Nell’autunno del 2007, la Hayward Gallery di Londra inaugura un’ambiziosa mostra dedicata alla pittura, curata dall’allora neo direttore artistico Ralph Rugoff. Il titolo, “The painting of Modern Life”, richiama la quasi omonima raccolta di saggi del 1863 Le Peintre de la Vie Moderne in cui Charles Baudelaire, su Le Figaro, invocava la necessità di un rinnovamento di soggetti nell’arte, che avrebbe dovuto catturare istantaneamente la vitalità dei ritmi cittadini moderni, tenendo il passo con l’astro nascente della fotografia. Riflettendo quindi sullo status quo del rapporto tra pittura e scene di vita reale nel panorama contemporaneo, il progetto di Rugoff include numerose opere dei nomi più noti degli ultimi decenni, cogliendovi un riallacciarsi del legame con il mezzo fotografico – dopo anni di allontanamento in direzione dell’astrattismo. Da allora, l’esplosione esponenziale della fotografia digitale ha posto nuove basi e sollecitato nuove riflessioni sullo statuto dell’immagine, e di conseguenza sul ruolo di un mezzo espressivo, quello pittorico, di cui più volte si è dichiarato il tramonto. L’ideale abbraccio con il digitale è senza dubbio una delle strade scelte dalla pittura contemporanea per rinnovarsi, appropriandosi dell’estetica di altri linguaggi storicamente affini (la fotografia e il cinema, appunto), senza per questo rinunciare alla propria natura intrinseca. Sembra guardare in questa direzione Nana Wolke (Lubiana, 1994), artista di origine slovena diplomata al Goldsmiths College di Londra: pur prendendo tecnicamente le mosse dal versante analogico della fotografia, la Polaroid, le sue immagini si collocano in equilibrio tra l’approccio tradizionale di una pittura lenta e meditativa, senza alcuna smania di rincorrere mode transitorie – e la consapevolezza del peso che hanno l’istantaneità, la rapidità di consumo, il dettaglio rubato, nel nostro approccio quotidiano al visuale. Il solco in cui sembra volersi iscrivere la sua ricerca – ancora molto giovane – è quello tracciato da Luc Tuymans, Michaël Borremans, Whilelm Sasnal e forse ancora più indietro Sigmar Polke e Gerhard Richter: pennellate rapide e calde che imprimono sulla tela immagini rubate, appunto, alla vita comune.
La serie di opere esposte all’ultimo piano del Torrione della Fondazione Coppola, a Vicenza, si svolge circolarmente come una sequenza di frame cinematografici: le diverse dimensioni delle tele, e l’alternanza di pannelli vuoti e pieni, danno alle opere un ritmo spezzato, quasi narrativo. I singoli lavori, realizzati in olio su lino, rubano alla vita quotidiana (per lo più in dimensioni private) dettagli figurativi di corpi, schiene che si spogliano, bocche imperfette che sorridono, mani femminili. Più raramente si accarezza l’idea dell’astrazione, con dettagli non chiaramente identificabili – forse sono elementi umani, forse oggetti d’uso comune. Cromaticamente, dominano su tutto i rossi e i rosa – come attraverso un filtro caldo che, insieme ai soggetti stessi, carica la selezione di un erotismo mai urlato (a un vecchio libro soft porn si rifà anche la grafica scelta dall’artista per la locandina della mostra). Vengono in mente le riflessioni dello statunitense W.J.T. Mitchell, tra i primi e più noti studiosi di Visual Culture, sullo statuto delle immagini come esseri viventi e, in quanto tali, entità partecipanti e attive di fronte allo sguardo di chi le osserva. Come femmine seduttrici (con buona pace degli stereotipi di genere), esse agganciano l’occhio dello spettatore-maschio con un “effetto Medusa” che tende ad assorbire lo sguardo umano. Le immagini in questo senso hanno desideri, bisogni, sentimenti strettamente legati alla loro relazione con chi guarda. I dettagli ritratti da Nana Wolke nelle tele in mostra a Vicenza trasmettono un richiamo seducente per l’occhio che rimane per qualche istante agganciato, sospeso a immaginare cosa possa esserci dietro quel singolo momento della vita moderna impigliato sulla tela.