Liam Gillick: Dopo aver studiato design, mi hai detto che avevi intenzione di muoverti in una direzione più teorica. Perché non sei diventato il classico ragazzo italiano che lavora con il design e la tecnologia?
Riccardo Benassi: Si dovrebbe imparare a comprendere la tecnologia con un utilizzo quotidiano piuttosto che cercare di conoscerla da una prospettiva professionale. Da un certo punto di vista però, sai, sono il tipico ragazzo italiano: noi, per tradizione, facciamo in modo che un discorso scritto si possa performare, e inoltre cerchiamo di rimodellare la realtà attraverso parole o sedie o automobili. Proprio come è successo anche a te, ho sempre avuto molto chiaro in mente che sarei diventato un artista, forse perché mi sembrava il modo migliore per intervenire direttamente sul reale, nel senso che quando ero un ragazzino pensavo che i miei paesaggi — ero in Italia all’epoca — avessero bisogno di un intervento. Sono quindi felice di agire a un livello simbolico, perché per me oggi è evidente che cambiare il destino di un giorno speciale è meglio che lasciare che un giorno normale diventi speciale.
LG: Tu vivi a Berlino, quindi è stupido parlare di nazionalità, ma dobbiamo farlo, almeno un po’. C’è stato un enorme cambiamento nell’arte italiana di recente. Ciò che ha dominato negli ultimi 20-25 anni è stata l’idea che l’artista era un incapace, colto nel bel mezzo di un elegante fallimento; eppure il tuo lavoro è molto più difficile da cogliere, come un tentativo che spinge in avanti alcune strutture e idee. Non sono sicuro dove focalizzarmi, e quindi riconfiguro tutto di nuovo e dispiego una nuova struttura. Allo stesso tempo sei coinvolto in diverse attività, il che potrebbe generare confusione per certe persone… Potresti spiegare questo modo di lavorare, questo modo di pensare?
RB: Assumo ruoli diversi in qualità di scrittore, performer, designer, scultore, musicista, fotografo e così via, e trovo nell’interstizio il mio campo d’azione. Poeticizzare il deserto piuttosto che delimitarne i confini è un modo per essere onesti con le altre persone che stanno vivendo nella nostra epoca. Visto che, in quanto artista, non sono nella posizione di poter parlare a molte persone, sperimento questa metodologia per creare possibilità per nuovi incontri, producendo e differenziando costantemente ponti levatoi. A volte ho la sensazione che le mie idee, quando hanno trovato una forma materiale, divengano altro… Sembra quasi che dicano: “Per favore, Riccardo, hai detto che sono una scultura, non voglio diventare un racconto, ora! Tutti i miei amici sono sculture, quindi, per favore, lasciami vivere come scultura!”. Ma alla fine, faccio in modo che queste strutture sempre mutevoli incontrino altre persone, nuove audience, al fine di allargare lo spettro delle reazioni possibili. Assumere ruoli differenti, però, significa in realtà creare nuovi ruoli. Dato che stiamo parlando del regno della tecnologia, aggiungerò che per la tua generazione è diverso, perché tu hai incorporato nel tuo lavoro l’idea di multitasking ben prima che questo accadesse e diventasse riconoscibile all’interno del computer e quindi nella società.
LG: Esattamente…
RB: Per me è diverso perché ho ereditato l’idea del multitasking direttamente dalla macchina, e per questo motivo ho sviluppato l’idea di abitare gli interstizi, agendo fenomenologicamente.
LG: Il multitasking porta in realtà a mettersi in rapporto con se stessi. Vedo nei tuoi primi lavori una sorta d’ironia nei confronti dell’interazione. Le interazioni tra le persone stanno infatti diventando una sorta di cliché e un’ossessione; ma quello che sto facendo per la maggior parte del tempo con il multitasking è invece comunicare con me stesso — inviandomi un messaggio oppure depositando un’idea o un’altra forma in uno spazio virtuale che posso poi recuperare…
RB: La multiprocessualità è sostanzialmente la comprensione dell’attuale, complessa e multilaterale formazione della soggettività attraverso la tecnologia. È forse per questo motivo che ho precedentemente affermato che abitare gli interstizi è un modo per essere onesti.
LG: Penso che nel tuo lavoro ci siano alcuni momenti di assoluta chiarezza, vedi tutto nitido, ma poi subentra qualcosa e pensi: “Ok, aspetta, ora devo correggere qualcosa… Forse ho sbagliato”. E si complica tutto.
RB: Non mi sono mai fidato veramente delle persone che credono di avere sempre ragione. Cosa significa il coraggio, se non la capacità di riconoscere i propri errori? Allo stesso tempo, in un processo di produzione fatto di molteplici strati sovrapposti è estremamente importante sapere dove e quando fermarsi. Gli oggetti sono il punto d’arrivo in cui mi fermo. Gli oggetti sono interfacce, e per questo motivo cerco sempre di creare un parallelismo tra gli spazi domestici e quelli espositivi. Gli ultimi esempi in questa direzione sono state le personali “Attimi Fondamentali” (2010) e “Standard Sentimento” (2011). Se tu, come artista, hai già progettato una situazione o un ambiente, allora puoi lasciare che il tuo pubblico cammini e lo attraversi da solo. La sola ragione per cui oggi ha ancora senso accompagnare qualcuno per mano è quella di farlo in una strada che non esiste ancora.
LG: Quindi vedi il tuo lavoro come un qualcosa basato sulla collaborazione oppure il discorso è più complicato?
RB: È più complicato…
LG: Mi pare che il grande cambiamento ora consista nel fatto che ci sono più persone coinvolte nella discussione — nella mia generazione era forse l’artista più il curatore più qualche altra tipologia di artista, diciamo quindi tre tipologie di persone…
RB: Hai ragione: da una parte c’è una crescente professionalizzazione delle competenze, dall’altra un unico lavoro non è più sufficiente per i soldi dell’affitto o per definire “vita” la propria esistenza. Quello di cui stiamo parlando è quindi connesso all’idea di tempo libero, e mi piace pensare che una mostra sia un momento per il corpo di liberazione dal lavoro. Questo forse è il motivo per cui le mie mostre puntano proprio al pubblico.
LG: Recentemente ne parlavo con una persona e ho elaborato questa piccola teoria sulla “tolleranza”, che normalmente è utilizzata in relazione alla politica o alle politiche sociali, ma io ci stavo pensando in relazione all’arte. Alla base del lavoro critico contemporaneo c’è una grande tolleranza delle forme d’arte… Gli artisti non guardano più con fastidio a certe forme dell’arte contemporanea, il che permette alle differenze di esistere e di essere libere da ogni tensione. Alcuni critici pensano che questo abbia a che fare con la partecipazione o il rifiuto della forma a favore del discorso, ma non è così, ha a che fare con una sorta di tolleranza…
RB: Non è tempo per essere bulimici, è il momento di conoscere il proprio corpo in modo da definire una dieta appropriata. Anche se è difficile seguire perfettamente una dieta quando sei sempre in viaggio — percepisci comunque ciò che il tuo corpo ti sta chiedendo, e non c’è niente di più flessibile del tuo corpo. Sto assumendo quindi una posizione, ma è la flessibilità di questa posizione il fattore inedito che mi consente di evitare ogni dogmatismo.
LG: Negli ultimi venti anni, la Destra ha rubato l’idea di coalizione — ovvero gruppi di persone dalle idee simili che possono tollerarsi l’uno con l’altro e lavorare insieme — e sembra che ora ci sia una svolta, la mentalità di lavorare insieme o fianco a fianco senza guardare alle differenze, perché è molto più produttivo avere un “movimento” di produzione e idee. Questo però può anche dare vita a una crisi: troppa debolezza, troppe cose da fare che non sono realmente forti da poter cambiare qualcosa. Vedi dei problemi in questa metodologia?
RB: Sì, penso di sì. Principalmente perché rallenta e complica il processo di conoscenza delle persone con cui stai affrontando il viaggio. Perché allungare la mano verso l’esterno non ha il solo scopo di trovare il tuo pubblico, ma anche quello di incontrare i tuoi colleghi durante il viaggio.
LG: Forse questo riguarda i metodi indiretti di presa del potere… questa forma di tolleranza nei confronti dell’arte è un processo di riconoscimento in cui nessuno crea più un’immagine completa. Gli artisti sono felici di generare alcune strutture ma rifiutano di completare la storia…
RB: Questo è un cambiamento strutturale della situazione attuale. La nostra presenza nel mondo potrebbe essere vista come un’operazione di aggiornamento nei confronti di discorsi preesistenti e in perenne mutazione: una costante riappropriazione di certi campi semantici attraverso l’azione. Come se gli artisti fossero soggetti allo stesso statuto temporale di uno scienziato, che permette a una teoria di progredire attraverso le generazioni. Si potrebbe anche dire che la teoria stessa stia sfruttando la vita dello scienziato in modo da sopravvivere, ma anche se questo fosse vero, la teoria deve comunque attraversare gruppi di soggetti in cooperazione. Quindi questo approccio potrebbe anche liberarci dall’attuale ed espansa “patologia della previsione”, o potrebbe aiutarci a capire che l’esistenza dei cosiddetti “concetti universali” è un sofisticato metodo di protezione dal bisogno urgente di assumere una posizione nel presente.
LG: Questo significa comunque che il lavoro in sé non deve racchiudere tutto…
RB: È come abitare temporaneamente il pianeta, e quindi lo spazio espositivo.
LG: Ok, perché le persone di solito parlano delle installazioni come una sorta di framing, di inquadratura: io creo una cornice all’interno della quale può accadere qualcosa…
RB: No, non si tratta di una cornice perché il lavoro non ha bisogno di una cornice per succedere, per esistere. Sì, ha bisogno di una cornice esclusivamente nel mondo virtuale, e la chiamiamo monitor.
LG: Parte di tutto questo è dovuto alla crisi. Non è solo un problema di sistema finanziario completamente caotico, neoliberale e non regolato — c’è anche un rapido e continuo sviluppo della tecnologia, che ha creato una crisi nel lavoro. L’idea, proposta dalle persone di orientamento neoliberale, secondo la quale i “servizi” e l’interazione sostituirebbero il lavoro nella sua tradizionale definizione, ha evidentemente fallito. Oggi ci siamo accorti che i servizi sono il vero settore dello sviluppo tecnologico.
RB: La tecnologia sta operando all’interno del territorio dell’immateriale. Per questo motivo di solito affermo che nella mia pratica artistica colonizzo il “vuoto” con il suono, allo scopo di ottenere un mondo ri-semantizzato. Essendo cresciuto con la tecnologia, ho la consapevolezza di quanto l’invisibile possa essere importante. Essere paranoico sull’invisibile però non vuol dire capire cosa sta succedendo: nel momento in cui codifichi un sistema entri nella sfera del leggibile. Può un’e-mozione che passa attraverso una e-mail produrre esclusivamente e-dreams?
LG: Quindi per te è una questione di comprensione e decodifica di queste cose oppure piuttosto di reindirizzarle, o entrambe le cose?
RB: Puoi reindirizzare qualcosa solo agendo collettivamente, ritornando a questa sorta di senso di coalizione. Creare un’installazione spaziale significa progettare un contesto per la produzione di un’esperienza, e questo potrebbe essere uno strumento per fare in modo che ogni persona ottenga il proprio concetto di realtà tecnologica.
LG: Interessante… ma, vedi, la maggior parte delle persone che decidono di provare a reindirizzare crede che bisogna distruggere… insomma, non c’è cambio di rotta, si tratta solo di interrompere o fermare qualcosa…
RB: Direi che, per quanto io mi renda conto del fatto che la rabbia è il bio-carburante del presente, mi è poco chiaro cosa sia questo sabotaggio, se non un calcolo premeditato all’interno dell’agenda delle compagnie di assicurazione. Allo stesso tempo penso che sia abbastanza facile da comprendere un certo uso della violenza a livello simbolico, specialmente se attuato da una generazione che fisicamente non ha mai fatto esperienza di alcuna Guerra, se non della silenziosa immateriale Guerra di ogni totalitarismo contro il soggetto.
LG: Nel campo dell’advanced art — che penso sia l’area all’interno della quale operi — è abbastanza difficile collocare le persone, c’è una sorta di situazione instabile…
RB: Percepisci questa carenza di rappresentazione forse perché, oggi, collocare qualcuno è solo la necessità provvisoria di qualcun’altro. Abitare l’interstizio per me significa rappresentare lo spazio bianco tra le parole scritte, rappresentare quello che esiste nella società attuale anche se è stato tagliato fuori da sistemi simbolici e rappresentativi già esistenti, rappresentare quindi questa speciale tipologia di invisibile che è radicato nella terra… possiamo chiamarlo una sorta di funzionalismo irrazionale?