Nel corso dell’ultimo anno mi sono reso conto sempre più chiaramente di una specie di provvisorietà inerente alla pratica della pittura. L’ho notata inizialmente nelle tele di Raoul De Keyser, Albert Oehlen, Christopher Wool, Mary Heilmann e Michael Krebber, artisti che da tempo producono quadri che hanno l’aria di essere stati buttati giù un po’ casualmente, a mo’ di tentativi, quadri che sembrano non-finiti o che si auto cancellano. In modi diversi, tutti loro prendono le distanze dalla pittura in senso “forte”, a favore di qualcosa che sembra trovarsi costantemente sull’orlo dell’incoerenza o del collasso.
Perché mai un artista dovrebbe esitare davanti alla prospettiva di un lavoro finito, ricercare strategie di auto sabotaggio, apporre il proprio nome sotto quadri che, da alcuni punti di vista, sembrano un totale fallimento? Potrebbe avere qualcosa a che vedere con uno scetticismo originario che percorre l’intera storia dell’arte moderna: lo troviamo nella sequenza infinita, agonizzante, degli aggiustamenti di Cézanne alle prese con il Mont St. Victoire; nelle denunce chiassose di Dada (tipizzate dal blasfemo Ritratto di Cézanne di Picabia); nei ritratti di Giacometti, che continuamente si cancellano e ricominciano; nelle composizioni gloriosamente stupide che Sigmar Polke dipinge negli anni Sessanta. Si può trovare qualcosa di analogo in altre forme: nell’insistenza con cui Valéry dichiara che “una poesia non è mai finita, ma solo abbandonata”; nell’appello di Artaud a non fare più capolavori; nella complicità con cui il punk abbraccia l’amatoriale e l’incasinato. La storia del Modernismo è piena di strategie di rifiuto e di atti di negazione.
La genealogia di quello che chiamo pittura provvisoria include la ricerca decennale di Richard Tuttle verso una bellezza umile; gli asciugamani macchiati, radicali e silenziosi che Noël Dolla realizzò nei tardi anni Sessanta; i “cardboards” degli anni Settanta di Robert Rauschenberg; le prime tele, volutamente vaghe, di David Salle, e quel vortice del first thought-best thought che fu Martin Kippenberger. Un tale lavoro mi pare, almeno in parte, il risultato di una lotta con un medium che può apparire sovraccarico di attese riguardo a durata nel tempo, virtuosismo, composizione, stratificazione di significati, autorità artistica ed energia creativa — tutte qualità che rendono le arti appunto delle belle arti. Utilizzata da artisti giovani, la provvisorietà può anche servire per prendere le distanze dalle lusinghe del mercato dell’arte, connotato fino a ieri da un appetito insaziabile per tele piccole, eleganti e rifinite, un tipo di pittura che non lasciasse dubbi sulla competenza tecnica dell’artista, sulla sua raffinata sensibilità e sulla sua solida etica del lavoro.
Cinque pittori provvisori
I quadri di Raul De Keyser hanno un formato prevalentemente modesto, come se rinunciassero a ogni pretesa di “eroicità” ancor prima che vi sia posto il primo segno. Diversamente da molti pittori che dispiegano una notevole tecnica in lavori di piccolo formato (Tomma Abts, James Siena, Merlin James), De Keyser non compensa la modestia delle dimensioni con composizioni complesse o pennellate appariscenti. Al contrario, lavora talmente sotto le righe che persino i critici più simpatetici rimangono incerti su come giudicare i suoi dipinti. Nel 2006, la giornalista del New York Times che si occupa delle recensioni, Roberta Smith, ha sottolineato la sua “bizzarra combinazione di intenzionalità e indecisione”; nel 2004, Barry Schwabsky descrisse sulle pagine di Artforum quanto i responsi suscitati dal lavoro di De Keyser possano essere oscillanti: “Un trattamento noncurante sembra diventare pian piano una magistrale raffinatezza — o lo è davvero? Un colore sporco diventare fresco e armoniosamente calibrato — ma lo è infine? Il dubbio non si dissolve mai del tutto”.
A dire il vero, quando s’incontra un De Keyser, il primo impulso è di attribuirlo a un dilettante che abbia provato a fare dell’astrazione dopo aver visto da qualche parte delle riproduzioni di quadri di Clyfford Still e Jean Arp. De Keyser dipinge forme frastagliate, generalmente dello stesso colore, su uno sfondo monocromo. La povertà della tavolozza, lontano dal suggerirci un qualche tipo di strategia riduzionista-minimalista, ci fa pensare a un apprendista che abbia a disposizione solo un paio di tubetti di colore. Non viene fatto alcuno sforzo per nascondere i laboriosi aggiustamenti ai contorni della forma o i segni preliminari della matita. Nessuna linea è davvero dritta; la disposizione delle forme e dei puntini di colore sembra, alternativamente, casuale o rigidamente coordinata. Usando le parole del curatore francese Jean-Charles Vergne, il lavoro di De Keyser “asserisce continuamente l’impossibilità di una pittura esente da ritocchi, errori, imprevisti, l’impossibilità di una pittura non disposta a evidenziare le giunture, le seconde versioni, i fallimenti… [C’è] una balbuzie continua nella pittura”.
Diversamente da De Keyser, Albert Oehlen dipinge in grande formato e si concede ben più di due o tre colori; eppure anche nelle sue tele sembrano abbondare “errori” e “seconde versioni”. Oehlen non nasconde di appoggiarsi a un software di grafica per molte delle sue composizioni. Dopo più di un decennio di sperimentazioni maneggia questa strumentazione digitale con apparente goffaggine; i suoi dipinti computer-assisted ricordano in certi casi Paper Rad, il collettivo di artisti americano che feticizza la grafica spigolosa dei primi videogame. I quadri di Oehlen cominciano in genere con delle stampe a getto d’inchiostro di un collage d’immagini, su cui interviene con delle strisce di colore “sporco”, cui si aggiungono scomposte linee vaganti. Le tele esposte recentemente da Nathalie Obadia, a Parigi, meno legate all’elaborazione digitale, contengono delle macchie di colore a olio sopra frammenti di poster pubblicitari spagnoli; in molti casi sembrerebbe che qualcuno, dopo aver involontariamente macchiato un poster, abbia tentato di cancellare l’errore con l’unico risultato di aver peggiorato la situazione. Questo artista, già esponente di una forma di Neoespressionismo “grezzo” (bad), si è dedicato ad astrazioni di grande formato fin dai tardi anni Ottanta (quando, per usare le sue parole, “cominciò a fare degli sforzi per essere considerato un pittore serio”), ma il suo lavoro, che riesce a essere al contempo asettico e confusionario, continua a ricavare una grandissima energia pittorica dalla sua estrema goffaggine.
Le astrazioni-grisaille che Christopher Wool produce dal 2006 hanno molto a che vedere con il lavoro di Oehlen (la somiglianza è più che una coincidenza: i due artisti dialogano da lungo tempo, come dimostra la scelta di un quadro di Oehlen fatta da Wool per la mostra “Oranges and Sardines”, curata da quest’ultimo all’Hammer Museum). Le sbavature di pittura che sfregiano parti dei quadri di Oehlen diventano, nei lavori di Wool, qualcosa di simile alla base stessa della composizione. Entrambi gli artisti integrano Photoshop, o software simili, nel processo della loro pittura. In alcuni lavori, Wool scatta fotografie di particolari di suoi precedenti dipinti per rielaborarle digitalmente. Queste immagini modificate vengono poi serigrafate su alluminio o lino. Altri quadri, ancora più diretti, utilizzano smalto (dato a spray e poi spazzolato) ottenendo effetti simili. Le composizioni mostrano grandi macchie, segni di ampie pennellate di grigio e bianco date avanti e indietro — si pensi alle vetrine dipinte di bianco o ai segni delle cancellature sulla lavagna — tra le quali vagano linee di diversa larghezza, tracciate con lo spray, che ricordano dei tondini di ferro piegati o degli appendiabiti di metallo. C’è l’eco dei luminosi quadri ispirati ai paesaggi che De Kooning dipinse tra gli anni Sessanta e Settanta, sebbene la cromofobia di cui è impregnato Wool (per vari decenni non si è quasi mai scostato da una tavolozza di bianchi e neri) tenga la natura alla larga. Quel che ci attende, al contrario, sono dei quadri paradossali in cui sembra che l’artista abbia coperto un dipinto in progress e abbia poi presentato la somma di queste cancellature come lavoro finito. Ma è stato davvero coperto qualcosa? C’è qualcosa sotto le cancellature di Wool?
Da una certa angolatura, Mary Heilmann è la più inverosimile candidata, tra i pittori, alla celebrità: per quasi quarant’anni ha fatto affidamento su un piccolo numero di strutture moderniste prêt-à-porter — soprattutto griglie o blocchi di colore su fondi uniformi — che utilizza con una nonchalance al limite della trascuratezza. Come De Keyser, preferisce qualcosa di vacillante ed esitante a ciò che si dà come vero e diretto, e tratta la pittura in modo non appariscente. La sua tavolozza — colori primari in tonalità acide, con occasionali composizioni in bianco e nero — cattura di più l’attenzione che non quella di De Keyser; inoltre, la Heilmann è sempre stata abile a infilare piccoli enigmi visivi nei suoi dipinti (in molti dei suoi quadri c’è un’oscillazione tra figura e sfondo che ricorda Escher). Per essere una pittrice astratta della sua generazione, dimostra tuttavia ben poca propensione per programmi o agende. Poiché ogni suo quadro è autosufficiente e modesto, non sembra stimolare letture trascendentali. Laddove tanti altri pittori sono ansiosi di dimostrare le loro ambizioni artistiche in forma d’intensa fatica, grandi formati, complessità o serietà di tematiche, la Heilmann, che ha iniziato come ceramista, pare voglia presentare la pittura come una specie di ceramica fatta con altri mezzi. Nella sua recente mostra retrospettiva, la presenza di recipienti e piatti di ceramica, oltre che di sedie dipinte in maniera sgargiante, invitava i visitatori ad apprezzare le qualità pittoriche di questi oggetti. Cosa ancora più interessante, la loro inclusione nella mostra suggeriva che trattare la pittura come se fosse ceramica, ovvero come un medium libero dal sovraccarico di aspettative culturali, è una chiave per accedere all’arte della Heilmann.
Se si potesse misurare la provvisorietà in pittura, allora Michael Krebber avrebbe la meglio su tutti. Buona parte del suo lavoro, per quanto decisamente orientato alla pittura, non utilizza nessuno dei componenti che la definiscono — la sua mostra più recente a New York, alla Green Naftali Gallery, era incentrata sull’utilizzo di sezioni di tavole da surf — e quando davvero si misura con pennelli e tele, i risultati potrebbero sembrare ridicolmente magri. Molti dei suoi quadri consistono in poche pennellate sommarie, che rappresentano o meno un oggetto o una porzione di corpo, piazzate su uno sfondo bianco o color pastello. In altri casi dipinge banali forme bianche su lenzuola kitsch, o incolla pagine di giornali su fondi dipinti affrettatamente: davanti a una dozzina di suoi quadri, il critico londinese (e ammiratore di Krebber) Adrian Searle ha osservato: “Quanto ci sarà voluto per ogni tela, 5 minuti? 10 minuti al massimo? L’esperienza di una vita intera?”. Non c’è nulla di intrinsecamente notevole in un quadro eseguito al volo, ma l’impulsività di Krebber assomiglia più all’amplesso frettoloso di una prostituta che non all’elegante rapidità di un dipinto a inchiostro cinese. Sembra che dica: sì, quella che faccio è pittura, ma non cadiamo nel sentimentalismo e non sprechiamoci su tempo e materiali inutilmente; questo è tutto quel che puoi ottenere con i tuoi soldi. Ma allo stesso tempo, il disprezzo di Krebber per la pittura può essere interpretato come un segno di una sua sopravvalutazione di questo medium — lo tiene in così alta considerazione da aver paura di insozzarlo con un contatto troppo ravvicinato.
Lo humor un po’ dandy, doloroso, che percorre l’opera di Krebber (e che ne giustifica l’associazione a Kippenberger) si ritrova anche in alcuni dei suoi titoli. Una mostra del 2004 alla galleria Dépendance di Bruxelles, con quadri contenenti pagine di giornali, s’intitolava “Unfinished Too Soon”, una frase che suggerisce un artista che, per troppa impazienza, è incapace persino di raggiungere lo stadio del non-finito. Nel 2001 intitolò un quadro particolarmente vago Contempt for one’s own work as planning for career (Il disprezzo per il proprio lavoro come programmazione di una carriera). Sarebbe un errore, tuttavia, far coincidere il disprezzo di Krebber con il cinismo. Il suo atteggiamento nei confronti della pittura sembra fare eco a quello di Marianne Moore nei confronti della poesia: “Io, anche, la deploro, / a leggerla, tuttavia, con disprezzo completo, / si scopre in / Essa, dopo tutto, un luogo per la genuinità.”
Tre ricomparse
Il contesto storico del quintetto di artisti di cui sopra può chiarirsi facendo riferimento ad alcuni segmenti, resi recentemente accessibili, dell’opera di Joan Miró, Martin Barré e Kimber Smith. Fino alla mostra “Joan Miró: Painting and Anti-Painting, 1927-1937”, al Museum of Modern Art di New York lo scorso autunno, avrei relegato Miró tra i Noiosi Maestri Moderni, un artista le cui innovazioni, originariamente radicali, erano state ormai da tempo addomesticate e diluite per sovraesposizione. Le dodici serie di lavori raccolte dalla curatrice del MoMA Anne Umland mi hanno liberato definitivamente da questa stupida e falsa percezione.
Lo scopo di Miró in quel periodo, come raccontò lui stesso a un giornalista spagnolo nel 1931, era quello di “distruggere ogni cosa che esisteva nella pittura”. Due opere in particolare esemplificano questo programma. Painting (Cloud and Birds), del 1927, è una grande tela non preparata con una gigantesca macchia di pittura bianca, nella quale l’artista ha inscritto rapide serie di ghirigori neri; alcune forme incomplete a forma di piuma vi sono sparpagliate sotto. Painting (Head), del 1930, una tela di 228 x 167 cm a fondo bianco, è stata, mi verrebbe da dire, “sfigurata”: una testa rosa gigantesca, schematicamente disegnata, ampie chiazze di pittura nera e rosa e un enorme garbuglio di ghirigori blu simili a quelli di Cloud and Birds. Le varie forme di Painting (Head) sono allineate diagonalmente (da sinistra in basso, a destra in alto), e l’intera composizione è intersecata da rapide linee a matita e da una manciata di puntini e macchiette. La mancanza di finitura, la cruda e aggressiva figurazione, la quantità di scarabocchi e i segni delle cancellature suggeriscono un pittore in guerra con il suo mezzo espressivo. Che Miró osasse tali provocazioni più di settantacinque anni fa è incredibile; ci appare un contemporaneo di Polke e Kippenberger.
Penso che l’origine della sua audacia, e la ragione per cui il suo lavoro è così prossimo a quel che chiamo “pittura provvisoria”, sia da cercarsi nel suo rifiuto dell’idea di un’opera finita e durevole. Nel 1928 confessò a Francesc Trabal che dopo aver terminato un quadro voleva che il suo mercante glielo togliesse immediatamente dai piedi: “Non riesco a sopportare di averlo qui davanti a me…[Quando] ho finito qualcosa, scopro che è solo la base per ciò che devo fare dopo. Non è mai più che un punto di partenza… Devo ricordarle che la cosa che più detesto è la durevolezza?”.
I dipinti di Martin Barré (1924-1996) sono rimasti poco noti negli Stati Uniti fino a quando, nel 2008, sono stati il soggetto di una mostra alla Andrew Kreps Gallery di New York, e di una monografia di Yve-Alain Bois. Pur avendo cominciato a emergere nella Parigi degli anni Cinquanta come pittore astratto e gestuale, Barré si sforzò di lavorare con della pittura meno materica. “Ma”, come spiegò a Catherine Millet nel 1974, “quello che si scontrò con il gusto o lo stile del momento non era tanto questa mancanza di spessore, quanto l’impressione di vuoto, di non-lavoro.” Nei primi anni Sessanta iniziò una serie di quadri con righe e griglie (usò anche motivi a freccia), a volte realizzati a spray con l’uso di stencil. Persino oggi, i quadri sembrano davvero solo inizi estemporanei, quasi delle basi per quadri mai finiti. Si è soliti assegnare il grado zero della pittura al regno dei monocromi bianchi o neri, ma a ben vedere le griglie oblique e i segnali fluttuanti di Barré possono far sembrare Ryman o Reinhardt dei buoni vecchi mestieranti. E tuttavia egli ha insistito perché non s’interpretassero i suoi quadri come una forma neo-Dada di critica. “Ciò che stavo facendo”, ha chiarito alla Millet, “poteva in effetti sembrare una anti-pittura; ma la mia intenzione era quella di mostrare, attraverso le tracce o i punti di contatto con una superficie intonsa, cosa potesse essere un quadro una volta che ci si fosse sbarazzati di oggetto, colore e forma.”
Diversamente da Miró e Barré, il pittore americano Kimber Smith (1922-1981) non si prefiggeva di sgombrare il medium da lui scelto; e tuttavia realizzò alcuni quadri, specie verso la fine della sua vita, che si librano leggerissimi, quasi al limite della dissoluzione, e che sembrano decisamente non finiti. La carriera di Smith si può dividere in due parti: il decennio che trascorse a Parigi (1954-64), durante il quale si trovò a condividere posizioni simili a quelle dei suoi connazionali espatriati Shirley Jaffe e Sam Francis, e gli anni dopo il suo ritorno negli USA, quando si divideva tra New York City e gli Hamptons. La migliore presentazione recente del lavoro di Smith è stata la retrospettiva del 2004 al Kunstmuseum di Winterthur, in Svizzera, che includeva dipinti come Kirchner’s Garden (1976), Prague (1977) e Nissa (1980). In queste opere Smith tratta la tela come fosse un gigantesco blocco da disegno. In genere combina insiemi di linee ondulate, strisce fluttuanti di pittura stesa in modo impreciso, alcune forme riempite approssimativamente e grosse porzioni di tela vuota. I vari segni sembrano piuttosto annotazioni, quasi si trattasse di una tempera preparatoria considerata alla fine come un lavoro concluso. È la firma di Smith — la sigla KS a matita, che appare incerta tanto quanto la composizione cui si riferisce — a identificarle come opere finite. Con una fusione stilistica che anticipa il formalismo informale della Heilmann, Smith spruzza un po’ di spensieratezza matissiana sulla seriosa eredità dell’Espressionismo astratto. Recensendo una mostra di Smith su Artforum nel 1979, Hal Foster notava l’“apparente nonchalance” e la mancanza di ogni “timore” dell’artista nei confronti dei suoi immediati predecessori. “Smith”, scrive Foster, “non combatte in prima linea, ma non lo fa nemmeno nelle retrovie; in realtà non combatte affatto.” Per quanto interessato a come Smith affrontasse il dilemma di appartenere alla seconda generazione di espressionisti astratti alla fine degli anni Settanta — anni così inospitali per tale stile — Foster avvia un discorso di più ampia portata. Sta precisamente nel rifiutare di “combattere” che pittori come Smith, Heilmann e De Keyser compiono i loro attacchi contro gli stereotipi sulla pittura.
La pittura e la sua impossibilità
Che cosa rende “impossibile” la pittura? Che cosa rende impossibile una “grande” pittura? Forse è un senso di tardività, la convinzione che una generazione precedente di artisti ha lasciato dietro di sé solo un mucchio di detriti da spazzar via. O forse, in un momento particolare, in una particolare vita e storia, niente appare più presuntuoso o inopportuno — al limite addirittura osceno — che voler creare un capolavoro. L’impossibilità può anche essere il risultato cui giunge l’artista che chiede troppo al lavoro, richieste che la pratica corrente non può soddisfare. In un dato momento, in un dato studio, può sembrare che la grande pittura sia impossibile, che ogni tipo di pittura sia impossibile. Eppure, qualsiasi sia la ragione che muove un dato pittore in un dato momento, la pittura deve essere fatta, deve andare avanti.
Un numero crescente di giovani artisti (tra cui alcuni che espongono già da tempo) credono nell’impossibilità della pittura. Questo li ha portati a rifiutare ogni apparenza di finitura dei propri lavori o ad affidarsi ad atti di negazione. L’artista austriaco Stefan Sandner lavora prevalentemente con testi e documenti trovati — annotazioni scarabocchiate, pagine di agende e schizzi enigmatici — che poi ridipinge, in scala molto più grande, su ampie tele monocrome. Alcuni testi sono ovviamente autoreferenziali (“passa da me prima di partire!”, supplicava un suo quadro nella mostra del 2008 presso la galleria Museum 52, a New York); in altri sono citazioni riciclate di personaggi famosi (il testo di un dittico del 2004 è copiato da un diario di Kurt Cobain), annunci pubblici scritti a mano e frammenti di ogni genere provenienti dal mondo dell’arte (per esempio una playlist per una performance di Stephen Prina). Il divario tra la banalità dei testi e il modo in cui sono riprodotti (spesso in dimensioni imponenti, su tele eseguite impeccabilmente) crea una nuova sintesi. È come se l’artista concettuale Joseph Grigely stesse fornendo del materiale a Ellsworth Kelly (per paura che i visitatori lo classifichino unicamente come plagiario di testi, generalmente Sandner include nelle sue mostre personali almeno un monocromo senza testi, spesso su una tela sagomata). Piuttosto che ridurre a caricatura l’astrazione — come Richard Prince, con cui è stato sfavorevolmente paragonato — Sandner le assegna un compito molto serio: colmare il varco tra il quotidiano e l’ideale.
I venti dipinti della mostra di Richard Aldrich alla galleria Bortolami di New York, nel 2009, enumeravano quasi altrettante modalità moderniste: c’erano quadri gestuali che sembrano dettagli da dipinti di Philip Guston dei tardi anni Cinquanta, tele decostruite, una figurazione indiretta, composizioni molto vicine alla Pattern Painting. Aldrich adopera elementi di collage (scampoli di vestiario e cartoline con riproduzioni artistiche), taglia via dei pezzi di tela per rivelare i listelli del telaio, spande pittura a olio e cera, riduce una composizione ad alcuni segni sparpagliati apparentemente casuali, dipinge copie del suo lavoro. Tuttavia, piuttosto che sembrare un pastiche di stili, o dare l’idea che l’artista assuma diverse personalità volta per volta, la mostra dava l’impressione di unità, dovuta a una curiosa goffaggine, o persino incompetenza, che persisteva nelle diverse modalità. Adattandosi a telai leggermente irregolari e alla mancanza di angoli retti precisi, molte tele producono brutte pieghe sugli angoli. In un lavoro, quattro schegge sottili di legno, utilizzate come perni improvvisati, tengono insieme due pezzi di tessuto nero. Il terzo inferiore di un grande ritratto è stato rimosso brutalmente, così da lasciar vedere il fragile listello sottostante. Incollati su una grande tela, che contiene anche cartoline di quadri di Whistler della collezione Frick, ci sono quattro grandi fogli di carta, uno dei quali è raggrinzito su un angolo e si sta già staccando dalla tela sottostante. Un altro quadro ha l’aria di essere una tela non terminata che un qualche astrattista minore abbia infilato nella rastrelliera attorno al 1960. In un modo o nell’altro, ogni quadro ha qualcosa di “sbagliato”, abborracciato, fuori moda, oscuro. Presi insieme, sembra che questi lavori difettosi, più che rappresentare l’ennesima critica della pittura, abbiano la funzione di assicurare all’artista il permesso di perseguire qualunque idea potenzialmente interessante gli passi per la testa.
Laddove i video con cui investigava tematiche legate alla pittura avevano avuto molto successo, i dipinti recenti di Cheryl Donegan hanno destato meno attenzione. Se si tiene conto del suo modo di operare, le sue scelte di forme e materiali, la cosa non sorprende. “Luxury Dust”, la mostra della Donegan del 2007 alla ora defunta Oliver Kamm/5BE Gallery, comprendeva una dozzina di dipinti di 61 x 46 cm su cartone ondulato. Alcuni di questi presentano composizioni affollate da forme triangolari eseguite con colori a olio diluibili all’acqua; in altri l’artista ha ricoperto il cartone con del nastro d’oro o d’argento su cui poi è intervenuta con raschiature, creando allineamenti puntuti e specchianti. I materiali a buon mercato, l’immaginario generico (le claustrofobiche composizioni cubo-futuriste della Donegan fanno uso talvolta di gancetti recuperati su eBay), i formati modesti e la fattura apparentemente frettolosa sembra che facciano di tutto perché l’osservatore si senta respinto da questi lavori. Il titolo dovrebbe farci riflettere. Questi sono forse i quadri meno lussuosi che si possano immaginare (un effetto sottolineato dalle luci fluorescenti che l’artista ha voluto per la mostra): si possono ben interpretare come detriti di un dopo-boom o come la strana profezia di un’economia del dopo-crash.
I pittori inquieti hanno la tendenza a lavorare contemporaneamente con più modalità o ad adottare sempre nuovi approcci, uno dopo l’altro. Jacqueline Humphries è una rappresentante di questa seconda categoria. In ognuna delle fasi che attraversa, dimostra il suo talento per il segno lineare e una grande curiosità per le potenzialità dei materiali della pittura, sebbene non sembri mai soffermarcisi quanto potrebbe. E tuttavia la sua mostra del 2006 alla galleria Greene Naftali di New York è stata una delle sue migliori. Nei quadri a olio argentati, i gesti sembrano cancellarsi l’un l’altro in un turbine di segni, coprendo una composizione sottostante più ordinata e aggraziata. Sebbene abiti a New York da molto tempo, la Humphries è originaria di New Orleans, e non mi sembra inverosimile interpretare questi quadri turbolenti come visioni di qualche luogo investito da caotiche forze naturali. Nei dipinti della Humphries ci sono chiari rimandi ai gesti autocancellanti di Wool (così come alcuni prestiti dai quadri di frammenti di Rosenquist degli anni Ottanta), ma le sue cancellature sono più immediate e meno consapevoli di quelle di Wool.
Anche Wendy White sfrutta le potenzialità di cancellazione e distruzione insite nella pittura, per quanto sia più propensa a utilizzare bombolette spray che non pennelli. I quadri che ha esposto da Leo Koenig a New York nell’estate del 2008 sono composti da più pannelli: 3-5 tele di diverse dimensioni vengono arrangiate in formazioni irregolari. Accumulazioni dense e fuligginose di vernice nera a spray, distribuite disordinatamente tra i vari pannelli, coprono parzialmente, qua e là, dei grovigli più ampi di linee brillanti. Quasi un’eco dell’irregolarità dei profili esterni del quadro, le zone di pittura trasbordano dai contorni, che a loro volta si sfrangiano sfumando, come se, banalmente, l’artista avesse a un certo punto esaurito il colore. La sensazione di cancellazione casuale evoca i graffiti, ma si potrebbe pensare altrettanto legittimamente a Tàpies e Motherwell: come nel caso dei lavori della Humphries, c’è un’affinità tra certi tipi di pittura provvisoria e l’astrazione di tipo gestuale.
La provvisorietà è rintracciabile anche in un certo numero di artisti classificati come scultori, tra cui Sarah Braman, Alexandra Bircken e Gedi Sibony; buona parte delle opere esposte al New Museum nella mostra “Unmonumental”, del 2007-2008, che comprendeva Bircken, Sibony e molti altri, rappresentano questa sensibilità per il provvisorio declinata nelle tre dimensioni. Sebbene non presente in “Unmonumental”, lo scultore Peter Soriano ha realizzato ultimamente opere estremamente provvisorie. Ognuna è composta di un segmento di tubo di alluminio che aggetta dalla parete; dei cavetti d’acciaio sono tesi in varie direzioni, tra il tubo e i punti di ancoraggio. Questi punti sono marcati con vernice spray (per la maggior parte in colori sgargianti): linee, frecce, a volte rimarcate con delle X, con cerchi, o come cancellate con un rapido scarabocchio. Sebbene realizzate normalmente dall’artista stesso, queste opere possono essere allestite da altri, seguendo delle istruzioni. Indebitate con i segni che l’Azienda Energetica utilizza nelle strade non meno che con i murales concettuali (LeWitt, Bochner), le strutture di Soriano tracciano il diagramma della propria fattura; e tuttavia, a causa delle cancellazioni, delle indicazioni sbagliate (a volte le frecce sembrano suggerire che un elemento particolare o addirittura l’intera opera debba essere spostata di alcuni metri più in là) e del senso di precarietà trasmesso dai segni a spray si prestano anche a essere arrangiate in un modo diverso. Questo accade non solo perché l’installazione dei tubi e l’applicazione della vernice a spray deve essere realizzata ex novo ogni volta, ma anche perché l’osservatore viene sempre stimolato a rimettere in questione le decisioni dell’artista, a immaginare altre configurazioni.
A volte la pittura provvisoria si sovrappone alla “bad painting”, una modalità che affonda le sue radici negli anni Settanta e continua a essere una buona risorsa per gli artisti che vogliano confrontarsi con questo medium senza accollarsi necessariamente tutti i suoi orpelli. Quando Kippenberger utilizzava una tecnica che dava l’impressione di fretta e trascuratezza, si beffava del mercato pur rimanendo dentro la pittura (sebbene a volte sia scivolato nel virtuosismo, pur non pretenzioso). Ma la provvisorietà può essere anche portata al punto in cui non c’è più nemmeno la possibilità di un “cattivo” (o grezzo) che nasconda un “buono” (o raffinato). Questa pare la direzione in cui si muove Joe Bradley con i suoi “Schmagoo Paintings”, esposti nel 2008 alla Canada Gallery, a New York. E qui vorrei fare una distinzione tra Bradley e gli altri artisti di cui sto parlando. Il lavoro di questi ultimi può, a volte, sembrare incerto, incompleto o non finito, ma ognuno di loro è sicuramente impegnato in un progetto di pittura. Se cercano di rompere dei contratti, magari non detti, con la pittura, lo fanno comunque con l’idea di creare nuovi protocolli che rinnoveranno il medium. L’opera di Bradley, che a tratti condivide l’estetica di artisti come Dan Colen e Dash Snow, assomiglia di più a un gesto artistico autonomo che non a parte di un processo che gli è necessario in quanto pittore.
Fare della pittura provvisoria non significa voler dipingere l’ultimo quadro, né prefiggersi di decostruire la pittura. Pittura provvisoria è piuttosto il prodotto finito che si dà a vedere come stadio preliminare, o la controfigura della star o del capolavoro il cui valore potrebbe frenare la temerarietà dell’artista. Per dirla altrimenti, la pittura provvisoria è pittura di prima grandezza travestita da pittura di second’ordine. Nel libro Kafka. Per una letteratura minore (1986), Gilles Deleuze e Félix Guattari spiegano come la condizione linguistica e culturale di Kafka (un autore ebreo che scriveva in tedesco a Praga, dove il genere di tedesco che parlava era “minore” in relazione sia al ceco, come lingua localmente dominante, che al tedesco standard) comportò per lui sia l’“impossibilità” di scrivere in tedesco che “l’impossibilità di non scrivere”. La soluzione adottata da Kafka fu di forgiare un tipo di scrittura che sembrava disfarsi di tutti i precedenti letterari, dando vita a un’opera che a stento sarebbe sopravvissuta. Dovendosi confrontare al contempo con l’imponente tradizione della pittura e con la sua messa ai margini da parte di nuove forme d’arte, i pittori attuali potrebbero trovarsi in un’analoga situazione “minoritaria”; la provvisorietà dei loro lavori è indice di una doppia, persistente impossibilità: quella di dipingere e quella di non dipingere.