Marco Tagliafierro: Da sempre noto che ti interessano le culture fuori gioco. È vero?
Paolo Gonzato: Tutte le dinamiche in recesso mi affascinano, la loro condizione “perdente” è codificata in questo modo dalla teoria dei caratteri dominanti di Mendel; c’è qualcosa in quell’essere errore che contemporaneamente le nobilita, si tratta, a mio avviso, dello stesso fattore che riscontro nelle ricerche passate da troppo poco tempo per essere “elette” e da quelle zone di cultura non eurocentrica o dismesse per chissà quale ragione. Tutto ciò le rende ai miei occhi soggetti interessanti da analizzare, su cui fare esperimenti.
MT: Penso in particolare a un ciclo di lavori intitolato Out of Stock, penso alle porzioni di colore che giustapponi. Diverse individualità a confronto. A questo proposito ritengo che il rapporto tra identità e alterità si risolva nella continua contrattazione tra due o più soggettività. Sei d’accordo?
PG: Per l’indagine che sto portando avanti accade che si contrappongano sempre livelli differenti e in antitesi, mi piace l’idea di mash-up all’interno dell’intero corpus di lavori, un atlante di possibilità affini o in contrasto, dove nulla è assoluto e la regola può essere evasa in mille modi esprimibili da altrettanti materiali in disaccordo tra loro, da immagini probabilmente inconciliabili e scansioni geometriche quasi sicuramente impossibili; estendo questa riflessione anche ad altri cicli di lavori come Sound of ego e It’s not right, dove la presenza di materiali eterogenei rappresenta oggettivamente una tensione, una frizione a cui non posso rinunciare.
MT: Lavori spesso su superfici intagliate a rombo, perché ricorre questa figura geometrica?
PG: Il rombo è una figura modulare che funziona su differenti livelli. Risulta funzionale nella misura in cui, costituendo un palese riferimento ad Arlecchino, si trova a descrivere perfettamente la proliferazione di un lavorio sull’avanzo.
MT: Una disarmante semplicità?
PG: Direi una visione disincantata della forza espressiva che mi porta a pensare che l’immagine più efficace è sempre quella più ovvia, quella su cui concentrare l’interesse, renderla nuovamente contemporanea e usare il suo potenziale di forma già acquisita dalla cultura di massa.
MT: Concedi molto spazio alla casualità: come riesci a gestirla?
PG: Per quel che mi riguarda è come un’implosione controllata: minare il palazzo contemplandone il crollo senza sapere come, alla fine, i detriti si sedimenteranno. Poiché, fornite le regole, non si può prevedere il risultato sulla scultura.
MT: Cosa intendi per scultura?
PG: Non mi sono fatto un’idea precisa di quali siano i limiti e le regole che creano una scultura. Di cosa renda una statuina di ceramica o qualsiasi altro materiale un oggetto artistico. Voglio che i miei siano oggetti muti, realizzo strutture instabili e precarie, immobili e indefinite al contempo, sia nell’intenzione sia nei materiali e anche nei processi che le rendono possibili.
MT: È possibile registrare la fenomenologia dell’assenza?
PG: Il vuoto è uno stato di violenza più forte di qualunque segno, più di quello pornografico che è comunque accattivante o dell’iconografia della morte. Il vuoto è uno stato sgradevolmente presente, ambiguo e sinistro nella pulizia clinica della purezza, bianco o notturno. Sono convinto che tutte le forme organizzate vadano verso il disordine, verso la distruzione dei loro sistemi. In un lavoro senza titolo ho cancellato il testo di diciotto telegrammi di condoglianze tramite una foratrice per la carta, asportando materia e parole.
MT: Il riverbero dell’azione compiuta da un artista può implodere nell’autoreferenzialità?
PG: Parlarsi addosso, fare cose tanto per il gusto di farle, spendere del tempo compiendo delle azioni, tutto questo esprime un’idea di processualità diversa da quella pianificata, significa caos; seguendo questo percorso ho arrotolato chilometri di nastri da regalo su se stessi o attorno a tronchi di mimosa e ho inflitto infinite bruciature di sigaretta a grandi fogli di polietilene. Inutile, a mio modo di vedere, non vuol dire superfluo o sterile bensì è l’occasione per tentare una comunicazione motivata da altri obiettivi.
MT: La trasposizione su un telo da bagno di una foto a bassa risoluzione, estrapolata da un giornale, conduce l’immagine in una dimensione spazio-temporale altra rispetto a quella d’origine; qual è questa nuova dimensione?
PG: Durante un viaggio in Giappone, ho collezionato immagini di incontri di Sumo strappate da quotidiani. Quello che mi interessava era la rappresentazione di questi corpi, di queste architetture obese impegnate in strane evoluzioni, che ai miei occhi risultavano fluttuanti, congelate, sospese o prossime alla caduta; mi interessava il valore estetico di queste enormi masse destinate a essere sbattute sul pavimento, la prossimità del disastro di fronte alla sicurezza di un volume così imponente, improvvisamente bloccato nei pixel dell’immagine tipografica. Su mia richiesta, alcuni artigiani giapponesi ne hanno fatto un arazzo domestico jacquard, quindi l’immagine non risulta sovraimpressa ma ricamata, è prodotta dall’alternanza dei fili bianchi e neri e viene proiettata in una condizione di sospensione spazio-temporale in equilibrio tra tradizione e innovazione.