Per fronteggiare il crollo degli ideali, quel delilliano e pervasivo rumore bianco, impercettibile, l’arte visiva deve farsi carico del significato ontologico dell’immagine, sedotta oramai dalla voracità del vedere. In questa ossessione constatiamo che l’ambiguità dell’iconografia non è il fine ultimo, ma il sintomo di una ricerca di verità. È innegabile infatti che l’immaginario venga ridefinito come forma primordiale di racconto per coprire il vuoto costitutivo del desiderio, materia ideale di cui attualmente la penisola è priva. Proprio in questo spazio, dove il godimento negato si concentra nell’Altro, entrano in scena i discorsi generati dalle arti visive. Inediti principi formali di organizzazione del reale vengono proposti da una nuova generazione di autori italiani, consapevoli del loro ruolo e maggiormente efficaci dinanzi all’opera rispetto ai colleghi di poco precedenti.
In Giulio Frigo, per esempio, vi è un continuo e rigoroso tentativo di riduzione per arrivare a uno stato di densità differente, in cui il segno geometrico, inteso come formalizzazione del pensiero speculativo, si acclimata verso una fascinazione per le idee pure e gli effetti che producono sulla nostra sensibilità. Le sue installazioni sono forma sensibile che sospende le connessioni ordinarie non solo tra apparenza e realtà, ma anche tra forma e materia, secondo un moto oscillante fra intelletto e percezione.
La lucida riflessione sul ruolo e la responsabilità dell’artista fa sì che essere politici sia un atto imprescindibile: elaborare arte significa intervenire nel reale e quindi fare politica, scevra da ogni ideologia. “Il bianco della tela è una sfida che l’artista cerca di fronteggiare, spaventa ma allo stesso tempo mi permette di trovare delle ecphrasis interessanti”, sostiene Tomaso De Luca. Difficile da far digerire, ma pittura e disegno rappresentano una modalità di espressione profondamente biologica. Applicare il segno a qualcosa, e non crearlo dal niente, è un’operazione cannibale perché la pratica pittorica è esperienziale, una proceduralità che serve per lasciar pensare le mani. L’obiettivo è quello di una analisi rinnovata della grammatica che ci contraddistingue, dell’utilizzo del corpo, della storia, del paesaggio e dello spazio così che vi sia necessità di “detournare” le immagini, inserirsi in un linguaggio e sovrapporre l’esperienza alla cultura. Per il giovane artista in questo frangente è interessante l’orizzontalità, la biodiversità, l’idea che possiamo non evolverci ma sparpagliarci, che possiamo non integrare o integrarci; piacciono l’anti-logicità del pensiero, le crepe che lo spazio e il linguaggio lasciano inesplorate.
Questo del limite allo stremo è la questione che indaga anche Manuel Scano, per cui esiste una forte tensione verso l’astrazione. Il tentativo è quello di espandere lo spettro di possibilità del segno liberando l’opera dalla schiavitù della forma. In un certo senso sono il disordine e il caso a determinare la forma estetica, come a voler mettere in crisi l’affermazione individuale, il ruolo del soggetto. Per questi giovani non parlerei di una crisi del pensiero debole, ma di una diversa interpretazione dello stesso per cui si delinea un cromosoma di ambiguità nel contempo decostruttivo e analitico. Il lavoro nel caso di Scano deve spingersi ai limiti, poiché interessato a ciò che sfugge, a ciò che scatena e crea situazioni che hanno anche una certa indipendenza dall’Io, per una perdita di controllo, per nascita spontanea. In questa accezione il carattere performativo diventa estensivo e invasivo, segnando l’intera realtà in balia del caos.
In questo, gli spunti di contatto con Andrea Kvas risultano interessanti proprio per l’ambiguità che si presenta in ogni opera, sia un disegno o una scultura o una traccia sonora, poiché si parte dal principio di creare qualcosa che sia un tentativo verso l’assoluto che non è più la ricerca romantica del sublime. Ovviamente l’opera, facendo parte di un complesso sistema di relazioni, non può che tendere inutilmente a tale ambizione ma in un sistema relazionale amplificato. È un pensiero nichilistico, una ferma convinzione nell’impossibilità dell’assoluto, e questo è il motivo per cui anche Kvas preferisce lavorare direttamente negli spazi, aumentando la soglia del rischio e del potenziale “errore”, prediligendo la sincerità, la visceralità che può scaturire da un atto simile.
Mai sopprimere però la sincerità di un gesto fisico perché la mente imbroglia, può piegare il volere individuale a tal punto da far scomparire del tutto le vere intenzioni. Nella pratica disegnativa o pittorica vi è un modus operandi, un’attitudine che può spingere a ricercare davvero qualcosa di potenzialmente unico. Una pratica che ha per principio fondamentale non la ricerca del giusto, ma il fronteggiare incognite. Declinazioni pesanti che rivelano un senso di necessità anche per Nicola Martini, nel momento in cui il fattore principale di investigazione è la materia e la fascinazione sensoriale che trasmette. L’autore è sensibile all’interazione, allo scambio fisico ed energetico su una materia supporto in rapporti di adesione-coesione-attrito secondo un gesto spogliato dalla natura stessa di esserlo nel momento in cui assume solo meccanicità, senza progetto, e il pensiero si discosta verso altri fattori.
Relazione instabile fra superficie e oggetto: il rivestimento, la pelle, appare in ogni momento vulnerabile alle lacerazioni, alle fratture, ai distacchi e alle spoliazioni. Questo senso di stratificazione scultorea diventa culturale nel lavoro di Giorgio Guidi e Ludovica Carbotta dove l’acquisizione metabolica dei segni comincia un percorso di riassemblaggio dei frammenti di relazione che gli corrispondono, seguendo un processo di caduta nella memoria. L’analisi del sistema che regola le relazioni acquista, per stesura e processo mentale, una serie di dati che, tradotti in immagini, ripercorrono la struttura di sintesi del processo mnemonico. Lo script che rimane nella memoria subisce sovrascritture continue, tanto da non avere una reale attinenza con gli avvenimenti iniziali; la ricostruzione subisce una caduta drastica nell’asse cartesiano incrociato tra ricordo e tempo, creando una forte curva in discesa. Il tentativo di racchiudere in un oggetto una rappresentazione capace di restituire un sistema di relazioni dà come risultato un linguaggio dislessico, che si svincola dalla logica causale. La ricostruzione oggettuale riconduce i fatti alla loro frammentarietà, restituendo nell’insieme il ricordo della relazione. La sintesi di ogni elemento che costituisce la relazione costruisce per addizione didascalica un oggetto complesso che ne descrive l’accaduto.
Affini le indagini di Riccardo Giacconi per il video e Gabriele De Santis per la ricostruzione dell’immagine. La fotografia, così come il video, viene vista attraverso l’innegabile fascino della sua obsolescenza; guardare indietro per dare un senso nuovo alle immagini. L’artista può permettersi di non produrre perché vive fra le immagini: come nel collage picassiano, non si tratta di creare nuove rappresentazioni ma di attingere all’archivio iconografico globale per un novello ready made che viene portato all’estremo. L’autore perde il ruolo di creatore per diventare alla fine un ricercatore di “strutture di significazione”.
La finalità di questa generazione è semplice: produrre un lavoro intellettualmente onesto e della massima qualità possibile per svilupparne una singolarità che si ponga in maniera dialettica con un diverso pubblico e non con il sistema dell’arte. Questo costituisce una forma di resistenza rispetto all’appiattimento e all’omologazione culturale e conferisce valore alla ricchezza potenziale della realtà. In tal senso non si tratta di un approccio contestatario e rivoluzionario, ma sovversivo proprio per il suo essere propositivo.