Durante gli anni Cinquanta il mondo dell’arte contemporanea viveva una stagione di pieno Informale, che si prestò anche a divertenti e curiosi esperimenti, come quello della scimmia Congo (citata anche da Kruscev in un intervento all’ONU, quando si tolse le scarpe e le batté sul tavolo), autrice di famose “opere” informali esposte anche alla Tate e messe in asta da Sotheby’s.
Ma proprio in quegli anni, qualcuno in giro per il mondo si sottraeva a questa tendenza generale. Si trattava di alcuni giovani che, sorprendentemente, operavano in luoghi tra loro lontani, sia in piccole città di provincia come Ulm o Cholet, Padova o Udine, sia in metropoli come Parigi o Vienna, Milano o Düsseldorf. In Europa ma anche in America Latina e nel cosiddetto blocco sovietico. Alcuni di essi provenivano oltre che da luoghi diversissimi, da condizioni e da esperienze culturali e formative differenti. Un ulteriore fatto singolare che li distingueva era che non conoscevano l’esistenza l’uno dell’altro, perché, essendo il loro lavoro sul nascere, nessuno storico o critico lo aveva mai teorizzato. Ma quando le più varie circostanze li portavano a incontrarsi, immediatamente si riconoscevano come soggetti di uno stesso modo di sentire, più orientati verso il design e l’architettura, la sociologia o la psicologia, piuttosto che alle poetiche artistiche individuali.
Si è trattato di una sorta di germinazione spontanea che ha visto dei giovani, tutti con gli studi più disparati e le occupazioni più diverse, mettersi a operare insieme non appena si conoscevano, talora formando gruppi di lavoro collettivo, senza che precedentemente li avesse uniti la scuola o il lavoro.
Anzi, molti erano assolutamente digiuni di arte e solo una esigua minoranza proveniva dalle accademie.
Lavoravamo con impegno e privi di ogni volontà di clamore su problemi ottici e di percezione, sulle immagini virtuali, sul dinamismo intrinseco dell’opera, sull’intervento del fruitore, sulla luce e sullo spazio, sulla serialità, su nuovi materiali e su inediti aspetti “presentazionali” del conosciuto, con alla base la matematica e le forme esatte. Il tutto condotto con uno spirito nuovo, con razionalità e logica, in un arco illimitato di ricerche, per promuovere nuove modalità operative, diverse possibilità espressive, e tutti quegli approfondimenti fenomenici, ideologici e psicologici relativi alle problematiche visive e ottiche. Esigenze coinvolgenti la coscienza dell’uomo, con un approccio senz’altro più vicino, per metodo di ricerca, alla scienza. Si voleva dare all’arte un altro senso, quello scientifico e conseguentemente sociale, proprio perché basato sulla oggettività scevra di ogni interpretazione letteraria, arte come enunciato e risoluzione di problemi plastici, sempre verificabili, per ampliare il campo della conoscenza e quindi con una forte componente didattica.
Bisogna pensare che in quel tempo, l’informazione interpersonale era scarsissima: le telefonate erano difficili, non certo rapide e non alla portata di tutti, la carta stampata si occupava ben poco d’arte e quelle pochissime riviste specializzate erano dedicate per lo più all’arte antica e a quanto già storicizzato. A documentare l’attualità, tanto meno le nostre ricerche in gestazione, nulla!
Questo non favoriva la conoscenza, ma neppure facili emulazioni e plagi, per questo quanto veniva fatto era sempre originale. La televisione poi era solo un fenomeno tecnologico. Quindi lavoravamo al buio (naturalmente un buio metaforico) perché, guarda caso, molte delle nostre ricerche vertevano proprio sulla luce e la sua fenomenologia: la luce come materiale, mai, come era sempre accaduto, metafora della luce.
Spero di aver fatto capire come il mondo e le possibilità intorno a noi erano, poco meno di cinquant’anni fa, assai diverse da oggi dove ogni cosa si conosce e giunge alla portata di tutti nel momento stesso del suo farsi, permettendo a tutti, da un continente all’altro, di essere informati, di assimilare, di emulare, di allinearsi con gli altri e, nel migliore dei casi, di poter dare un piccolo apporto a una corrente generale.
Un ragazzo brasiliano, Almir da Silva Mavignier, che nella sua terra aveva sentito parlare (come altri del Sud America) di Georges Vantongerloo, Josef Albers, Max Bill, Alexander Calder (i quali erano andati in quei paesi, Argentina o Venezuela, Cile o Brasile, come nuovi mondi da scoprire o per seminare idee nuove) vince una borsa di studio per l’appena fondata (da Max Bill) Scuola di Ulm, erede della Bauhaus, e si mette a girare l’Europa dove, casualmente o meno, trova e poi cerca chi lavorava con le sue stesse idee, ma sempre con intendimenti e risultati plastici diversi, diversissimi, perché l’inedito era una delle prerogative base del nostro operare.
Mavignier trova giovani come lui che si chiamano Marc Adrian in Austria; Paul Talman, Karl Gerstner, Andreas Christen, Marcel Wyss in Svizzera; Rudolf Kämmer, Uli Pohl, Herbert Oehm, Gotthart Müller, Gerard von Graevenitz, Dieter Rot, Walter Zehringer in Germania dove a Düsseldorf Einz Mack, Otto Piene e Günther Uecker avrebbero fondato il Gruppo Zero; Piero Dorazio a Roma; Enrico Castellani e Piero Manzoni a Milano; a Padova il già noto Gruppo N con Manfredo Massironi, Toni Costa, Edoardo Landi, Alberto Biasi, Ennio Chiggio, la cui ideologia era basata sull’anonimato del lavoro; Julio Le Parc, François Morellet, Joël Stein in Francia; Ivan Picelj e Julije Knifer a Zagabria.
Proprio a Zagabria dove c’era stato il gruppo Exact 51, nella Jugoslavia di allora (paese non facile da raggiungere ma con idee e istanze vicine alle nostre; più precisamente le nostre erano assai prossime a quelle dell’Europa dell’Est, della Mitteleuropa), per un insieme di fattori concomitanti Almir Mavignier, oltre a Ivan Picelj, trova Bozo Beck direttore della Galerija Suvremene Umjetnosti, Kelemen, Putar, Mestrovic e qualche altro, con i quali programma e organizzerà in quella galleria una mostra di tutti quelli che aveva conosciuto e che avevano idee affini ma risultati estetici differenti, anche se sempre accomunati dal rigore costruttivo.
Del 1961 è la prima mostra con il nome “Nove Tendencije” (ne seguiranno altre quattro). Proprio mentre inaugurava, io tenevo la mia prima personale a Lubiana a pochi chilometri da Zagabria, perché Zoran Krinsnik, direttore della Moderna Galerija, aveva visto quanto facevo, un paio di lastre di alluminio o acciaio fresate, e aveva pensato che sarebbe stato interessante esporle. Allora lavoravo in uno studio di architetti e ingegneri e facevo il grafico e il designer per un’industria di materiale elettrico vicino a Milano.
Vivevo a Udine, a poca distanza da Padova, dove c’era il Gruppo N, ma non conoscevo la loro esistenza e tanto meno le loro ricerche; vidi che avevamo in comune molti principi quando andai a visitare la mostra a Zagabria, entrai subito a far parte del gruppo della nuova tendenza e partecipai a quasi tutte le mostre successive in tal senso perché, altra cosa importantissima, c’era una totale autogestione e le mostre venivano organizzate da chi faceva le cose, dagli autori, senza critici o altri mediatori e il nostro modo di operare era severo e rigoroso, facendo entrare a far parte del gruppo solamente quelle ricerche che avessero caratteristiche tali da identificarsi in esso e interessanti per questo scopo.
Proprio a Zagabria nel marzo 1962 alla Galerija Suvremene Umjetnosti avrei fatto la seconda ma ben più grande personale.
Quello delle Nuove Tendenze era un sistema assai innovativo in tutto:
non culto della personalità (alle volte anche l’anonimato)
non protagonismo
non commercializzazione
non gallerie private (ma solo istituzioni culturali)
non arte elitaria
non feticismo
non opera unica (ma inizio del multiplo per uno scopo sociale)
non interpretazione
non metafora
non mistificazione
non strategie
non…
tutte cose che sentivamo sbagliate e non volevamo fare quegli errori, tutto ciò lo dicevamo per noi, quello delle Nuove Tendenze era un sistema assai innovativo in tutto; anche per questo azzeramento di tanti vecchi valori dell’arte ci furono mostre chiamate “Nul” o “Zero” specie in Nord Europa dove le cose erano più radicali.
I primi anni furono pioneristici, pieni di ideali e proiezioni verso un futuro vicinissimo che sembrava di toccare, un futuro fatto di scoperte che davano energie per ricercarne altre, un futuro che potesse trasformare il mondo, o meglio, farci pensare che il mondo potesse vedere in noi qualche cosa di indicativo da prendere come esempio; e noi vedevamo il mondo in una prospettiva dinamica per una totale evoluzione culturale e sociale, e lo vivevamo così attraverso i principi e i parametri del fare di quest’arte innovatrice.
Nacquero le mostre di arte programmata ideate da un artista come Bruno Munari e da un semiologo come Umberto Eco che in quell’occasione parlò di “opera aperta” ed era il 1962. Ci furono altre esposizioni di Nuove Tendenze alla biblioteca Querini Stampalia di Venezia, al Musée d’Artes Decoratives Palais du Louvre di Parigi, allo Städtische Museum Schloss Morsbroich di Leverkusen, (e nel mondo) altri titoli di mostre erano: “Arte Cinetica”, “Movimento”, “Visualità”, “Lo spazio dell’immagine”, “Environnements”, “Luce”, “Monocromo”, “Nuove tecniche nuovi materiali”, “Ricerche continue” sino alla mostra, al Museum of Modern Art di New York, “The Responsive Eye” del 1965, studiata qualche anno prima da William Seitz unendo artisti suggeriti da altri artisti, ma già con criteri lontani da quelli che avevano caratterizzato le Nuove Tendenze. Questa mostra decreterà il grandissimo successo della Op Art, come avevano chiamato quest’arte i media americani. Nelle vetrine di moda della 5a Strada c’erano le gigantografie delle nostre opere. I grandi settimanali o i giornali pubblicavano copertine o ampi servizi sulle opere più spettacolari e sugli artisti più famosi! Successo, successo, successo, di questo fenomeno sul puro piano estetico, di superficie, per pura curiosità, ma il tutto era addirittura contrario alle nostre prerogative, alle premesse della maggior parte dei veri protagonisti, i ricercatori che l’avrebbero voluta arte diversa; questa è stata la sua tragedia, consumata in brevissimo tempo, e la sua fine: la equivocazione di quanto noi volevamo, del nostro pensiero, della nostra ideologia per far prendere alle nostre cose sempre le solite vecchie strade, i nostri copyright sono stati scippati, saccheggiati. Tutti hanno copiato, adottato, impiegato le nostre immagini, le nostre ricerche per farne gli usi più disparati e astrusi, volgarizzando tutto e facendone svilire i significati, facendo perdere sia l’energia vitale che lo sprone che ciascuno di noi poteva avere in sé e nelle proprie ricerche, sia il senso innovativo in molte direzioni che queste ricerche potevano rappresentare per il pubblico. E così a quel pubblico, a cui interessa l’arte, continua a piacere il pescare nel torbido, il non chiaro, e ancor oggi, più che mai, il pittoresco.
Così anche quell’arte entrò nel sistema dell’arte con scelte, convenienze, con sollecitazioni economiche per i più commercializzabili, con scale di interesse dei direttori di museo o galleristi attraverso alcuni artisti e altri no, interessi assai lontani dal valore delle ricerche. Sino alle lotte fratricide tra gli autori, gli artisti, perché in molti casi meritano ancora questo nome, dichiarate o subdole, dovute a tutto questo, alla normalità della vita, quella di sempre dagli inizi dell’umanità, fatta di invidie e rivalità, di sopraffazioni e vittime, di egoismi e occultamenti, di perfidie e malignità. Un po’ tutto quello che i migliori di noi hanno sempre negato (e continuano a non volere).
Per quanto mi riguarda, e riguarda non molti di noi, credo che queste ricerche non debbano mai essere né condizionate da mode né dal mercato, ma abbiano e certamente avranno vita autonoma, lunga quant’è quella del vedere e della visione.