“If everyone tells you not to jump off the roof or you’ll die, you don’t jump because you trust it as if it were truth. Maybe the artist is the one who’s going to tell you that you can jump, and maybe you’re not going to die.” Piero Golia. (Desert Interviews, pag. 43, JRP Ringier, 2010).
Recentemente ho avvicinato Piero Golia per un’intervista che l’artista ha declinato, affermando di non credere più in questo strumento di conversazione, capace invece di promuovere una certa pigrizia da parte di critici e intellettuali, oggi, a dir suo, più inclini a discutere, piuttosto che scrivere, di arte. In fondo, a immagine della sua opera sempre sfuggente, è una risposta coerente, nonostante lui sia anche un ottimo comunicatore, soprattutto quando a stimolarlo sono i suoi complici di avventure prediletti, come dimostrato nel recente e intenso Desert Interviews.
L’opera di Golia è caratterizzata da un rigore costante, nulla è mai causale nella sua attitudine, nel processo e nella risoluzione dei problemi affrontati. La sua è arte che rivendica una presenza, in maniera a volte anche poco sottile. Del resto, lo aveva già detto nel 2002 che faceva sul serio (Faccio sul serio, 2002). Colpisce questo impegno che per certi versi fa a pugni con la definizione che lui stesso sembra essersi attribuito in tempi più recenti, con quel tipico compiacimento di chi si prende gioco di tutto e tutti in un’edonistica tela di contraddizioni: fautore di “conceptual bullshit art”.
Golia lo definirei invece uno scultore pragmatico della tragicità, e le sue opere, monumenti contemporanei — definizione che a lui piacerà molto —, per quanto siano spesso inafferrabili e persino inesistenti, ma sempre capaci di immergerci nel dedalo della banalità, elevandolo, elogiandone lo spessore. La sua opera è sostanziosa e lascia percepire un coinvolgimento che l’artista sembra volere definire sociale o politico, caratterizzato da una continua osservazione della realtà che lo circonda.
Nel 2001 Golia, che ha sempre fatto della necessità una virtù creatrice, convince una ragazza a lasciarsi tatuare la scritta “Piero My Idol” sulla schiena, delineando una sorta di gigantografia epidermica del suo viso che andrà a occupare gran parte del dorso. In questo primo atto risolutivo, nell’apporre la propria effige su di un corpo che diventa testimone volontario del gesto artistico, giace l’essenza del suo processo creativo. L’idea giustifica il risultato, mentre conta meno la sua realizzazione, eseguita, in questo caso, da un terzo, il tatuatore, e poi suggellata da immagini esposte a testimoniare il buon esito dell’operazione [Tattoo (The Sequence), 2001].
Questo suo gesto è un’affermazione, un grido identitario agguerrito, un doloroso messaggio di esistenza che è impossibile eludere. Anni più tardi, intrigato dai simboli della città nella quale risiede — Los Angeles — appone in cima a un noto albergo una sorta di luna urbana che si accende o spegne secondo la sua presenza in loco (Luminous Sphere, 2010). In una realtà dove gli eroi sono le stelle del cinema e del gossip, Piero Golia si nomina unilateralmente ambasciatore della Città degli Angeli, con tanta ironia, utilizzando con disinvoltura e maestria il tessuto urbano come già aveva utilizzato la pelle di una sconosciuta.
C’è in lui una condivisibile richiesta di attenzione, elemento sempre confermato nel corso del suo percorso che sembra nutrirsi solo di gesti radicali, o per lo meno inconsueti. In un esercizio burocratico di altissima destrezza acrobatica, si sottrae alla leva, invocando, con professorale conoscenza della legge, un autoproclamato statuto di celebrità nazionale nel mondo dell’arte, corroborato da lettere di amici e conoscenti (To Whom it May Concern, 2001). Qui risiede tutta la furbizia dell’artista e al contempo tutta la sua concretezza, il suo legame con la realtà e la sua capacità di influenzarla. Golia sembra un artista che sfugge, in realtà è radicato più di noi tutti. Le sue fughe sono atti di presenza e la sua è un’attitudine pragmatica, fino al parossismo. Da poco cominciata la sua carriera, si costruisce una simbolica retrospettiva che ne attesta il suo merito, con circa venti anni di anticipo sul percorso canonico istituzionale (Piero Golia: Retrospective, 2001). Non ha tempo da perdere, Golia.
Ad Artissima, si arrampica su di una palma [On the Edge (Sulla cresta dell’onda), 2000]. In questo gesto in apparenza inutile, maldestro ma terribilmente eroico, ricorda a tratti lo zio burlone di Amarcord, quello che gridava a squarcia gola “Voglio una donna!” dalla cima di un albero, finché una suora nana lo tirerà giù senza troppe discussioni e lui, lo zio, mansueto e imbarazzato, obbedirà all’ingiunzione. Golia ricerca invece le grazie di chi tira le fila del teatrino contemporaneo. L’arrampicata, scultura fisica improvvisata, è un gesto che pone altre domande, quasi a volere suggerire che l’artista contemporaneo debba anche sapere rischiare la vita per foraggiare la sua carriera. Brillante riflessione, confermata anche quando decide di attraversare l’Adriatico dalla costa italiana a quella albanese (Going to Tirana, 2000). Vagamente ispirato, per dimensione poetica, per l’azzardo dell’impresa inaudita, o almeno per quanto concerne la scelta del mezzo di navigazione marittimo, dall’ultimo gesto artistico di Bas Jan Ader (In Search of the Miraculous, 1976), Golia conferma la sua inclinazione a compiere iniziative impregnate di tanta disperata poesia in azione che forgiano opere in costante movimento.
L’artista riesce anche nell’impossibile, per esempio quando comprime un autobus all’interno dello spazio destinato a ospitare le opere della sua galleria a una fiera d’arte [Untitled (Bus), 2008]. L’opera non lascia spazio a null’altro, s’impone da sé. Si osserva e non si commenta, perché la sua essenza è la presenza medesima, indiscutibile, capace di trasformarsi in materia pesante e tangibile. Sembra di udire l’enorme e insopportabile baccano dei bulldozer che hanno pressato e deformato il bus, le lamiere bianche che si contorcono, la ferraglia che grida. Golia riesce a dare sostanza alla quiete dopo la tempesta: è la sua forza.
Se la sua arte nasce da disavventure imprevedibili, al contempo, tutto è misurato nei risultati. Dalla fusione della sua automobile dopo un incidente stradale, nasce un unicorno perfettamente levigato [Untitled, (Y3AT35SIE1029489), 2003]. Anche “Concrete Cakes and Constellation Paintings”, 2011, la sua recente personale, era luccicante e perfetta nelle finizioni. Che siano torte di cemento che fanno male ai denti, come allo stomaco, o quadri in vetroresina che evocano un ennesimo inconsueto infortunio della vita — in questo caso un tassista che termina la sua corsa, volontariamente, contro la casa dell’artista —, l’arte di Golia è sempre pensata fino al minimo dettaglio.
Nel complesso, Golia è uno che non ama sprecare il tempo, si costruisce le opportunità, non attende, è un fautore del suo cammino, è il fulcro della sua vita. Ricorda in questo il contemporaneo Antoine Doinel, l’instancabile eroe di Truffaut, capace di destreggiarsi nella bieca realtà con leggerezza. Non sembra dipendere da altri, ma non per questo non è meno interessato a condividere i frutti del suo lavoro, della sua poetica. La generosità con la quale condivide le sue preoccupazioni è un’altra caratteristica. Il progetto “Mountain School of Arts” che da qualche anno contrassegna il sottobosco formativo di Los Angeles, riunendo studenti da tutto il mondo in un bar di Chinatown dove il dibattito intellettuale è intenso, ne è la conferma. C’è un costante rapporto, leale, fra dare e avere, ricevere e offrire.
L’arte di Golia è radicata nella tragedia quotidiana e la sua forza è riuscire a mascherare la disgrazia che ne sta alle origini. Non è un caso che abbia scelto di installarsi, da circa una decina di anni, a Los Angeles, città che cerca di camuffare le sue sventure, e il vuoto, che è la sua fondazione morale, a forza di brillantini e paillettes. E proprio di questo avrei voluto parlare con Piero. Invece mi ha costretto a scrivere, a pensare. Forse, mi ha trasformato in una sua ennesima performance; mi ha convinto a saltare dal tetto e ora scopro che non sto cadendo.