La giuria pronuncerà il suo verdetto il 30 marzo alle ore 19 nella diretta streaming sul sito www.fondazionemaxxi.it, master of ceremony: Franca Sozzani. In palio, l’acquisizione dell’opera da parte del MAXXI, quindi il suo inserimento nella collezione permanente del museo, e un catalogo monografico bilingue corredato da una sezione antologica contente i testi critici e i contributi più significativi che possano al meglio documentare e analizzare il percorso di ricerca dell’artista vincitore. L’entità del riconoscimento è diversa e ancora distante da quella dello storico Turner Prize o da quello a 5 zeri del Future Generation Art Prize, ma è in ogni caso un buon incentivo. Soprattutto, il Premio costituisce un segnale positivo dell’impegno delle istituzioni pubbliche nella promozione e nel sostegno dell’arte contemporanea italiana e dei suoi più recenti sviluppi.
Le opere dei quattro artisti finalisti, under quarantacinque, selezionati tra i quindici segnalati da un team di otto curatori, sono nel frattempo visibili nella mostra a cura di Giulia Ferracci allestita nella Galleria 5 del MAXXI. Interessante il dialogo sempre diverso che ogni lavoro sviluppa con l’architettura del museo, come la messa a fuoco di tematiche differentemente ispirate da una lettura critica dalla realtà attuale su più fronti, quello sociale, identitario, storico e urbanistico. La video installazione di Adrian Paci The Visitors, selezionato da Cristiana Perrella, presentata su quattro schermi sospesi, si fonda sul reiterarsi di un gesto consueto, “la stretta di mano”. Azione su cui l’artista è tornato a riflettere l’estate scorsa in occasione della performance pubblica realizzata a Scicli in cui porgeva egli stesso la destra ai presenti. Paci, attraverso un lavoro di post-produzione, che ha contribuito a rallentare la scansione dei ritmi temporali delle azioni, ha realizzato un montaggio di estratti da filmati amatoriali girati in occasione di cerimonie matrimoniali in Albania negli anni Novanta, che si focalizzano esclusivamente su questo specifico momento di scambio. Il rituale, una volta isolato, assume immediatamente una serie di diversi significati, che scaturiscono dalla percezione di un’immagine archetipica, una convenzione che sostanzia uno scambio di promesse, un tacito “patto” tra due persone. Sul concetto di incompiuto e sulla critica nei confronti della debole onestà storiografica dell’Italia si basa invece l’installazione Una Turandiade Buzziana di Patrizio di Massimo, selezionato da Francesco Manacorda. All’interno di un piccolo teatro l’artista predispone la sua denuncia in forma di video, in cui i comuni destini di due capolavori italiani non conclusi (un’opera lirica, la Turandot di Puccini, e un’opera architettonica, il complesso de la Scarzuola progettato da Tommaso Buzzi in Umbria) si incrociano e convengono a dialogo nella sovrapposizione di immagini oniriche che associano le riprese di un sopralluogo alla Scarzuola ad animazioni, passi dell’opera lirica e frammenti di scenografia. L’imputazione risulta aspra ma, al contempo, sagace e ironica, se si vuol leggere l’intera installazione come l’incarnazione di una metafora globale riferita al nostro paese e a quella masochistica predisposizione a imporsi come palcoscenico di mise en scène di accadimenti surreali.
Più pacifico l’ambiente concepito da Luca Trevisani, selezionato da Andrea Bruciati, che tra sollecitazioni sonore, visive e tattili, ricostruisce un contesto naturalistico stratificato attraverso l’accostamento di elementi bi- e tridimensionali che ricercano e creano costantemente una concatenazione tra loro stessi e con lo spazio circostante. Il dentro del fuori del dentro, il titolo dell’installazione, fa riferimento proprio alla dinamica relazionale che l’artista mette in atto, in tutte le sue macchinose installazioni, per verificare l’esistenza dei limiti che potenzialmente impediscono queste relazioni, e per decretarne poi l’evanescenza, riflettendo sull’inganno perpetuo di percezione che si ha di se stessi e degli altri.
Di diversa natura la riflessione sull’idea di confine, di paesaggio e della poetica del percepire e del vedere scaturisce dal lavoro di Giorgio Andreotta Calò, selezionato da Chiara Parisi. Prima che sia notte è un’installazione site-specific che realmente si ancora all’architettura del museo. Non solo, afferra e trascina al suo interno la panoramica vitale e vibrante della città antistante. Attraverso la tecnica fotografica stenopeica (che utilizza un dispositivo ottico simile alla camera oscura ma che, al posto della tradizionale lente, ha un piccolo foro che permette alla luce di entrare nella scatola e riprodurre l’immagine capovolta di ciò che vi si trova davanti) l’artista è riuscito a proiettare il paesaggio urbano all’interno del museo come immagine capovolta, che lo spettatore fruisce chiaramente nel riflesso prodotto sullo specchio d’acqua della vasca sottostante. L’opera funziona soltanto con la luce del giorno (dall’alba al tramonto) e ogni giorno si rigenera, riferendo non una visione statica della città, ma il suo processo biotico, modulato sui ritmi alterati dai minimi cambiamenti atmosferici e umorali quotidiani. Buon lavoro allora ai giurati (Elena Filipovic, Udo Kittelmann, Anna Mattirolo, Jessica Morgan e Luigi Ontani) e che vinca, speriamo, il migliore…