Nessun cambiamento avviene repentino. Che per l’arte significa riconoscere una certa flessibilità alle variazioni di gusto o rassegnarsi a momenti di confusa compresenza e sovrapposizione di sensibilità. Ad esempio, quando nel 1966 inaugurava “Primary Structures” al Jewish Museum di NewYork, l’Espressionismo Astratto era in declino da un pezzo, la Pop Art andava per la maggiore e il germe dei Minimalismi attecchiva prima della sua completa diffusione. Ci vollero però altri quattro anni affinchè si palesasse quel cambiamento archetipico che per la prima volta vedeva l’arte impegnata in una consapevole semplificazione della forma. Fronteggiando l’eterogeneità delle proposte, l’occasione del Sessantasei radunò dunque un gruppo di artisti senza uniformi premesse stilistiche per tracciare una direzione inedita con la chiara predilezione per oggetti specifici, materiali e forme. Insieme a tanti colleghi, anche Richard Artschwager contribuì a “Primary Structures” con Pink Tablecloth (1964), un cubo in formica dipinta che, senza sbozzature, rappresentava quanto nel titolo: una tovaglia rosa su tavolo. Si trattava di un lavoro seminale non solo per quella mostra, ma per la successiva e infinita produzione che, per la prima volta in Italia, è oggi riordinata da Germano Celant in un importante progetto di ricerca per il Mart.
“Richard Artschwager”, la mostra, non fa che seguire la sensibilità artistica del maestro-falegname echeggiando crepe e ambiguità dell’epoca complessa che lo ha formato. Infatti, a prescindere dall’essere presenze oggettuali o ambientali, segni o forme, le immagini di Artschwager appaiono come pretesti per ragionare sulla realtà al limite tra apparenza e essenza, astrazione e rappresentazione, tanto che, anche osservate da una più banale prospettiva stilistica, non è chiaro se ammicchino più alla Pop o alla Minimal Art. Forse propriamente a nessuna: dato che della prima rimane una sorta di rimescolatura di messaggi popolari tra industrializzazione e pubblicità – è il caso di Question Mark – Three Periods(1994) o Exclamation Point (2010) – e della seconda un’asciuttezza modulare estrema in grado di sfociare nell’astrattismo – come in Table and Chair (1965), Tower III (Confessional) (1980) o Pianofart (2008), tutti progettati sul modello di strutture primarie –.
Artschwager individua il suo linguaggio tra i tanti che abitano la sua contemporaneità e per il resto della sua carriera ne ripropone una sintesi consapevole. Tra industriale e artigianale, naturale e artificiale, illusorio e reale, i più grandi alleati sono comunque i materiali. Così tavoli, sedie, confessionali e pianoforti non sono solo fatti della migliore produzione tecnologica anni Settanta – celotex, formica e crine – ma annullano completamente la loro funzione per ribaltare la percezione su di sé e diventare icone e monumenti della società che li abita quotidianamente.
Il quadro è scultura e la scultura quadro: ogni oggetto è se stesso e insieme immagine della sua rappresentazione. E senza soluzione di continuità ma con costante ironia, ogni lavoro rimette allo spettatore la potenza del suo campo allargato1 ricordandogli progressivamente che anche il banale può diventare straordinario o quantomeno fingersi tale.