La Fondazione Merz, in occasione del loro quindicesimo anniversario, ha sfidato una pandemia globale che limita la vicinanza tra gli individui e i viaggi internazionali per inaugurare una mostra collettiva di artiste donne contemporanee. Sebbene manchi un flusso costante di visitatori, l’enorme spazio espositivo è sovrappopolato di opere d’arte di ampia portata provenienti da diverse nazioni. Entrando nello spazio si deve camminare con cautela e allo stesso tempo spingersi letteralmente attraverso pesanti tende drappeggianti che bloccano qualsiasi luce o anteprima della mostra. Appeso al soffitto troviamo The horse trotted a little bit further (2020) di Katharina Grosse, un campione di tessuto lungo 46 metri, semplice quanto impressionante, verniciato a spruzzo in acrilico. Posizionata vicino all’ingresso Untitled (Pensa a me pensando a te) (2019), una stampa digitale su vinile site-specific prodotta per la mostra dall’artista americana Barbara Kruger; l’italiana Rosa Barba presenta invece Sea Sick Passenger (2914), un grande quadrato di feltro composto di lettere ritagliate, che formano parole che generano diverse frasi allusive a seconda del punto di osservazione. Jenny Holzer utilizza ancora una volta testo e proiezioni luminose per asserire domande sovversive, proposte e dichiarazioni. SWORN STATEMENT (2019), un’insegna su quattro lati a LED viola, scandisce ciclicamente le prove desecretate fornite nel Rapporto Gardez del Comando di Investigazione Criminale Militare Americano del 2004 sulle torture subite da un soldato afgano prigioniero di guerra, morto sotto la supervisione dei soldati americani. In Where are we going? (2017-2020) dell’artista giapponese Chiharu Shiota, della lana bianca e una corda sono avvolte attorno a cornici nere di metallo provenienti da una flotta di navi. Gli spettatori sono tentati di allungarsi fino a toccare queste appendici simili a piume, che sembrano condurci verso una destinazione promettente ma sconosciuta.
La mostra continua nel seminterrato, dietro gli angoli, in piccole stanze e nel cortile esterno, accogliendo ciascun artista in una apposita piattaforma. Ma è al piano superiore che ho trovato il lavoro più affascinante. Il film Twenty-Two Hours (2018) di Bouchra Khalili è proiettato in una stanza con un’unica fila di sedie su cui sono stata seduta da sola per tutta la durata. Qui, l’artista marocchino-francese documenta l’impegno di solidarietà del poeta francese Jean Genet (uomo bianco e queer) per il Partito di Autodifesa delle Black Panters in occasione del suo soggiorno di due mesi in America nel 1970. Il discorso di Genet al raduno del Primo Maggio a New Heaven, nel Connecticut, è cucito poeticamente alla testimonianza restituita in stile documentario attraverso found footage, fotografia d’archivio e citazioni dei membri delle Black Panters.
Attualmente, la pandemia ha accelerato il processo che sta portando avanti una sottoclasse di persone a livello globale che si sta spingendo contro i limiti della responsabilità civica, dell’azione diretta e dei confini dello stato nazionale. Noi – famiglie, amici e colleghi – allo stesso modo continuiamo a fare affidamento sulla sovranità dell’arte come cura, con tutti i suoi mezzi, per espandere i nostri immaginari politici.