Mario Diacono: Volevo iniziare questa conversazione dal titolo della mostra in corso alla Collezione Maramotti, “La pittura come forma radicale”. Attualmente i due termini “pittura” e “radicale” non sembrano ben collegati tra loro, e obbiettivo di questa conversazione è parlare della pittura negli ultimi venti anni, in particolare di opere americane. Vedremo anche qual è la condizione della pittura oggi, soprattutto perché sembra che l’attenzione delle riviste e del mondo dell’arte sia incentrata sugli oggetti.
Bob Nickas: Credo che quasi tutti pensino che la pittura, al giorno d’oggi, sia la forma artistica meno radicale possibile. Il motivo per cui le persone non vedono alcun radicalismo nella pittura attuale è proprio perché la pittura è la forma artistica dominante, ed è stata così per secoli. La pittura è sicuramente al vertice di tutte le arti, ne riconosciamo l’autorità, e proprio questo nasconde ai nostri occhi la sua vera radicalità. Penso alla fotografia — e non voglio parlare di una possibile animosità tra fotografia e pittura — al modo in cui il pubblico percepisce, recepisce le opere. E mi sono posto questa domanda “Perché si preferisce la fotografia rispetto alla pittura?”. La risposta potrebbe essere “si preferisce una promessa a una minaccia”, perché di solito nei confronti di una promessa rischiamo di rimanere delusi, mentre la minaccia è qualcosa di forte e rilevante.
Mario Diacono: Con l’avvento del movimento Neo-geo, alla fine degli anni Ottanta e inizio anni Novanta, l’impatto della fotografia sulla pittura è stato molto forte, fino a divenire una presenza importante. Dopo la neo-geometria, gran parte della pittura figurativa è stata plasmata dalla fotografia, o dalla sua presenza, anche come traccia o sottotraccia.
BN: È proprio il guardare la pittura a non essere affatto radicale. La pittura è considerata obsoleta, si pensa che tutto sia già stato fatto. C’è un sentimento di fondo nei confronti della pittura, la gelosia, perché la pittura è una forma artistica promiscua, più di qualsiasi altra forma d’arte. La pittura può infatti essere astratta o figurativa, riguardare la struttura e lo spazio, la performance, la scrittura, il cinema. Le altre forme d’arte sembrano invece più inquadrate all’interno del loro medium, invece la pittura consente un’ibridazione maggiore.
MD: Dopo la Neo-geometria non ci sono più confini o limiti di inquadramento nell’arte e gli “ismi” sono totalmente finiti; ogni artista persegue il suo stile e quindi oggi nella pittura c’è dentro tutto. Che ne pensi?
BN: Negli anni e Ottanta e Novanta è stato introdotto il prefisso “neo”, che ora appare così vecchio ai nostri occhi. Erano gli ultimi aliti prima dell’agonia del Modernismo. Effettivamente la pittura non ha necessità di foggiare o di affibbiarsi l’attributo “nuovo” davanti, o di pretendere di esserlo, perché ha da sempre stretto un dialogo con la sua storia e con le nuove tecnologie.
MD: In tutti i dipinti figurativi c’è un elemento di citazione che si riferisce proprio alla mancanza di limiti, di confini. Ciò significa che non ci sono limiti né verso il passato, né verso il futuro. L’artista può guardare al passato e anche avventurarsi verso il futuro, sperimentare. Bisogna però ricordare che la pittura figurativa ha 2000 anni di storia alle spalle, quindi è sempre rivolta al passato, mentre quella astratta ha solo cent’anni a cui fare riferimento, e forse per questo fa meno ricorso alla citazione.
BN: È forse più facile dire su che cosa non concordo, non certo per litigare, ma forse perché mi serve per spiegare il mio pensiero. Hai detto che ci sono cento anni di storia per l’astrazione, ma bisogna guardare indietro, e notare che cento anni fa gli artisti che hanno scelto l’astrazione guardavano la natura, i tronchi d’albero, i riflessi sull’acqua. Il mondo naturale è molto interessante in termini di ibridazione, come nell’opera di Ben Degen. Qui si trova una pittura figurativa ibrida, in cui l’artista rappresenta anche la figura nuda e cerca di riconciliare tra loro rappresentazione, astrazione, figura, testo, scrittura, e pittura. È qualcosa che si verifica molto più di frequente in pittura rispetto alle altre forme artistiche e forse in questo sta il suo essere radicale.
MD: In questa mostra troviamo molti artisti che usano la rappresentazione citando l’arte astratta, come Kelley Walker. È impossibile dire se sia pittura figurativa o astratta.
BN: La prima cosa che mi ha colpito della mostra è che ci sono opere che da figurative diventano astratte o hanno modalità di astrazione nella rappresentazione, per esempio Jason Fox, Scott Grodesky, Jutta Koether, Dana Schutz. La realtà in cui viviamo è molto complessa, e gli artisti cercano di rappresentare questa complessità, la difficoltà delle relazioni e degli esseri umani che si rivelano elusivi e incapaci di comunicare.
MD: Nei nuovi lavori che vediamo oggi, gli artisti sembrano da un lato citare l’arte astratta, e dall’altro la fotografia, sembrano separati o dicotomici nella rappresentazione simbolica. Si tratta forse di un connubio inscindibile? Citazione della fotografia, citazione dell’arte astratta…
BN: Qui si tratta di velocità: la fotografia è più rapida, la pittura è lenta. La vita moderna è velocissima ed è forse l’aspetto del radicalismo più radicale, quello di introdurre un rallentamento, non solo nel momento creativo, ma anche nella visione dell’arte. La pittura, indipendentemente dalle sue forme, è sicuramente un’arte contemplativa, che sia astratta o figurativa.
MD: Le opere che vediamo in questa mostra vanno dal 1991 al 2007. Come sarà la pittura nel futuro?
BN: La risposta che mi viene in mente subito è “non lo so”. Questo “non so” è un elemento positivo: abbiamo superato gli anni Ottanta e Novanta e siamo ancora interessati all’arte, alla pittura, allo scambio reciproco. Non dobbiamo dimenticare che l’arte può anche rifiutare, ci sono artisti di quegli anni che non lo sono più, che non dipingono più.
MD: Non c’è mediazione tra la pittura che vediamo qui e l’arte orientata all’oggetto che viene prodotta oggi.
BN: Questo sarà il tema di una prossima mostra. Ci sono pittori rappresentati qui e in collezione che realizzano una pittura basata sull’oggetto, e lavorano anche con la scultura. Artisti come Christopher Lucas, Jason Fox, Matthew Day Jackson e Kelley Walker hanno una grande dimistichezza con la scultura. Oppure Joan Wallace e Andy Cross, che a New York recentemente ha mostrato una sua opera che è una casa totalmente costruita di dipinti.
MD: Vuoi dire dunque che la pittura può continuare non più come genere, ma come interesse d’esplorazione individuale: se prendiamo le opere in mostra di Jules de Balincourt e quelle della personale, che ospita opere più recenti, vediamo che c’è una continuità ma anche una fortissima evoluzione. Oppure opere di un artista come Jacob Kassay, che persegue l’astrazione anche oltre all’astrazione; o la performance, con il dialogo del 1972 tra Joan Jonas e Fabio Sargentini…
BN: A Roma in quegli anni si parlava del fatto che il futuro dell’arte è l’impermanenza, però quarant’anni dopo ci ritroviamo ancora qui a parlare di pittura.
MD: In questa mostra abbiamo 25 dipinti, mentre a Documenta ci sono 200 artisti rappresentati e solo uno è un pittore, Julie Mehretu, che non è nemmeno un’artista che fa specificamente pittura.
BN: Sarei scioccato se a Documenta ci fossero 25 pittori che dipingono con i rulli o con i pennelli. Documenta è sicuramente un evento importante, nel quale però non si vede quasi traccia di pittura perché probabilmente pensano che non sia una forma radicale e quindi privilegiano la sperimentazione, l’arte più popolare, fotografica o filmica. Ricordo una tavola rotonda organizzata da Flash Art nel 1987 o 1988, con tutti gli artisti del momento, tra cui Sherrie Levine, forse Jeff Koons, e Philip Taaffe, che è rappresentato anche qui con tre opere; a un certo punto si trasse una conclusione: non si può uccidere la pittura. Pertanto credo che anche la scelta di Documenta sia questa, cioè rendersi conto che non si può uccidere la pittura, ma fare “simbolicamente” finta che non esista.
MD: La domanda è: la pittura può sopravvivere alla produzione e al progresso tecnologico che la caratterizzano oggi? Un evento come Documenta risponde a questa esigenza perché l’arte lì rappresentata segue o avanza nel progresso tecnologico.
BN: Quindi la pittura potrebbe essere considerata obsoleta proprio perché è una forma di trasmissione delle informazioni molto lenta, mentre nelle nuove tecnologie questa trasmissione è estremamente veloce. Un’altra caratteristica della pittura è che è ancora “portatile” o “portabile”, e l’informazione non avrebbe senso se non la si potesse trasportare, conservare, spostare da un luogo all’altro. Invece vediamo nelle varie Biennali o altri eventi delle opere estremamente fisse e rigide che non si possono portare in giro, e non ne neghiamo la qualità o la bellezza, come un’opera di Thomas Hirschhorn. La pittura contiene informazioni ed è portabile, si può muovere nel mondo. È come una valuta, uno strumento finanziario: ecco, forse è questa una ragione della longevità della pittura e del suo parlare quotidiano.