Silvia Conta: Dal 2009 porti avanti un progetto direttamente connesso con l’idea di libertà e democrazia, “Common Task”, che con la sua serie di azioni su base collettiva che dal 2009 hanno coinvolto in modi differenti spazi pubblici o istituzionali in diverse nazioni, da vari Stati europei al Brasile fino al Mali. Qual è il rapporto che viene stabilito con lo spazio istituzionale e come si evolve?
Pawel Althamer: Io considero un’istituzione come un’estesa forma dell’io, un io collettivo, o di gruppo. E così come “Common Task” è un tentativo di andare oltre il mio io individuale, il progetto può essere — o almeno spero — efficace pure per le istituzioni, perché anch’esse, in definitiva, si basano sull’io. Quindi “Common Task” si innesta su quest’io e interagisce con esso. Le istituzioni lo possono utilizzare per curare il sistema o per rigenerarlo. Far esplodere le cose dall’interno o sfidare lo status quo sono alcune delle vie attraverso cui un’istituzione può testare il suo effettivo funzionamento, ma può, altrettanto bene, scambiarsi di posto con un’altra istituzione o rovesciarsi completamente, come una scultura di Roman Stańczak, e poi capire se ottiene tutto ciò che può, scoprire se è sana o se è in declino perché — nella mia ottica — tutti, in un modo o nell’altro, vogliamo dar luogo ad attività che abbiano uno sviluppo, un’evoluzione. In questo senso Common Task è una proposta che comporta sviluppo “comune” implica una relazione che ha i suoi alti e bassi, come il matrimonio… Quando vado in un’istituzione con il progetto, chiedo se la mia e la loro idea di Common Task abbiano, di fatto, qualcosa in comune, se di fatto i nostri progetti sono vicini, e solo nel caso in cui lo siano, possiamo imbarcarci nell’avventura — questo è il suo inizio, non la fine.
SC: In un articolo della casa editrice Phaidon riguardante la tua vincita dell’Aachen Art Prize 2010 si legge: “Althamer è noto per il suo uso di strutture e sistemi preesistenti come fossero parchi giochi in cui esplorare la forza sociale e comunicativa dell’arte”. In che modo tu e il tuo gruppo di performer entrate in contatto con i luoghi in cui esse si svolgono? Come avviene la reciproca esplorazione tra popolazione locale e le vostre azioni?
PA: Recentemente “Common Task” ha lavorato con gruppi di bambini della scuola materna — quindi persone molto giovani — e osservandoli si può notare che i Common Tasks sono, in un certo senso, uno stadio naturale dello sviluppo umano. Un processo che di fatto non si ferma mai e consiste in un’incessante trasformazione e scoperta delle caratteristiche di ciascun individuo. Tutto ciò non opera contro il singolo, ma fa in modo che esso riconosca in se stesso il proprio pieno potenziale come parte di una collettività. Questo è quindi il funzionamento di “Common Task”. Quando noi andiamo nei diversi luoghi indossando quegli abiti d’oro testiamo il grado in cui la società e il gruppo che ci hanno ospitati sono aperti e interessati a sapere chi siamo. Le variabili sono diverse a seconda delle località, ma è sempre affascinante scoprire come la gente reagisce al nostro “intervento” che — in molti casi — per noi significa semplicemente essere in quel determinato luogo. Non c’è stata mai alcuna aggressione. Le reazioni che abbiamo riscontrato sono state stupore, perplessità o momenti di silenzio in cui venivamo esaminati. In genere la gente ci accoglie con sorrisi. Prendiamo il Brasile come esempio: siamo stati in un luogo che ha una ricca tradizione di racconti sulle visite di alieni ed extraterrestri e nella città di Brasilia, progettata da Oscar Niemeyer che, a quanto pare, aveva già preparato i suoi abitanti per un contatto con gli alieni, ma al nostro arrivo è stato evidente come loro non avessero mai ricevuto la visita di un gruppo di persone vestite d’oro. L’iniziale reticenza, o persino apprensione, ha presto lasciato spazio alle risate. La gente ha rapidamente compreso che si trattava di una scena folle, tutt’altro che minacciosa; non si trattava del solito film hollywoodiano in cui gli alieni compaiono per spappolarti con una qualche tecnologia superiore. Non ci sono alieni tra di noi, questo è il fatto. E non importa per quanto rifiuterai di ammetterlo. Alla fine arriva il momento in cui pensi che l’alieno e l’alienato potresti essere proprio tu. E proprio qui con un gruppo abbiamo percepito di essere di fronte a una situazione di questo tipo: c’è stato un intero spettro di reazioni, le più interessanti sono state il coinvolgimento, la partecipazione, le idee per azioni che avremmo potuto svolgere una volta tornati a casa e l’invito a muoverci sulla traccia delle idee dei nostri ospiti.
SC: Essendo un progetto su base comunitaria “Common Task” ha quindi anche un significato politico?
PA: Questo è esattamente il contesto. Va tenuto presente che noi definiamo la politica nei termini diretti in cui Artur Żmijewski lo fece per la Biennale di Berlino. Eccoli, primo: solo la verità può renderci liberi; secondo: la politica riguarda essenzialmente la libera scelta. Fare delle scelte libere e oneste ripaga più che mentire, perché in fin dei conti quello che hai chiesto potresti anche riceverlo. L’idea di Artur e l’idea di questa nuova ondata di persone che ambisce ad una nuova consapevolezza, consiste nel concepire la politica come una serie di principi basati sulla genuina natura umana. Nel profondo gli individui non sono infidi e non tramano su come stare meglio a spese altrui. In questo senso Common Task non è questo o quel programma politico, ma fare scelte oneste che hanno le loro conseguenze. Il risultato è che “Common Space, Private Space” — il corso che Greg Kowalski ha tenuto all’Accademia di Belle Arti — si evolve nella vita e ci ricorda semplicemente che non abbiamo mai cominciato a creare fino a che non ci siamo trovati con altre persone nella sabbiera dei giochi da bambini.
SC: Attraverso il tuo lavoro tu annulli i confini tra spazio e tempo, corpo umano e pensiero. Attraverso l’uso di simboli antichi e complessi come limiti, oro, viaggio, corporeità, etc., tu entri in contatto con la parte più profonda dell’individuo in termini sia sociali che personali. Quale pensi dovrebbe essere la funzione o la conseguenza di questo eterno ri-pensare in merito alle radici dei sentimenti e del pensiero?
PA: Innanzitutto dovremmo chiederci perché la gente definisce questi come confini, perché, di fatto, la loro esistenza è piuttosto arbitraria e illusoria. Ma da quando essi esistono è un passo logico — grandiosamente chiamato shamanismo — esaminarli e riconoscerli, realizzare, eventualmente, che questi confini esistono in parte a causa della nostro carenza di conoscenza. “Common Task” di fatto è un movimento che promuove attività basate sulla verità. Questo può sembrare un po’ altezzoso, ma dobbiamo comprendere l’estensione con cui la menzogna si è radicata nelle nostre vite come parte del teatro della quotidianità. È come un carnevale di Venezia cresciuto in maniera spropositata al punto che tu sei indotto a portare una maschera solo per non sentirti inopportuno. “Common Task” riguarda di fatto l’essere se stessi, il ritornare alla natura nel senso più generale del termine, riconoscendo che le persone, la natura e l’universo sono un tutt’uno. E ciò si riferisce anche alla cultura, che non deve essere necessariamente esclusa da un’equazione come questa. Rimuoverla significherebbe perderla o rinunciarvi.
SC: In Italia hai portato “Common Task” lo scorso maggio, a Museion, nelle cui sale espositive ora c’è la tua mostra di sculture Polyethylene. In generale come consideri la relazione tra performance, scultura e processo creativo?
PA: Essendo uno scultore considero la scultura come una performance compiuta o il suo effetto collaterale, e penso che gli altri possano vedere la scultura come un punto di partenza per la loro personale esperienza o l’inizio della loro personale performance. In altre parole, la paletta e il secchiello che ti sei lasciato dietro dopo aver costruito il castello di sabbia può essere utilizzato da altri costruttori, come le rovine del tuo castello possono essere usate come fondamenta. Per questa ragione la scultura e il processo durante il quale la scultura emerge per me sono sempre stati inestricabilmente connessi. L’attività è la parte più importante, gli oggetti — per quanto belli — sono soltanto un effetto collaterale.