Pubblicato originariamente in Flash Art no 84–85 October-November 1978.
In occasione della presentazione dell’opera di Giuseppe Chiari (1926–2007) alla XVII Quadriennale d’Arte di Roma 2020, Flash Art ripropone questa conversazione risalente al 1978. Chiari, eludendo da sempre risposte universali sull’arte e sulla definizione della sua stessa pratica, in questo dialogo, affronta esaustivamente il suo approccio all’arte e soprattutto il ruolo/definizione dell’artista.
Helena Kontova: Pensi di essere un artista importante?
Giuseppe Chiari: Io sono un artista. Ma lo hanno deciso gli altri. Nel mio pezzo La confessione che ho fatto alla Biennale di Venezia due anni fa io ho descritto giorno per giorno come nei miei rapporti con gli altri il mio ruolo veniva costantemente cambiato. C’era un posto per me, ma questo posto si avvicinava sempre più all’angolo dell’artista. Ma forse oggi non esistono artisti ma solo studenti. Come tu ben sai il futuro è il presente. Il futuro è già realizzato. Noi lo chiamiamo futuro tanto per dargli un nome misterioso. In verità sappiamo bene che il futuro è fra di noi. Tu per esempio sei futuro. Tu mi chiedi anche se mi sento importante. Sì. Sono molto importante. Tanto importante che senza di me, io non ho il senso dell’esistenza del mondo. Il mondo esiste senza di me? Ti confesso che non lo so. D’altra parte devo mettere in dubbio anche la tua esistenza. Questo è difficile per me. Ma rimane molto importante esistere per me. Proprio per mettere in certezza l’esistenza di te, di Giancarlo… Importante fra gli artisti? No
HK: Sei stato sempre contento con il tuo lavoro artistico?
GC: Sì. È bello cercare, trovare. È bello curiosare. Collezionare. È bello anche far vedere. Cedere a chi vede e anche a chi non vede. Non sono stato sempre contento. Chi è sempre contento? È impossibile esserlo. Magari uno è scontento perché arriva a Milano di notte tardi non trova una camera e non ha voglia di passare la notte in stazione. E questo è anche lavoro. Il lavoro artistico è bello ma è solo un tratto di alcuni piccoli tratti della giornata, della vita. La vita è la strada…
HK: Preferisci passare alla storia più come musicista o come pittore?
GC: Nei libri di storia delle scuole elementari o liceali o universitarie? Nei libri delle elementari mi piacerebbe. In quelli universitari è facile ma in quelli per i ragazzi di sei, sette anni – con un piccolo disegno illustrativo che mi raffigura al pianoforte – è difficile. Musicista. Pianista. Anzi. Io sono un pianista. Mi sarebbe piaciuto molto essere disegnato mentre suono il pianoforte da Alex Raymond: che è senz’altro il più grande disegnatore che io conosca. Purtroppo non è più possibile. Anche da Al Williamson.
HK: Senti di essere ancora un artista di Fluxus?
GC: Sì. Certo. E come non si può rispondere di no, dal momento che Fluxus è solo un nome. Fluxus è la cosa più definita che conosca. Forse gli uomini che ho visto a Belgrado di notte pulire le strade con una grandissima pompa d’acqua – una pompa grandissima e incredibile – forse quegli uomini sono Fluxus. Anzi lo sono senz’altro. Speriamo che in questo momento non stiano dichiarando la mia espulsione…
HK: Pensi che dopo Fluxus gli artisti hanno risposto in maniera positiva alla nuova domanda: che cos’è l’arte? O pensi che non ci sia niente di nuovo dopo Fluxus.
GC: Bisogna fissare una volta per tutte il minuto Fluxus. Io proporrei senza sentire gli inglesi di dichiarare convenzionalmente che il minuto Fluxus è: le ore 7 e 13 minuti primi del 18 gennaio del 1962. Ora dato che siamo alle ore 5 e 20 dell’11 aprile 1978 non ci rimane che decidere a che velocità cambia l’idea di arte. Poniamo per ipotesi che cambi ogni 3 minuti. Al 18 gennaio del 1972 abbiamo già 174.800 cambiamenti. E siamo solo nel 1972. Come vedi Fluxus non è riuscito a fermare il tempo. Abbiamo tentato – come tutti; chi non ci prova – ma non ci siamo riusciti. Ora però noi abbiamo dato per verificata un’altra ipotesi: che l’idea dell’arte cambi insieme al tempo e non cambi continuamente ma a gradi, tanto da poter identificare un grado di cambiamento dopo l’altro. Un’ipotesi veramente complicata. D’altra parte se noi non passiamo quest’ipotesi siamo costretti a passare una di queste due. 1) l’arte è sempre stata e sempre sarà; oppure: 2) l’arte è sempre in divenire. La prima ci lascia completamente indifferenti come se l’arte fosse cosa che non può ricevere nessuna interferenza da noi. Qualcosa di altro da noi, sopra o sotto che sia. La seconda ci chiede un’interferenza continua, ci coinvolge ma senza un minuto di respiro. L’interferenza è fine a se stessa non ha nessuna possibilità di definire l’arte perché l’arte è dentro l’interferenza stessa, è dentro l’agire… Dunque siamo costretti a passare a una terza ipotesi che però è sola, rubata alle due estreme. È un alternarsi delle due.
HK: Pensi di essere più intelligente degli altri.
GC: Non so… di quali altri…
HK: Come caratterizzi il pensiero che è dietro il tuo lavoro?
GC: Sinceramente io lavoro spontaneamente, istintivamente. Non so perché faccio alcune cose. Ho necessità ad un certo momento di conoscere alcune cose, di compiere alcune esperienze. Vivo e ho bisogno di vivere seguendo i miei lavori; imparando delle nozioni che prima non avevo; controllando alcuni dati; provando a giocare invece di veder giocare; guardando, viaggiando, trovando, scrivendo, parlando… non so dirti bene. Ci sono delle esperienze che durano alcuni anni e solo dopo quando si sono compiute, ed è passato un po’ di tempo sono finite, sono ormai solo un ricordo, il principio a avere la possibilità di analizzarle… certe volte mi stupisco… come ho potuto fare quella azione… perché l’ho fatta… l’ho fatta perché allora ho reagito… ho risposto… perché avevo un vuoto di noia… di ignoranza… che ho voluto riempire da solo… ecco questo è un altro punto… si è detto che io mi diverto da solo… che gioco da solo… per me… questo non è vero, perché io faccio tutto quello che faccio per farlo sapere perché entri nei discorsi che si fanno… per partecipare con i miei concerti, i miei disegni, le mie foto, films, videos, libri alla conversazione generale…
HK: Puoi spiegare la tua teoria dell’arte?
GC: …
HK: Sai cos’è l’arte?
GC: No… ma ho dei sospetti… sto seguendo delle piste… certo le cose più facilmente indiziate come Botticelli… Tiziano… non sono arte… la soluzione sarebbe troppo facile. Ho dei sospetti, ripeto, ma non voglio parlarne troppo, per non compromettere le indagini… seguo delle tracce… alcune strade alcune porte, alcune finestre… ho come la sensazione in certi momenti di essere molto vicino all’arte come se la sentissi respirare… come se fosse passata pochi minuti prima… sento… una sensazione molto precisa… ho anche paura. Ho paura che quando la scoprirò non lo dirò a nessuno perché penso che l’arte abbia un aspetto molto brutto, molto diverso da quello che ci immaginiamo.
HK: Hai sentito la necessità di comunicare con altre persone che facevano arte nello stesso spirito, come te?
GC: Sì. Certo. In pratica io conosco cinquanta, cento persone. Forse cento è troppo. Ma un numero tra cinquanta e cento. Queste persone abitano un po’ dappertutto. Ho i loro indirizzi. Spesso le ho conosciute e molto bene per posta durante lunghi anni prima di incontrarle, ma è un rapporto di lavoro di stima e di amicizia… ci sono persone che ho visto per dieci, venti giorni sommando i vari piccoli periodi che siamo stati indice in una esperienza, che non vedo da tre quattro anni, forse non vedrò più… ma io mi sento molto vicino a queste persone… mi ricordo una volta ho scritto a un musicista americano Richard Maxfield chiedendo bande registrate e altre informazioni… ho ricevuto dopo un po’ una piccola lettera scritta a mano… l’uomo mi diceva che non sapeva di essere conosciuto in Italia… mi faceva capire che aveva lasciato lo studio, che però sarebbe tornato a cercare qualcosa da inviarmi… era stupito… era stupito di questa comunicazione ma la comunicazione c’era stata… e molto forte…
HK: Perché non credi alle domande serie, che analizzerebbero nel modo più critico e scientifico il tuo lavoro?
GC: Non so… nelle domande scherzose c’è più rischio…