Andrea Bellini: Piero Gilardi tu sei svizzero, vero? Da che tipo di famiglia provieni e come sei arrivato a Torino?
Piero Gilardi: Diciamo che faccio parte di una famiglia svizzera, ma sono nato a Torino. Mio padre, ticinese di Lugano, venne a Torino negli anni Venti per studiare all’Accademia Albertina, poi si sposò qui e mise su famiglia, con sei figli, che per una legge fascista ebbero obbligatoriamente la cittadinanza svizzera.
AB: E tu come hai cominciato a frequentare l’arte e gli artisti della Torino degli anni Sessanta?
PG: Ho frequentato il Liceo Artistico di Torino — prendendomi un bel 10 in Storia dell’arte alla maturità — ma poi non mi sono iscritto all’Accademia perché mi dava la sensazione di essere in un ambiente “viziato”. In realtà dovevo compiere il mio ciclo edipico e “uccidere il padre”. Così, da autodidatta attento alle mostre della Bauhaus Immaginista che Michel Tapié organizzava nel suo Centro in via della Basilica, incontrai e allacciai rapporti fraterni — da fratello “minore” — con Aldo Mondino e Michelangelo Pistoletto. Il problema di cui discutevamo in quel triangolo amicale era quello della rottura dello “schermo della rappresentazione” e del passaggio dalla mimesi alla ricreazione, cioè alla produzione di oggetti artistici nello spazio del vissuto.
AB: Molto presto inauguri la tua prima mostra personale nel 1963. Mi vuoi parlare di questo tuo primo progetto?
PG: Il mio gesto di rottura con la “pittura” fu la mostra “Macchine per il futuro”, di cui espongo un esemplare nella mostra da te curata al Castello di Rivoli. Si trattava di una sorta di diaporama tecno-scientifico sulla futuribile civiltà cibernetica; un gesto dadaista e radicalmente antiestetico. Ricordo che presentai questo lavoro a Lucio Fontana e lui generosamente mi disse che stavo esplorando “l’al di là” del suo taglio nella tela.
AB: I tappeti-natura nascono, almeno concettualmente, in quella prima mostra…
PG: I tappeti-natura nacquero nel 1965 come una esemplificazione della decorazione gestaltica dell’interno della cibernetica “cellula individuale di abitazione”, presentata nel complesso delle “Macchine per il futuro”. Nel realizzarne i primi tappeti ho mutuato da Oldenburg la poetica sensoriale del “soft”, ma per me la gommapiuma aveva principalmente il senso di accogliere e di interagire con il corpo.
AB: Piero, i tappeti-natura sono considerati un po’ il tuo marchio di fabbrica… Ti ha mai pesato questa cosa? In fondo la tua ricerca si fonda sul principio di un’estetica relazionale, di un’esperienza di creatività comunitaria, democratica, liberatoria. Credi in un’arte come motore positivo di trasformazione sociale. Eppure il tuo lavoro è così fortemente connotato da questi oggetti, che alla fine hanno dimostrato di essere molto seducenti, anche e soprattutto per il collezionismo borghese. Cosa vuoi dire al riguardo?
PG: Naturalmente per un certo periodo, a partire dal momento in cui Ileana Sonnabend “bocciò” i miei oggetti poveri del 1967, dicendomi di continuare a fabbricare tappeti; ho vissuto un senso di rifiuto per queste opere. Tuttavia non disconosco questo lavoro, anche nella sua ripetizione, legata certo alla necessità di finanziare la ricerca costosa nel campo dell’arte neotecnologica e per la costruzione del Parco d’Arte Vivente, poiché penso che contengano una verità umana autentica: il sentimento di nostalgia per una natura mortificata e stravolta dalla società industrializzata. Sentimento che, credo, coinvolga tutti; inoltre perché piacciono “democraticamente” a tutti , borghesi e proletari, tranne che ad alcune persone molto sensibili che vi leggono soprattutto il lato di ombra, cioè il senso di morte della natura.
AB: Perché ti interessava allora questa idea di interazione con il corpo e con il pubblico? Erano preoccupazioni che condividevi soprattutto con Michelangelo Pistoletto, giusto? Storicamente si tratta di uno dei primi esempi di riflessione su una idea di arte relazionale.
PG: L’idea di cui discutevo con Michelangelo era sostanzialmente che l’arte doveva uscire dalla “cornice” della rappresentazione estetica per entrare direttamente nel vissuto del soggetto e quindi interloquire con la sua mente-corpo. In quel periodo la concezione del corpo era ancora molto reificata — il corpo era una macchina organica secondo Voltaire — e noi artisti tendevamo a recuperare l’unità esperenziale e soggettiva di pensiero e substrato corporeo. L’abbattimento di quella dicotomia è stata propedeutica, io credo, alla nascita della Body Art.
AB: Nel 1966 partecipi con Michelangelo Pistoletto e Gianni Piacentino alla celebre mostra “Arte Abitabile”, presso la Galleria Sperone. Come andò l’organizzazione di quella mostra? Chi trovò il titolo e qual era il senso del progetto?
PG: La mostra “Arte Abitabile” tenutasi nel 1966 alla Galleria Sperone di Torino comprendeva anche opere di Merz e Anselmo. Il suo titolo venne discusso e deciso tra gli artisti della galleria nella riunione che facevamo al sabato pomeriggio. Il senso di quel titolo intendeva esplicitare che la nostra ricerca artistica era uscita dalla cornice della rappresentazione estetica per entrare nello spazio del vissuto e quindi della relazione. Io avevo proposto una sorta di terrazza per interni domestici che modificava in modo ludico la prossemica nello spazio della galleria.
AB: In quel momento eri uno degli artisti italiani più mobili e curiosi: viaggiavi costantemente, negli Stati Uniti e in Europa, raccogliendo informazioni che nel 1969 si sarebbero rivelate utilissime per Harald Szeemann nell’organizzare la celebre mostra “When Attitude Becomes Form” alla Kunsthalle di Berna, ma anche per Wim Beeren e la sua “Op Losse Schroeven” allo Stedelijk Museum. In quel periodo hai lavorato anche come “corrispondente” per Flash Art, rivista che allora era appena nata e aveva ancora il formato di un tabloid. Come sei entrato in contatto con Giancarlo Politi e che tipo di articoli hai pubblicato per Flash Art?
PG: La finalità dei miei viaggi, dagli Stati Uniti ai paesi europei, era quella di stimolare e favorire la nascita di un network di artisti attivi sulle nuove tendenze, libero e indipendente dal mercato artistico. Il dossier fotografico con cui viaggiavo conteneva opere di una quarantina di artisti e negli incontri con i singoli artisti mi permetteva di mostrare come stesse crescendo un movimento artistico internazionale con una profonda unità concettuale. Penso che questo dossier fu per Szeemann e per Beeren ben più che un suggerimento, bensì l’approccio a un progetto di ampio respiro e sostenuto da un concept forte e dirompente. Con Giancarlo Politi ho avuto il primo incontro a Torino e grazie al suo ascolto ho potuto iniziare a pubblicare su Flash Art un report della mia attività di relationship.
AB: Per parlare del periodo successivo penso sia basilare fare riferimento a due testi fondamentali per la comprensione del tuo lavoro. Sono ormai passati undici anni dall’uscita del tuo secondo libro Not for sale e trentuno dall’uscita del primo Dall’arte alla vita, dalla vita all’arte. Che bilancio pensi di poter fare oggi rispetto alle analisi e alle ipotesi di lavoro che questi due testi delineavano?
PG: Scorrendo le pagine di questi due libri, che avevo definito di “riflessione autobiografica”, si trovano alcune analisi che appaiono “profetiche” e alcune linee di ricerca artistica che, pur rimanendo costanti nel significato di fondo, si sono modificate ed evolute profondamente con il mutare dei tempi e delle problematiche. Le analisi delle sfide e delle contraddizioni nel primo libro riguardano la rivoluzione sociale e culturale del ’68 e i suoi sviluppi negli anni Settanta. L’idea forza, alla cui elaborazione ho partecipato nell’ambito del gruppo dell’Arte Povera nella sua fase aurorale e in particolare attraverso un dialogo serrato e radicale con Michelangelo Pistoletto, si può ben sintetizzare nel concetto dialettico: “L’arte deve entrare nella vita, ma dato che la vita è alienata, occorre impegnarsi anche a liberare e disalienare la vita”.
AB: Per questa ragione chiudi con il sistema dell’arte…
PG: Sì. Da questa considerazione discende la mia scelta alla fine degli anni Sessanta di non produrre più opere e di impegnarmi in una militanza attiva che inizialmente ho svolto nell’ambito del movimento anti-manicomiale e anti-psichiatrico. Nel mettere in pratica questa scelta ha giocato, per me soggettivamente, l’analogia tra la follia come esperienza psichica di sofferenza e la follia dell’artista che esprime significati paradossali e dirompenti per il cosiddetto senso comune di una cultura e di una società omologati dal potere. Dall’altra parte questa scelta era sostenuta a livello teorico dalle argomentazioni di Herbert Marcuse che aveva affermato che l’agire politico, sorgivo e spontaneo, era tout court un agire artistico. Ricordo il dibattito filosofico-estetico di quel periodo nel quale si analizzava la “Non arte” e la sua natura di utopia negativa.
AB: Il tuo secondo libro Not for Sale riassume le esperienze dei due seguenti decenni, segnati dall’irrompere del Post-industrialismo, della cosiddetta rivoluzione informatica e dalla nascita del pensiero post-moderno. Come è cambiata la tua visione del mondo e della società e su quali ipotesi di lavoro nuove ti sei mosso in questo secondo periodo?
PG: Se i movimenti nati dal ’68 hanno subito una sconfitta sul piano politico alla fine degli anni Settanta, sia per incapacità propria a sviluppare una strategia rivoluzionaria adeguata ai tempi sia a causa della controffensiva strutturale del capitale divenuto post-industriale, l’onda lunga della rivoluzione culturale ha invece continuato ad agire, senza riflussi, fino ai primi anni Ottanta, esprimendo anzi in quel periodo i suoi frutti culturali più maturi. Per me personalmente è stato di cruciale importanza l’impatto con le nuove tecnologie informatiche che avevano veicolato la ristrutturazione capitalistica — dal fordismo al toyotismo per intenderci — verso le quali cominciai ad agire all’insegna dell’“appropriazione dal basso delle tecnoscienze”.
AB: Da qui nasce il tuo progetto relativo alla New Media Art, e in fondo anche il PAV a Torino, il Parco d’Arte Vivente.
PG: Esatto. Nasce intorno alla metà degli anni Ottanta il mio impegno pionieristico in quella che venne poi definita la New Media Art. Il primo progetto artistico fu quello di un parco tecnologico nel quale il pubblico avrebbe sperimentato la “libera espressione”, individuale e collettiva, attraverso dei dispositivi interattivi di realtà virtuale e di telepresenza. Il senso di questa ricerca artistica era di “aggiornare” il linguaggio e la drammaturgia della creatività collettiva con nuovi strumenti comunicativi ed espressivi delle tecnologie informatiche. Il PAV, nato nel 2008, è in effetti molte cose insieme: uno spazio pubblico in una città in trasformazione, un sito espositivo all’aria aperta, un museo interattivo, un luogo d’incontro e di esperienze in laboratorio, un centro di ricerca attento al dialogo tra arte e natura, biotecnologie ed ecologia, tra pubblico e artisti.
AB: Un’ultima domanda. Pensi di aver commesso degli errori? Rifaresti tutto quello che hai fatto?
PG: Di errori certo ne ho fatti molti, ma più che i singoli sbagli mi preme confessare la loro causa di fondo: un atteggiamento superegoico, un imperativo interiore e inconscio al “dover fare” che mi ha portato a ripetere gli stessi errori e ad “avvelenare” la mia vita di relazione. È difficile dire se rifarei le stesse cose che ho fatto perché le contingenze storiche che ho vissuto sono state determinanti e irripetibili. Non credo sia tanto importante “non pentirsi” quanto invece avere coscienza dei propri limiti. Dalle radicali e spesso contradditorie vicende della mia vita artistica mi pare che un messaggio esca abbastanza chiaro e non-utopico: tutti possiamo esprimerci artisticamente e condividendo questa esperienza possiamo migliorare la vita di tutti. Questo messaggio oggi è incarnato dal Parco d’Arte Vivente che, come un ecosistema, è in grado di vivere, evolvendosi, al di là della mia finitezza individuale. Per me, a livello personale, il problema è come interagire con questo flusso ecosistemico attraverso le mie nuove espressioni creative, nella consapevolezza di una intima verità che ho percepito: la nostra vita individuale è come un torrente vorticoso che ineluttabilmente scende a sciogliersi nella serena intelligenza del grande mare. Per questo ora cammino senza più allacciarmi le scarpe.