Cosa rende un dipinto un Dipinto? A questa domanda storici dell’arte, critici e artisti non hanno ancora saputo dare una risposta. Forse analizzando il lavoro di Rudolf Stingel possiamo rispondere al quesito.
Se è vero che dipingere è agire, questa azione non produce necessariamente un dipinto: nella maggior parte dei casi il risultato è un’approssimazione a un dipinto ideale che esiste nella mente del pittore. Ciò che rende un dipinto un Dipinto è la capacità dell’artista di realizzare o un’interpretazione che potrà essere guardata per sempre, oppure di creare un vuoto che si mescolerà con il passaggio del tempo. Questa capacità di abbracciare e imbrigliare il tempo è la chiave per creare un Dipinto.
Dipingere può essere un’azione ma deve essere anche un’osservazione. Il mero atto di dipingere non crea un Dipinto, ma semplicemente della pittura. Eppure, se l’azione di dipingere è usata come una lente per osservare la realtà al fine di creare un’altra realtà, allora abbiamo un Dipinto. Perché? Perché l’osservazione crea distanza, e con essa quella soglia di cui lo spettatore ha bisogno e che vuole superare per accettare la differenza tra la realtà e l’arte. Questa osservazione, unita a una comprensione del tempo, trasforma un dipinto da semplice pittura in un Dipinto. Inoltre, è la comprensione, traduzione e rappresentazione del tempo a determinare se un dipinto è figurativo o astratto: tutti i dipinti sono creati nel tempo, ma mentre la figurazione è tempo trasformato in sogno, l’astrazione è tempo congelato. Perciò dipingere, come azione coinvolge la figurazione quando questa presenti una possibile narrativa, un teatro senza fine, in continua evoluzione. L’astrazione, d’altra parte, produce una quiete, una mancanza, un vuoto.
I greci parlavano di due tipologie di tempo: il kairos, il momento propizio, e il kronos, tempo in evoluzione o eterno. Se il kairos è un momento preciso nel tempo, allora la figurazione si rivolge al kairos, all’attimo. Se il kronos è il tempo della speranza, allora l’astrazione si rivolge al kronos, il tempo della corsa sulla lunga distanza. Non finisce, ma consente all’immagine di fluire incessantemente nell’astrazione.
Forse questa suddivisione può essere compresa più facilmente pensando alla differenza tra il Cristianesimo e il Buddismo. L’astrazione non corrisponde a un’idea occidentale del tempo. Se sei un pittore astratto, cercherai continuamente di negare la mortalità, perché l’astrazione può sopravvivere senza il reale. Se invece sei un pittore figurativo, ti nutrirai sia di immagini reali sia di sogni. Un pittore astratto continua a ripetere se stesso, in un ciclo infinito, simile alla nozione dell’esistenza del Buddismo. Il pittore figurativo, d’altra parte, tenta di rimandare la morte, poiché crede che senza immagini non ci siano né tempo né esistenza.
Un pittore che abbracci entrambe le nozioni di tempo è difficile da trovare. Gerard Richter è senza dubbio l’esempio più eclatante. Le sue astrazioni sono dipinti figurativi che hanno ecceduto il proprio tempo. Nonostante l’offuscamento che li sovrasta e che sembra renderli astratti, la loro apparenza indistinta opera per oltrepassare i limiti della Storia, esaurendo tutto il tempo narrativo del dipinto per diventare una parte della memoria o dei sogni. Dalla sua pittura figurativa possiamo vedere una via verso l’astrazione, ma il processo opposto appare impossibile. L’astrazione è un passo verso il sublime, ma anche verso la morte: la resurrezione non è una possibilità per la pittura, solo per l’eternità. Il lavoro di Rudolf Stingel rappresenta un nuovo tentativo di riempire lo scarto tra astrazione e figurazione; i suoi dipinti siglano continuamente un armistizio tra kairos e kronos. Le sue astrazioni e i suoi ritratti si guardano l’uno nell’altro, per riempire il vuoto lasciato dall’astrazione e dalla figurazione di Richter. Stingel crea un modo transitivo di recedere dall’astrazione nel soggetto e per spingere il soggetto in un genere diverso di tempo. Se l’indistinzione di Richter è l’anticipazione di un’imminente e più radicale sparizione del soggetto, le impressioni di Stingel lasciate dal motivo del tessuto o dalle suole degli stivali sono le stesse di quelle lasciate dal soggetto sulla tela.
Si potrebbe dire che un pittore figurativo, che si fonde con il passaggio del tempo, è mondano, ma non si può dire lo stesso per i dipinti del maestro tedesco. Richter forza il mondano, scopre la banalità delle immagini attraverso i loro soggetti per creare una perfetta equivalenza tra dolcezza ed emozione, ritraendo in continuazione il volto della realtà che rimane ferma.
Questa nozione di mondanità è molto diversa da quella usata da un pittore come Thomas Kinkade, che indulge nel mondano per sfruttare ideologicamente il banale. Richter crea un dipinto che oggettivamente diventa un velo sul reale senza una gerarchia. Il suo cottage diventa un cottage anonimo, quindi universale. Kinkade, presentandosi come il maestro della luce, ironizza sul pittore della domenica, dimostrando un’abilità tecnica che è la parodia del contenuto. Il cottage di Kinkade è il cottage di una favola, un cottage ideale, di sogno. Né i suoi dipinti, né le sue case “di ispirazione Kinkadiana” in California aspirano a essere universali, ma hanno piuttosto lo scopo di creare un senso di fuga nostalgico e una falsa moralità. È qui che Stingel fonde i due artisti, suggerendo la possibilità di abitare in una mescolanza dei due mondi, come in un documentario inventato.
Combinando questi due modi di usare il mondano, la manipolazione di Richter e il sentimento morale di Kinkade, Stingel crea una pittura oggettiva, eppure leggera. Nell’atto del dipingere coesistono per Stingel sia la manipolazione che la fantasia, ed è per questo che Untitled (Birthday) del 2006 — il suo autoritratto davanti a una torta di compleanno — rivela l’essenza della sua produzione. Lo sforzo di Stingel consiste nel presentare la pratica attuale del dipingere non come una fuga da qualcuno di questi elementi: Storia, universalità, moralità, mediocrità, banalità, borghesia, oggettività, romanticismo e frivolezza, ma dipingendo in bianco e nero, Stingel si sforza di raggiungere sia l’oggettività di Richter, con il suo uso della Storia freddo e distaccato, sia la moralità di Kinkade, con il suo uso della pittura come Bibbia del mondano. Qualcosa di più della tradizionale auto-rappresentazione, l’autoritratto di Stingel è l’autobiografia di un dipinto attraverso il suo autore. Attraverso il ritratto dell’artista, la pittura sta raccontando la sua storia imbrigliata sia nel mondo infinito di soggetti di Richter, sia in quello deludente di desideri frustrati di Kinkade, combinato con il congelarsi del tempo proprio dell’astrazione. Richter nega di proposito la sua presenza, la sua autorità e la sua rappresentazione, dichiarando la proprietà della realtà circostante, e dunque vede ogni immagine come un autoritratto perché vista attraverso i suoi occhi. Osservando se stesso e il mondo in modi diversi, Stingel dichiara l’impossibilità di far coincidere l’identità di qualcuno con altro se non con il vuoto della propria personalità, e attraverso la negazione della sua stessa rappresentazione permette a questi dipinti di incarnare il kronos, di rivolgersi alla Storia e al futuro della modernità in declino, continuando contemporaneamente l’autobiografia della pittura nella moltiplicazione di se stesso senza sosta.
Nonostante Richter e Stingel si accostino al mondo da due diverse prospettive, essi condividono il senso dell’assurdo teorizzato dallo scrittore francese Albert Camus; entrambi accolgono l’idea che non possiamo fare nulla contro il mondo che ci circonda. Il destino è semplicemente il risultato del guardare il mondo che si dipana con noi dentro, come un filo metallico steso a terra in cui la carica corre da un polo positivo verso uno negativo, portando e consumando energia. I dipinti di Richter, che sembrano simboleggiare il ruolo di Meursault, il protagonista de Lo straniero di Camus, sono il risultato di questo modo di accettare il mondo come irrilevante o negativo.
Stingel fa un passo avanti, comprendendo che la pittura porta energia e la consuma, e l’astrazione interviene quando l’elettricità sparisce. Eppure, sia per Richter che per Stingel, la pittura è irrilevante; non è un soggetto, ma qualcos’altro. In questo sforzo di percepire e creare questo altro, emerge la loro differenza. Se uno accetta la pittura come un modo di vedere il mondo, l’altro la accetta come un modo di sentire il mondo. Riferendoci ancora una volta alla scrittura di Camus, dipingere è come il mito di Sisifo. Mai una pratica artistica è stata uno sforzo tanto infinito quanto lo è la pittura. Tentando di evadere le restrizioni e le regole della pittura, Stingel utilizza ogni possibile mezzo per dirci che la pittura è solo una superficie simbolica, il primo strato della superficie del mondo, e prova a rivelare i suoi significati. La pittura vista in quanto idea autonoma è inutile, come è inutile una cellula del corpo se presa come essere a sé. È nella connessione tra le diverse cellule o tra i diversi dipinti che si può produrre un significato. Questa è la ragione per cui non si può fare un’autopsia al corpo di opere di Stingel, che al contrario ha bisogno di essere visto come una reazione a catena tra possibili dipinti. Come i dipinti di Richter, il lavoro di Stingel non può vivere in un vacuum. Eppure ogni opera contiene il resto di tutte le altre opere, la loro memoria. Ciascuna è un atto di ribellione, ma anche una della molte parti di una rivoluzione in atto per liberare la pittura dalla tirannide della rappresentazione mondana o dall’annichilimento del color field. Potremmo dire che Stingel abbia inventato due binari paralleli su cui inserire il suo lavoro: una “kairologia”, il binario su cui ogni opera può essere vista come un gesto che contiene tutti gli altri gesti; e una “kronologia”, un binario su cui ogni opera è un passo in un lungo, imprevedibile futuro della pittura. Nella kairologia ogni opera è conclusiva, definisce uno spazio o un luogo, mentre nella kronologia ogni dipinto è inclusivo di tutti gli altri dipinti. Se utilizzassimo questi due binari per guardare il Nudo che scende le scale (1912) di Duchamp, potremmo dire che la kairologia mostri ogni movimento del nudo e la kronologia rivela il completo movimento di discesa.
Se Richter ha lasciato uno spiraglio aperto per Stingel per colmare l’abisso tra la debole spiritualità dell’astrazione e i rapidi granelli di sabbia delle immagini, Marchel Duchamp, insieme a Thomas Kinkade, sono necessari per comprendere perché la pratica di Stingel non sia pittura come mero mezzo, o pittura per il puro piacere di dipingere, e nemmeno l’auto-caricatura della pittura, ma la celebrazione della pittura come derma, o pelle, della realtà, una sottilissima superficie in cui possiamo lasciare le nostre orme, che non sono necessariamente sempre arte. L’arte di Stingel non è la sua pittura. La sua arte è la comprensione della pittura in quanto impossibilità di creare un Dipinto e creare, soltanto e all’infinito, come il mito di Sisifo, un’infinita serie di dipinti, un’infinita serie di autoritratti, e la pittura stessa infinita. È attorno a quest’idea di pittura come autoritratto della pittura che Marcel Duchamp, Gerard Richter, Thomas Kinkade e Rudolf Stingel raccolgono e condividono la stessa frustrazione. Trattando la disperazione in modi diversi, Stingel guarda profondamente all’interno, mentre Kinkade trasforma l’esterno in una favola, e Richter si nasconde in quella zona grigia tra l’interno e l’esterno, mentre Duchamp si rifiuta di preoccuparsi di tutto questo, sostituendo le regole dell’arte e del dipingere con le regole degli scacchi, un gioco, non un divertimento, ciò di cui la pittura ha bisogno di essere per richiedere un cambiamento.
Dichamp diceva “bete comme un peintre” (stupido come un pittore). La traduzione letterale sarebbe “bestia come un pittore”, ma sappiamo che intendeva stupido. Infatti, per evitare di essere stupido, smise di dipingere. In realtà non abbandonò mai del tutto la pittura, ma semplicemente evitò tele e pennelli.
Io non sono Duchamp, ma come lui ho smesso di dipingere, eppure anch’io ritorno sempre alla pittura. Forse il desiderio ultimo del pittore è di essere in grado di abbandonare la pittura pur rimanendo un pittore. Perciò il tentativo di Stingel di prendere le distanze con le sue installazioni, i suoi tappeti, i suoi specchi, è stato in qualche modo tentato dall’atteggiamento di Duchamp, di essere sempre un pittore senza il bisogno di un dipinto.
Nei tardi anni Ottanta la pittura si paralizzò, come un corpo caduto nelle sabbie mobili. In quegli anni, Rudolf Stingel e molti altri artisti della sua generazione rimasero intrappolati tra l’arte concettuale, il minimalismo e un atteggiamento reazionario nei confronti dell’arte. Nel loro ritorno alla pittura si trovarono di fronte al dilemma: abbracciare la nuova ondata di appropriazionisti, neo-geo e concettualismo basato sulla fotografia, oppure insistere con il sentiero sempre più stretto del neo-espressionismo che stava via via indebolendosi, se non sparendo completamente.
Nessuna delle due opzioni sembrava attraente per Stingel. Con una presunzione simile a quella di Albrecht Dürer, che nel 1525 pubblicò il suo Manuale del pittore, anche Stingel ha prodotto le sue “painting’s instructions” (Instructions, 1989), una serie di fotografie raccolte in un piccolo manuale che spiega, passo passo, in diverse lingue, come fare un vero silver painting “di Rudolf Stingel”. Ciò che era interessante era il fatto che se avessi seguito le istruzioni dell’artista, non avresti creato il tuo Rudolf Stingel, ma avresti fatto un dipinto per Rudolf Stingel. L’idea delle istruzioni era fuorviante; in realtà non ti stavano insegnando come dipingere, ma ti stavano portando con un trucco a imparare come fare un dipinto per qualcun altro. La mossa di Stingel è stata quella di rovesciare la teoria di Walter Benjamin, creando una possibilità di insegnare i meccanismi per produrre l’aura delle sue opere. Nel fare questo, si potrebbe dire che abbia sfidato Thomas Kinkade. Entrambi si avvalgono di altri per realizzare i loro dipinti, ma Stingel non chiede che quelle mani agiscano come le sue o che pretendano di essere le sue. A differenza di Kinkade, Stingel non aveva l’ambizione di vendere la verità insieme a dieci milioni dei suoi dipinti di cottage, ma piuttosto di immaginare dieci milioni di persone che realizzano i suoi dipinti per lui.
L’incubo megalomane di Kinkade di essere il “pittore” di tutti venne schiacciato dal poco attraente libro di istruzioni di Stingel. Mi piace indulgere in un’idea perversa: che i “Silver Paintings” che si potevano realizzare seguendo il piccolo, “stupido” libretto stampato da Stingel, possano sublimare proprio l’idea dei dipinti di cottage di Kinkade nel più puro luccichio di luce. L’opera di Stingel è il tranello dell’aura contro l’artificialità del pittoresco. Kinkade sottomette la meraviglia al gusto, al cattivo gusto, mentre il procedere di Stingel genera meraviglia. La meraviglia fa la differenza tra ciò che è solo un dipinto e un Dipinto. Dipingere è la lotta infinita tra stupidità e accortezza, tra meraviglia e gusto. I dipinti di Kinkade sono una biografia del gusto; quelli di Stingel sono un’autobiografia della meraviglia. Quelli di Richter sono i diari di un ateo. La stupidità è, dopo tutto, l’incapacità di resistere alla meraviglia. L’accortezza è l’ossessione di controllare la meraviglia attraverso il gusto. Thomas Kinkade decisamente non è stupido, ma proprio per questo non è nemmeno un pittore, mentre Stingel è sia uno stupido che un pittore. Ecco perché Kinkade è condannato al cottage e alle tele, mentre Stingel, come Duchamp, può sfuggire a entrambi ed essere ancora in grado di creare pittura, come ha fatto col tappeto, la gomma, la stagnola, lo styrofoam.
La mia insistenza nel paragonare queste diverse figure — Stingel, Kinkade, Richter e Duchamp — che appartengono a mondi visivi completamente differenti, è un tentativo di sottolineare che i meccanismi della pittura possono avere esiti diversi: uno appartenente al regno della meraviglia e del desiderio, l’altro definito dalle regole del gusto e dallo sfruttamento della frustrazione; un altro ancora appartenente all’equivalenza di ogni immagine, e l’ultimo al rifiuto di tutti questi problemi, affermando che “non ci sono soluzioni perché non ci sono problemi”. Dipingere non è assolutamente una soluzione, ed è decisamente un grosso problema. Negare alla visione di Thomas Kinkade e ai suoi dieci milioni di collezionisti il diritto di una legalità artistica sarebbe un’arroganza controproducente. Dopotutto, sopra il mio letto in un hotel di Shanghai era appeso il quadro di un cottage firmato Thomas Kinkade, non un dipinto d’argento di Rudolf Stingel o un paesaggio di Richter. Eppure la sovversione e l’invenzione dei meccanismi dell’aura nel libretto di istruzioni di Stingel ci informano che la pratica artistica e la pittura sono una faccenda diversa dal semplice piacere di un occhio disinformato o deformato dalla tirannide del gusto. Nella sua stupidità, Rudolf Stingel è stato in grado di sconfiggere l’esperienza ottica, tanto disprezzata da Duchamp, e allo stesso tempo di sconfiggere la fiscalità della pittura convenzionale, attraverso l’uso di superfici non tanto diverse ma instabili, proprio come faceva Duchamp con il suo grande vetro. Questa sovversione, presente in tutte le opere di Stingel, è un processo ritardante, che è qualcosa che Duchamp ha professato attraverso la sua carriera. Il libretto di istruzioni è sul rimandare — l’atto di dipingere, la manifestazione dell’aura, la coscienza dell’autorità. Anche i suoi dipinti con le orme di styrofoam parlano del ritardare. Come il film di David Cronenberg A History of Violence, la “History of Painting” di Stingel costruisce il climax del suo lavoro attraverso una serie di esperimenti ritardanti su varie superfici. Mentre il protagonista di Cronenberg Tom Stall, interpretato da Viggo Mortensen, sta ritardando la consapevolezza dello spettatore della sua profonda e fastidiosa capacità di impadronirsi della violenza, similmente il viaggio di Stingel ritarda la comprensione dello spettatore del suo straordinario controllo sul linguaggio tradizionale della pittura.
L’apoteosi del lavoro di Stingel si raggiunge con la sua recente serie di autoritratti. Il soggetto non è quello che noi vediamo. Creare un’astrazione da un’immagine e la ripetizione dello stesso soggetto suggerisce che anche un’immagine può essere senza fine. E questa è la ragione per cui il soggetto non è l’artista stesso, ma lo stato bipolare del soggetto della pittura. Questo nuovo lavoro è una delle molte vie parallele della sua continuazione dell’autobiografia della pittura. I primi silver paintings e i recenti autoritratti sono i due poli della natura bipolare dell’artista e del dipingere, lacerata tra il sublime illimitato e le catene soffocanti del mondano. Con l’autoritratto, Stingel tenta il soffio finale all’impossibile lotta dell’arte di Kinkade. La dittatura della mediocrità non può sopravvivere al fondamentale istinto di sopravvivenza di qualsiasi essere umano di confrontarsi con la meraviglia, abbandonando la zattera del gusto. Forse non abbiamo risposto alla domanda su cosa renda un dipinto un Dipinto. Forse non c’è risposta, o forse la risposta è interrogare la pittura, come fa Stingel, più e più volte, guardando in profondità e in superficie allo stesso tempo, graffiando la superficie o collassando sotto il peso della propria identità. Perché dipingere può essere o un rivoluzionario nuovo inizio oppure un atto finale bloccato come un disco sulla stessa parola o nota. Nella torta di compleanno di Stingel c’è un chiaro senso della caduta di un impero o l’atmosfera de L’ultimo nastro di Krapp (1959) di Samuel Beckett, con anche la punta della recente interpretazione dell’opera teatrale di Harold Pinter, l’atto finale. In questa semplice e raffinata immagine di un uomo che festeggia se stesso, probabilmente da solo, c’è il peso della storia dell’arte, il peso di generazioni di pittori che pongono la stessa domanda senza mai trovare la risposta giusta, la responsabilità di essere responsabili della Pittura, forse per l’ultima volta, forse e più tragicamente, per sempre.