Nel 1975 Renato Mambor progetta Trousse, un parallelepipedo di profilato metallico concepito per accogliere al suo interno oggetti e persone che temporaneamente lo abitano, «facendone il luogo di un proprio racconto personale»1. Da questo oggetto, all’incrocio tra scultura e palcoscenico, prende il nome la compagnia teatrale con la quale Mambor realizza i suoi primi spettacoli, Esempi di arredamento (1975) ed Edicola Trousse (1977), dove gli attori sono chiamati a inventare gesti e storie per animare lo spazio della Trousse, unico luogo dell’azione scenica, pensato per essere riempito non soltanto di oggetti, ma di esperienze di vita. La genesi di Trousse e l’intensa attività teatrale di Mambor – proseguita sino ai primi anni Novanta con spettacoli dalla drammaturgia più complessa e strutturata, tra cui Nato Re Magio (1979), Gli Osservatori (1983), Il lupo della steppa (1984), Radiovisione (1989) – affondano le radici nella sua precedente ricerca artistica, maturata nel contesto romano degli anni Sessanta, quando l’artista passa da una visione dell’opera intesa come oggetto a un’idea di arte concepita come processo e come esperienza in fieri, che si rigenera nel tempo e nello spazio. Sin dalla prima metà del decennio Mambor realizza infatti opere di carattere performativo, che possono essere interpretate come i prodromi del suo futuro lavoro teatrale: emblematica, in tal senso, è l’azione svolta nel 1964 alla Galleria La Salita di Roma, diretta da Gian Tomaso Liverani, dove l’artista realizza in diretta e con la collaborazione del pubblico i suoi Timbri, serie composta dalle impronte reiterate su superfici monocrome di timbri raffiguranti uomini stilizzati, privi di tratti individuali e intesi come la quintessenza dell’‘uomo massa’, già presentati nel febbraio del 1963 in occasione della collettiva “13 Pittori a Roma” alla Galleria La Tartaruga. Durante l’azione a La Salita il pubblico non soltanto osserva il gesto dell’artista – un agire ripetitivo e spersonalizzato, che è in antitesi alla pulsionalità dell’action painting americana e più vicino alla qualità indicale delle impronte di Piero Manzoni –, ma è anche invitato a prendere il suo posto e a timbrare in sua vece, intervenendo dall’interno nel processo esecutivo dell’opera.
È tuttavia nella seconda metà del decennio che, nel lavoro di Mambor, si rafforza l’interesse per l’azione, la performance e gli aspetti relazionali dell’opera, all’origine della sua successiva attività nel teatro e della formazione del Gruppo Trousse. Da questa prospettiva i Cubi mobili, esposti per la prima volta nel 1966 nella mostra a due “Mambor Pascali” presso la libro-galleria Guida di Napoli, sono a mio parere una cerniera importante tra la fase pittorica dei Ricalchi (1964-1966) e la sperimentazione più strettamente performativa della fine degli anni Sessanta, dall’azione Dovendo imballare un uomo, realizzata con la collaborazione del performer Claudio Privitera nel maggio del 1968 nell’ambito della rassegna ideata da Plinio De Martiis “Teatro delle mostre”, sino agli Itinerari delebili (1968) e alle Azioni fotografate (1969). Composti da parallelepipedi di legno sulle cui facce sono dipinte le sagome dei Ricalchi, i Cubi mobili sono progettati per essere manovrati e riposizionati dal pubblico, in un’esperienza ludica pensata per rimodulare lo spazio della galleria secondo schemi e soluzioni variabili. Da oggetto statico, nei Cubi mobili, la pittura si fa evento dinamico, sotto il duplice profilo dello spazio e del tempo: “cubi-eventi”2 è la felice espressione con cui, all’epoca, Achille Bonito Oliva definisce queste opere, sottolineando come il gioco attivato dall’artista costituisca, nella sua imprevedibilità, l’ultima possibilità per umanizzare gli oggetti, resi estranei dalla specializzazione del lavoro nelle società a capitalismo avanzato.
Un ulteriore e imprescindibile passo verso una concezione teatrale dell’opera, Mambor lo compie nel 1969 con le già ricordate Azioni fotografate, in cui l’artista si espone in prima persona, facendosi ritrarre fotograficamente mentre esegue gesti impossibili, come provare con le gambe legate a saltare la corda e pattinare, o stranianti, come stirare nel bel mezzo di un prato. Lorenzo Mango, tra i più autorevoli studiosi del teatro di Mambor, ha sottolineato come «da un lato l’azione fotografata assume un suo significato proprio nel momento in cui viene scandita, circoscritta da una cornice teatrale che la iscrive e la separa del tutto, dall’altro, essa apre la via ad un momento di natura teatrale in senso proprio, qualcosa che ancora ovviamente le azioni fotografate in sé non sono»3. Benché infatti queste fotografie non possano essere lette stricto sensu come teatro, esse si avvicinano al tableau vivant, per la qualità performativa che le anima. Dalle Azioni fotografate nasce inoltre l’idea dell’Evidenziatore, che della Trousse è l’antecedente più diretto dal punto di vista cronologico e concettuale. È lo stesso Mambor a fare risalire l’origine dell’Evidenziatore a L’ultima riflessione (1969), sequenza fotografica appartenente alle Azioni fotografate, in cui l’artista viene ritratto dal fotografo Silvio Pasquarelli, mentre, con un processo di mise en abîme, è a sua volta intento a fotografarsi riflesso in uno specchio. Nell’ultima immagine della sequenza, Mambor si fa riprendere nell’atto, altamente simbolico, di frantumare la superficie specchiante. «Questo fu il mio primo tentativo», scrive l’artista nel 1975, «di affrontare con chiarezza l’idea dell’arte come conoscenza del mondo e di riconoscere che questa conoscenza deve basarsi su un contatto diretto con il mondo stesso, e non con immagini riflesse o distorte»4. Dall’urgenza di un “contatto diretto con il mondo” muove dunque il progetto dell’Evidenziatore, sviluppato dal 1970 al 1975, la cui genesi è ripercorsa, a caldo, in un libro curato da Henry Martin, pubblicato dalla Galleria Multhipla nel 1975. Nel suo esito finale, raggiunto dopo vari tentativi grazie all’aiuto dell’architetto Paolo Scabello, l’Evidenziatore assume la forma di un oggetto metallico, composto da una ghiera circolare a cui sono agganciate quattro estremità prensili, simili ad arti meccanici o alle chele di un granchio. Dal punto di vista dell’aspetto formale questo oggetto è lontano da quello che di lì a breve caratterizzerà la Trousse, progettata come si è visto come una “scatola-teatro” – ma la concezione e la funzione di questi progetti hanno affinità stringenti. L’Evidenziatore, come in seguito la Trousse, mira infatti a teatralizzare la realtà quotidiana: Mambor seleziona e isola una porzione del reale per porla in risalto attraverso l’invenzione di uno strumento-indicatore che, duchampianamente, declina oggetti, luoghi e persone a uno statuto differente. L’Evidenziatore non serve soltanto a convogliare l’attenzione su cose o situazioni, ma anche a prenderne possesso: si tratta di un oggetto prensile, che agisce sulla realtà afferrandola. Come ha rilevato all’epoca Mario Diacono, l’Evidenziatore può essere interpretato come un’estensione dell’uomo, uno strumento che offre un’esperienza del mondo non soltanto visiva, ma anche tattile, configurandosi come un oggetto-evento: «Vedere è avere a distanza», scrive infatti Mambor, citando Maurice Merleau-Ponty. La vocazione performativa e relazionale dell’Evidenziatore è accentuata inoltre dalla scelta di Mambor di farlo agire da altri: Gianni Sassi lo utilizza a fini pubblicitari, mentre fotografi quali Massimo Piersanti, Giorgio Colombo, Fabio Donato, e artisti, tra cui Alghiero Boetti, Jannis Kounellis, Gino De Dominicis, Pablo Echaurren e Fernando De Filippi lo reinterpretano secondo il proprio linguaggio espressivo. Tra il 1972 e il 1975 l’Evidenziatore è esposto in molteplici contesti: compare in un programma televisivo, è collocato nella vetrina di un negozio di arredamento nel centro di Roma e viene affidato dall’artista a un gruppo di bambini. La sua qualità partecipativa è resa chiara anche dalle mostre-inchiesta “Che nome gli daresti?”, inaugurate nell’agosto del 1972 alla galleria LP220 di Calice Ligure e nel dicembre dello stesso anno nella rassegna “Mappe” agli Incontri Internazionali d’Arte di Roma, in cui il pubblico è invitato a compilare un questionario, dove può indicare le idee e le sensazioni suscitate dall’Evidenziatore e proporre per questo oggetto un nome diverso.
Alla base dell’Evidenziatore vi è dunque una concezione corale e collaborativa dell’arte, che tornerà rafforzata nei primi spettacoli della Trousse, dove gli attori vengono sollecitati ad attivare lo spazio scenico ideato dall’artista, esponendo se stessi, i propri gesti e le proprie storie. In Nato Re Magio, rappresentato nel 1979 al Teatro in Trastevere di Roma, la Trousse avrà invece un ruolo diverso, perché non sarà più il luogo unico dell’azione, ma verrà inclusa in un assetto drammaturgico più articolato, sebbene anche in questo caso dalla struttura non lineare, né narrativa. In Nato Re Magio lo spazio scenico prevede infatti, oltre a quello della Trousse, anche quello del palco, dove agiscono i vari personaggi – la Donna pilota (interpretata da Patrizia Speciale, compagna e poi moglie di Mambor), il Servo di scena, la Ragazza ecc. – che nello spettacolo operano tutti in funzione del Viaggiatore, interpretato dallo stesso Mambor: «Il soggetto che si mette in scena sono io, con i miei assilli e la mia creatività, inventando un contorno di personaggi che estroflettono aspetti diversi della mia personalità»5.
L’invenzione della Trousse, così intimamente legata alle precedenti esperienze in campo artistico, rappresenta per Mambor «una naturale estensione della ricerca, uno scivolamento lento, quasi involontario, dalla pittura al teatro»6. Lo stesso scivolamento lento, senza cesure, segnerà anche il passaggio inverso – dal teatro alla pittura7 – compiuto dall’artista a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Una traiettoria a doppio senso, quella percorsa da Mambor, in cui i confini tra arte e teatro sono oggetto di continue effrazioni e transizioni.