Negli ultimi decenni gli artisti ci hanno abituato al reenactement come pratica artistica in grado di riproporre, a distanza di tempo, lavori (e in particolare performance) del passato. Non si tratta di citazioni ma di veri e propri rifacimenti che riattualizzano l’opera donandole un nuovo interprete, un nuovo contesto e, soprattutto, un nuovo pubblico, così come avviene con le cover musicali e i remake cinematografici. Gli esempi sono ormai numerosi: dal progetto espositivo “A short history of performance” curato da Iwona Blazwick alla Whitechapel Gallery di Londra a partire dal 2002, ai “Seven Easy Pieces” di Marina Abramovic al Guggenheim Museum di New York (2007), fino ad arrivare alle “Synthetic Performances” (2007-2008) di 0100101110101101.org.
L’attenzione si concentra in particolar modo sulla stagione degli anni ’60-’70: a questo proposito, nel suo articolo sui “Neo-Con”, Cristiana Perrella scriveva: “Come delle riuscite cover musicali, che prendono un’intera canzone e la reinterpretano, ottenendo un suono tutto nuovo ma anche restituendo emozioni del passato, queste opere sono una potente forma di ‘ripetizione innovativa’, una ripetizione che produce differenza”.
Cosa succede allora quando a essere rifatte non sono le opere, ma le mostre del passato? È ancor più recente un fenomeno che si potrebbe definire delle “mostre sulle mostre”, affermatosi parallelamente a un’attenzione crescente per la storia delle esposizioni. Qualcuno ha rilevato come proprio il tentativo di ricostruire filologicamente le mostre possa essere messo in relazione a una crisi del criticismo, che preferisce scrivere sulle esposizioni piuttosto che sulle opere d’arte.
Certo è che il momento espositivo permette una riflessione trasversale e a tutto campo, in grado di restituire uno spaccato del periodo come fosse un’istantanea: chi erano gli artisti, quali opere facevano, come queste si relazionavano con lo spazio, come venivano accolte dalla critica. E chi erano i curatori. Anche lo sguardo sulle mostre si focalizza sui ’60 e i ’70, indice di come la sperimentazione di questi anni abbia costituito una svolta fondamentale non solo per le pratiche artistiche, ma anche per la scrittura espositiva, alla ricerca di nuove soluzioni per mettere “on display” le ricerche contemporanee, spesso assecondandone la transitorietà, l’evanescenza, il carattere intimamente processuale.
In tal senso è esemplificativa è l’attenzione che è stata riservata a “Live in Your Head. When Attitudes Become Form”, curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969 e ormai entrata nell’immaginario collettivo per la sua capacità di proporre, in perfetta sincronia con i tempi, le ricerche più sperimentali del passaggio tra i due decenni, nonché un approccio curatoriale consapevole della forza del medium espositivo.
Solo nell’ultimo anno due mostre omaggiano la mostra szeemaniana, seppur in modo diverso: “When Attitudes Became Form Become Attitudes”, curata da Jens Hoffmann e ospitata prima dal CCA Wattis Institute for Contemporary Arts di San Francisco, poi dal Museum of Contemporary Art di Detroit, si ispira apertamente a “When Attitudes Become Form”, di cui però non costituisce tanto un remake quanto piuttosto un sequel, come dichiarato da Hoffmann stesso. A parte infatti una straordinaria maquette che restituisce in miniatura la disposizione delle opere nella celebre esposizione del 1969, gli artisti in mostra appartengono alla generazione che tra i Sessanta e i Settanta è nata, scelti però per il loro riferirsi alla stagione concettuale e processuale che proprio “When Attitudes Become Form” portò alle luci della ribalta.
La mostra americana può essere considerata una libera reinterpretazione di quella svizzera, con un lungo elenco di artisti — tra cui Yto Barrada, Allora & Calzadilla, Mario Garcia Torres, Elmgreen and Dragset, Claire Fontaine, Jonathan Monk, Tino Sehgal — che riattualizzano il modello originario.
Di natura diversa il progetto presentato dalla Fondazione Prada, “When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013”, curato da Germano Celant e ospitato nella sede di Ca’ Corner della Regina a Venezia in concomitanza con la Biennale.
La mostra è annunciata infatti come un vero remake, una ricostruzione che è insieme artistica, architettonica e curatoriale e che parte dalle opere presenti a Berna nel tentativo di ricondensare l’atmosfera magica della Kunsthalle. Studio gigantesco, allineamento selvaggio, cantiere, magazzino di transito, arsenale di rifiuti, meeting point e forum: sono solo alcuni degli epiteti che “When Attitudes Become Form” guadagnò nel suo immediato contemporaneo e che mettono l’accento sulla grande novità rappresentata dalla mostra: un luogo dove le opere non venivano solo esposte ma prodotte, proiettando in primo piano l’immediatezza e la processualità che distingueva le proposte artistiche dell’epoca.
Portare il pubblico, soprattutto quello che la mostra “originale” non l’ha mai vista, a (ri)vivere l’esperienza di “When Attitudes Become Form” è senza dubbio un proposito ambizioso, che rischia inevitabilmente di scontrarsi con uno sfasamento temporale e, forse, con un’incompatibilità di Zeitgeist. In fondo la mostra temporanea, proprio come la performance, è un qualcosa di effimero, che si consuma in un luogo e un tempo precisi e il cui destino resta legato alla sua documentazione (in alcuni casi talmente scarsa da farne perdere le tracce). Sembrerebbe proprio che quelle opere, scelte da quel curatore, non potranno più essere tutte insieme in quello stesso luogo. O almeno, non con lo stesso significato o lo stesso impatto. Allo stesso tempo, rifare una mostra è un regalo unico per quel pubblico che avrebbe tanto voluto esserci ma che è nato in ritardo. Anche se il risultato è, per forza di cose, un prodotto nuovo con una firma diversa, che porta così il marchio del suo nuovo curatore — esattamente come i “Seven Easy Pieces” si legano indissolubilmente alla figura di Marina Abramovic —, non si può non sottovalutare il valore esperienziale, l’esserci, non a caso parola chiave proprio negli anni Sessanta.
Provando quindi a enucleare dei format, con uno sguardo ai vari esempi di “mostre sulle mostre” degli ultimi anni, sembra che l’omaggio alle esposizioni storiche assuma tre forme diverse, in alcuni casi complementari e conviventi: la mostra del passato funziona da ispirazione per dire qualcosa sul presente, e da questa deriva un prodotto completamente originale; la mostra storica viene riedita presentando le stesse opere esposte nell’occasione originaria, spesso però (ri)contestualizzate in un nuovo spazio; la mostra storica viene documentata e inquadrata nel proprio contesto attraverso l’esposizione di documenti originali e immagini fotografiche, spesso digitalizzate. A quest’ultima tipologia appartiene ad esempio la piccola ma densa “This is Tomorrow”, ospitata dalla Whitechapel di Londra nel 2010 e dedicata all’omonima mostra del 1956, in occasione della quale è stato riedito anche il catalogo ormai introvabile.
Anche in Italia non mancano esempi di mostre di tipo documentario: è il caso di “A Roma, la nostra era avanguardia”, ospitata dal MACRO nel 2010, che, presentando l’attività degli Incontri Internazionali d’Arte, ha dedicato un importante focus sulle mostre “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/1970” (1970) e “Contemporanea” (1973) esponendone tutta la documentazione relativa, in particolare le fotografie di Ugo Mulas e Massimo Piersanti.
La mostra documentaria ha ovviamente tutt’altro impatto rispetto a un vero remake e risponde a esigenze diverse, in particolare quella di incoraggiare la conoscenza degli eventi ma non di stimolarne l’esperienza. D’altra parte, proprio l’esperienza può in alcuni casi rivelarsi fuorviante, come è accaduto per la riedizione de “Lo spazio dell’immagine”, storica mostra ospitata da Palazzo Trinci a Foligno nell’estate del 1967 e riproposta nei nuovi spazi del CIAC — sempre a Foligno — nel 2009, con il titolo “Spazio, tempo, immagine”. Se infatti la mostra originaria puntava a presentare le ricerche artistiche che si muovevano in diretta relazione con lo spazio, proponendo molti ambienti site specific e un inedito dialogo tra antico e contemporaneo, la riedizione del CIAC portava gli stessi artisti (ma non sempre le stesse opere) nell’asettico white cube del nuovo museo folignate, costringendo a rivedere completamente le relazioni spaziali che avevano riscosso tanto clamore — basti vedere la rassegna stampa dell’epoca — nella storica mostra del 1967.
Nell’impossibilità di riproporre la mostra storica negli spazi che l’avevano originariamente ospitata, un compromesso è stato trovato per “Arte Povera più Azioni Povere 1968”, tappa della celebrazione poverista che ha segnato il 2011 e che, ospitata dal MADRE di Napoli, omaggiava l’omonima esperienza amalfitana del 1968. Qui, infatti, molte delle opere esposte ad Amalfi sono state installate non nelle sale del museo ma nella contigua Chiesa di Donnaregina Vecchia, rispondendo così a un criterio quasi “filologico”: nella chiesa trecentesca non si possono infatti usare le mura, così come queste non furono utilizzate nelle navate degli Arsenali dell’Antica Repubblica nell’ottobre del 1968. La mostra napoletana ha inoltre presentato, accanto alle opere, la documentazione dell’evento amalfitano, in particolare gli scatti di Claudio Abate e Bruno Manconi e il film-documentario di Emidio Greco per la RAI, materiali provenienti dall’archivio di Lia Rumma che, insieme al marito Marcello, promosse l’intera manifestazione, curata da Germano Celant così come la sua riedizione. Certo, rispetto all’originaria “Arte Povera più Azioni Povere” mancava un pezzo consistente: le azioni, davvero impossibili to reenact considerata la velocità e l’entusiasmo con cui si consumarono le tre giornate amalfitane e la peculiarità del luogo che faceva da palcoscenico. Gilberto Zorio ha notato come, nonostante il successo della mostra, il “clima” fosse inevitabilmente diverso:“Qui al MADRE le opere sono ospiti dignitose ed educate di questo nuovo spazio. Ad Amalfi erano pura energia fisica”. Una curiosità: in anticipo sui tempi rispetto al boom di “mostre sulle mostre”, un’esposizione avrebbe dovuto omaggiare “Arte Povera più Azioni Povere” già nel 1998 a Castel Sant’Elmo, Napoli, in occasione del trentennale della mostra. Restano appunti e documenti di un evento mai realizzato.
Sempre in tema di Arte Povera, altre due mostre si sono rivolte negli ultimissimi anni a celebrare non i protagonisti, ma gli eventi che li hanno resi tali, ricordando parallelamente l’attività delle gallerie più sperimentali sul finire dei Sessanta: prima la mostra “Arte Povera” al museo MAMbo (sempre nell’ambito delle manifestazioni del 2011), che richiamava quella tenutasi a Bologna, alla Galleria De’ Foscherari, nel 1968; poi “Arte Povera: la prima mostra. Genova, La Bertesca-Masnata, 1967 e dintorni”, nel marzo 2012, volta a documentare la prima esposizione in cui compare il nome del gruppo, “Arte Povera/Im-spazio”. Anche qui è la stessa città — Genova — a ospitare l’omaggio, ma cambia la sede: non più la galleria ma Palazzo Ducale, dove sono esposti materiali e documentazione fotografica dell’evento del 1967, in parte inedita.
Quelli citati sono pochi esempi di un fenomeno che è destinato a espandersi, forse andando a coprire i decenni successivi (a quando una riedizione/riproposizione di mostre come “Les Immatériaux”, “Magiciens de la terre” o “Sensation”?). Utilizzare il momento espositivo come strumento per una riflessione sulle esposizioni storiche pone chiaramente problemi di impaginazione e inevitabili confronti con l’originale, ma il fatto stesso di mettere al centro del discorso una mostra, prima ancora delle opere, è chiaro sintomo dell’importanza che questa ha assunto nel suo contemporaneo e per le derivazioni successive. Rifarla o documentarla vuol dire prima di tutto riconoscerle un ruolo pionieristico, non senza un nostalgico refrain di fondo che dice “l’avrei voluta fare io”. Celant.