Pubblicato originariamente in Flash Art no. 311, Luglio – Settembre 2013.
Luciano Marucci: Partiamo da lontano. Dei suoi maestri Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan, chi è stato determinante per la definizione della sua identità di storico dell’arte e di critico?
Maurizio Calvesi: Direi entrambi, aggiungendo Luigi Grassi che fu mio professore al Liceo e Francesco Arcangeli durante i miei anni bolognesi, tra gli inizi del 1955 e il settembre del 1961.
LM: Di Argan ha condiviso le analisi sull’arte contemporanea da cui sono scaturite le discussioni sulla “morte dell’arte”?
MC: Non ho mai creduto alla morte dell’arte e l’ho scritto più volte; anche se oggi assistiamo a una sorta di naufragio delle cose di alta qualità in un mare di vergognose idiozie.
LM: Al di là degli approfonditi studi sui grandi creativi del passato, di quali contributi critici legati all’arte contemporanea va più orgoglioso e perché?
MC: In generale di quelli sul Futurismo, perché a storicizzarlo sono stato il primo, seguito a breve distanza da Enrico Crispolti; poi quelli relativi a tutti gli artisti che per primo, o tra i primi, ho valorizzato (Afro, Burri, Leoncillo, Ceroli, Schifano, Festa, Pascali, Kounellis, Bignardi, Fioroni, Paolini, Patella, Marotta, Romiti, Bendini, Uncini, Mauri, Mitoraj, Bartolini, Di Stasio, Mariani, Pulini, Vettor Pisani, Gino De Dominicis, Strazza, se non ne dimentico altri).
LM: Le sue acute riflessioni su Duchamp sono esaustive?
MC: Nessuna analisi può mai essere esclusiva. La mia è però fondamentale in quanto ho dimostrato l’assunzione cosciente e strumentale da parte di Duchamp (creduto autore di non-sense) della cifra alchimistica e ho potuto così spiegare sue varie opere, tra cui la doppia lettura del titolo del Grande Vetro, che rimanda infatti a due diverse figure allegoriche dell’Opus.
LM: Ha condiviso le deduzioni e le rielaborazioni di famose opere del dadaista da parte di Luca Maria Patella?
MC: Ho stima di Patella come ho già indicato.
LM: A Roma, come a Torino, negli anni Sessanta erano emersi talenti piuttosto propositivi. Ritiene che ci sia ancora bisogno di una rivisitazione organica di quella stagione di cambiamenti, ricca di fermenti culturali?
MC: Sarebbe assolutamente necessaria, ma l’Italia è divisa in due e ciò che si produce da Roma in giù non è mai sufficientemente valutato. La spregevole Lega non è nata negli ultimi decenni, è sempre esistita. Quando fui nominato critico del Corriere della Sera e responsabile della pagina dell’arte (tra il 1973 e il 1978-79) i tipografi lombardi mi guardavano di traverso perché romano (“È possibile — si chiedevano — che non esista un critico milanese?”) e fecero in modo di proibirmi l’accesso alla stamperia diminuendomi di conseguenza una parte di stipendio. Quando ho fatto parte della commissione inviti della Biennale del 1964 (dunque nell’autunno 1963; fu il giorno che uccisero Kennedy), la presenza nella stessa commissione di Lucio Fontana (il più sereno e obiettivo tra gli artisti che ho conosciuto, che sono invece quasi tutti ciecamente egocentrici) mi permise di invitare diversi artisti romani (nasceva allora la Scuola di Piazza del Popolo) e non romani, ma quando feci il nome di Mafai per una sala, Fontana saltò su contrariato e mi disse che allora era molto meglio Aligi Sassu! Non si raggiunge il successo (anche in letteratura) se non si vive a Milano o si vive comunque sotto Firenze. Io credo (anzi so bene) di aver raggiunto una minima parte del riconoscimento che avrei meritato. Il fatto di aver avuto il Premio Viareggio e (unico tra gli storici d’arte nel mondo salvo Gombrich) il Premio internazionale Balzan, il fatto di aver creato una invidiabile scuola di storici dell’arte, di aver radicalmente innovato la visione di artisti come Caravaggio, Piranesi, Boccioni, o appunto Duchamp, di aver dato contributi fondamentali ad artisti come Piero della Francesca, Raffaello, Giorgione, Lotto, alla comprensione della Cappella Sistina, alla corretta visione di un grande “Antiquario” come Francesco Colonna (sulla cui pertinenza romana e non veneziana adesso si accaniscono alcuni disinformati), per non parlare dei Futuristi e di De Chirico, di aver organizzato mostre di grande spessore (alla Biennale come alle Scuderie del Quirinale e altrove), non ha mosso la Presidenza della Repubblica a elargirmi neanche una di quelle minime onorificenze che si somministrano ai più mediocri.
LM: Quali artisti della Scuola di Piazza del Popolo frequentava più assiduamente?
MC: Ceroli, Schifano, Festa, Burri, Angeli, Marotta, Pascali, Gnoli, in un primo momento Kounellis, oggi Tacchi e Lombardo. Sono stato molto amico di Bendini e di Leoncillo (i cui grandi meriti, essendo umbro-romano, non erano riconosciuti). La gioia che in un primo momento mi aveva dato la frequentazione di questi artisti, e che mi consolava di altri cattivi rapporti con qualche piccolo critico arrogante e arruffone o storico dell’arte (ero perseguitato, dimenticavo di dirlo, perché mi occupavo di iconologia, ero stato il primo a introdurla in Italia con, o poco dopo, Eugenio Battisti!), quella gioia di speranzosa gioventù si è trasformata in profonda amarezza a partire da quel maledetto settembre del 1968, quando morirono Leoncillo, Fontana (altro caro amico), Pascali, seguiti a breve da Duchamp e Ettore Colla; ed era già mancato Tancredi; poi comunque via Gnoli, via Cintoli, via Festa, via Angeli, via Burri, via Schifano, via Twombly, via il carissimo Marotta.
LM: Pascali (che avevo conosciuto nel bar del gallerista Plinio De Martiis poco prima della tragica scomparsa) con le straordinarie opere e le pionieristiche “azioni” aveva dato ai suoi compagni di strada stimoli importanti…
MC: Sì, ma aveva guardato anche altri. Gli smalti scolati sono di Schifano, le forme aggettanti furono fatte da Tacchi (grande artista, sottovalutato) subito prima di Pascali. Ciò nulla toglie alla grandezza di Pino.
LM: In quel dinamico contesto caratterizzato anche da forti rivalità tra gli addetti ai lavori, lei era attento alle esperienze più originali senza distinzione di tendenza o preferiva relazionarsi con gli artisti della Pop Art romana?
MC: Guardavo con interesse anche, tra gli altri, a Pistoletto, Castellani, Vedova, Manzoni, Mattioli, Morlotti, Moreni; non condividevo il provinciale disprezzo per Manzù e Guttuso.
LM: Ha avuto rapporti pure con Twombly, Rauschenberg e con gli altri artisti stranieri attivi a Roma?
MC: Avere rapporti con Twombly non era facile, data la sua (sommata alla mia!) timidezza. Certo, ci salutavamo (abitava vicino a me, prima di trasferirsi a Gaeta) e scambiavamo qualche parola. Rauschenberg purtroppo l’ho solo sfiorato a Venezia e a New York, ma ho scritto moltissimo su di lui, che stimavo più di ogni altro, insieme a Lichtenstein e Jasper Johns. Ho avuto rapporti fugaci anche con artisti che credo massimi, come Kiefer; più frequenti (fin dalle sue prime apparizioni) con il grande Mitoraj.
LM: Arriviamo ai primi anni Ottanta. In sintesi, quali presupposti linguistici e concettuali giustificavano la “pittura colta” di cui era uno dei sostenitori?
MC: Non ho mai condiviso la definizione di “pittura colta”, il cui gruppo era abbastanza diverso da quello con il quale mi confrontavo. Io parlavo di Anacronismo, fin dai primissimi anni Ottanta, ho portato questo movimento anche alla Biennale del 1984 (come nel 1986 portai alla Biennale la ancora poco considerata video arte, compreso il grande e allora poco conosciuto Bill Viola).
LM: Si aspettava un diverso sviluppo di quella corrente?
MC: Parlare di Anacronismo voleva solo stimolare un recupero di interesse per il passato, destinato a convivere con le avanguardie. Da allora non pochi artisti, anche attuali, hanno tenuto presente a loro modo il passato, in forma più o meno allusiva o elusiva, cosa che prima della mia proposta quasi nessuno osava fare.
LM: Quel Concettualismo anacronistico forse non è riuscito a essere abbastanza convincente perché dal lato formale esibiva il già visto.
MC: Rimando alla precedente risposta. Basta pensare a Mitoraj, a Bill Viola e a tanti altri per capire che, se l’Anacronismo è stato combattuto dai vari nanetti della critica, ha toccato però l’immaginazione di molti artisti. Vorrei scrivere un libro su questo, ma temo che non lo farò. L’età toglie energie.
LM: Invece gli artisti del cosiddetto gruppo della Nuova Scuola di Roma, praticando la specificità pittorica e plastica senza ricorrere alle citazioni impersonali esaltate dalla Transavanguardia, sono riusciti a essere più “attuali”. Condivide?
MC: Non del tutto.
LM: Come sa, negli ultimi tempi in alcuni eventi internazionali sono stati riproposti Baruchello e Mauri; mentre il MAMbo ha allestito una vasta personale di Ceroli dove figuravano anche le installazioni “scenografiche”, tra le prime del panorama generale. Quali altri protagonisti dell’arte romana degli anni Sessanta-Settanta avrebbe aggiunto tra gli invitati al Padiglione Italia della prossima Biennale di Venezia?
MC: Non pochi di quelli che ho prima citato.
LM: Attualmente il suo spiccato senso della storia la porta a dare particolare attenzione agli artisti affermati più attendibili?
MC: La ringrazio di aver parlato del mio “spiccato senso della storia”. Io sono uno storico dell’arte (c’è chi dice il maggiore vivente e non sono abbastanza modesto per negarlo), spesso scambiato per un puro critico d’arte contemporanea. Cosa che non è successa ad altri. Tenga presente però che i miei maggiori titoli riguardano Piero della Francesca, Polifilo, Giorgione, Caravaggio, Lotto, la Cappella Sistina, Piranesi ecc. Ho in stampa un volume di mille pagine con i miei contributi al Rinascimento.
LM: Dedica un po’ di tempo anche agli artisti delle ultime generazioni?
MC: Non molto. Solo occasionalmente. Dopo gli ottantacinque anni l’arco cronologico dell’arte al quale ci si può interessare e tenere sott’occhio finisce di allargarsi.
LM: L’arte dei paesi emergenti sempre più diffusa in Occidente la incuriosisce?
MC: Rientra tra i fenomeni verso i quali il mio interesse è da “curioso” dell’arte, più che da critico della stessa.
LM: Per concludere, la crisi economica, che impedisce al MAXXI e al MACRO di attuare programmi ambiziosi, può far dimenticare il proposito di Argan di dare alla Capitale il primato europeo della cultura artistica?
MC: Bella illusione quella dell’amato Argan, ma il treno è ormai passato e il MAXXI e il MACRO sono gli ultimi vagoni agganciati alla meglio.