Jones ed usati come collaterali per fare il lavaggio del cervello alla gente di Jonestown, per far credere loro che c’era una sorta di forza incombente pronta a portar loro via quel sogno; e questa forza era il governo statunitense. Vedo riflessioni di questo nel modo in cui “essere americani” viene costantemente predicato su colui che è il nostro nemico e che minaccia questa libertà. Inoltre il modo in cui il dipinto di Albert Bierstadt ha operato storicamente va ben al di là della pittura per sforare nel mondo della pubblicità. I suoi dipinti sono diventati l’immagine che la gente associava alla parte occidentale del continente e ai loro sogni.
PN: Nella stessa mostra c’era As Seen From Outerspace con il riferimento a Brancusi, dove un bellissimo monolite nero si innalza come una silfide dal marmo in una strana visione oltrespaziale piena di mistero, come il titolo stesso suggerisce.
MDJ: Sull’idea di antropomorfismo il materiale Onix dà l’impressione di una fotografia satellitare del pianeta Terra. L’ambiguità offerta dal materiale suggerisce un pianeta dal quale Bird in Space apparirebbe come un enorme monumento. Un monumento all’innovazione, la perfetta sintesi di mano e mente e la sua influenza trovata nella tecnologia. Ho ricostruito il monumento di Brancusi Bird in Space sui miei ricordi, nel tentativo di un incontro che superasse i confini della morte. Suona divertente ma, nel fare arte, uno si connette automaticamente a coloro che l’hanno praticata prima di lui, volenti o no. Ricostruire Bird in Space non ha significato fare un lavoro sulle immagini o sulla misurazione. Ha a che fare con l’intimità.
PN: Cos’è per te la storia dell’arte?
MDJ: La storia dell’arte è la registrazione omnisensoriale umana della nostra esistenza su questo pianeta. Comunque, uno potrebbe parlare del valore estetico delle fotografie delle impronte di Buzz Aldrin sulla Luna.
PN: La presenza del tempo, della dimensione temporale è solida. Passato, presente, ma anche futuro convivono nei tuoi lavori. Cosa è per te il tempo? Quale il tuo rapporto con la storia?
MDJ: Credo in un regno di fantasmi e di zombie. Non certo nel senso che vedo persone morte ma piuttosto nel senso che ci sono narrative che sono antiche e attuali al tempo stesso. Il modo in cui affrontiamo i nostri problemi attraverso la violenza inflitta direttamente e indirettamente, rende così alcuni dei temi della nostra problematica condizione sociale non morti. Dico non morti nel senso che uccidere e affamare per avidità non è mai stato necessario e continuare a farlo è come rianimare un corpo che non ha respiro per respirare.
Tutto questo è nei film che guardo, sulle notizie che leggo, nelle storie che sento. Semplicemente ci presto attenzione e credo che il tempo non sia lineare. Lo strumento multisensoriale che è il nostro corpo è perfettamente adatto a catturare tutto ciò. Camminiamo per strada masticando una gomma, annusando degli odori, sentendo il calore del sole, ascoltando suonare il cellulare e il nostro cervello sta continuamente assemblando queste esperienze. Il nostro cervello accumula esperienze che diventano ricordi che a loro volta alimentano intuizioni; di qui le visioni e quindi fare arte. Colui che opera diviene così lo specchio che passa le informazioni allo spettatore. Il ciclo si ripete in una infinita apparente perfezione.
PN: Vorrei parlare dell’uso dei teschi nel tuo lavoro. Essi sono delle stesse dimensioni del tuo. Cosa significa per te? Si tratta di un modello perfetto?
MDJ: Il teschio è dove abita il cervello, dove stanno i nostri sogni e pensieri. La progressione che va da una riproduzione fedele del mio cranio alla realizzazione di uno dalla forma geometrica tetragonale implica spostarsi verso una più comprensiva visione del mondo, del fare e del pensare ciò che faccio. Forse, quindi, vuole più che altro ricordare che uno dovrebbe vivere.
PN: Qual è il tuo rapporto con la ricerca scientifica? E cosa potresti dire sul titolo della mostra “La Distanza Immisurabile” al MIT? Si tratta di un ossimoro? Potresti parlare anche del video Playing Squash (Los Alamos 2009), che hai realizzato con Olivia Fermi, la pronipote di Enrico Fermi?
MDJ: Pensare che non esiste una distanza che non può essere misurata suggerisce che abbiamo gli strumenti per esplorare tutto lo spazio. Credo che noi conosciamo molto meno di ciò che non conosciamo; dovrei quindi dire che ci sono innumerevoli, immisurabili distanze. Credo che gli artisti si trovino spesso in spazi che non possono essere misurati ma che sono assolutamente percettibili. La mostra al MIT incapsulava un’incredibile quantità di informazioni derivante dalla collaborazione con l’istituzione. Come parte della mostra, originariamente, volevo invitare l’intero dipartimento di fisica a giocare una partita di squash con me. L’avrei chiamata la Sfida in memoria di Enrico Fermi. Alla fine decisi che avrei giocato una partita con un membro della famiglia Fermi all’università di Chicago. Una ricerca su Internet mi portò a Olivia Fermi e dopo diversi mesi di telefonate decidemmo che avremmo giocato a squash allo YMCA a Los Alamos. Si potrebbe dire che questo campo di squash non sarebbe esistito senza l’introduzione di un laboratorio nucleare di Los Alamos in un sito scelto da J. Robert Oppenheimer e dal generale dell’esercito statunitense Groves. L’esperimento di Enrico Fermi sul campo di squash provò la praticabilità della bomba nucleare. Esperimento che non era stato condotto con in mente l’idea di una super arma. Si potrebbe quindi dire che senza il campo di squash alla Columbia University non ci sarebbe stato campo di squash a Los Alamos. Mi piace pensare che Olivia ed io tornammo al campo di squash con intenti pacifici, così come era stato per l’esperimento di Fermi.
Il viaggio a Los Alamos prevedeva un secondo viaggio a Trinity, luogo che ancora oggi conserva un’accezione moralmente positiva in quanto legato all’ “arma che salvò la vita di un milione di americani”. Oggi sappiamo che era una grossa frottola e che il Giappone aveva cercato il modo di arrendersi per mesi prima del 6 agosto 1945. Anche i Russi stavano pianificando un’invasione per il 18 agosto. Era praticamente l’inizio della Guerra Fredda.