Che il corpo costituisse una costante nella pratica artistica di Robert Morris, anche sotto la scorza squadrata e spoglia del Minimalismo, è cosa nota. Fin dall’esordio nella danza insieme alla prima moglie, Simone Forti, negli anni ‘50, il corpo e il movimento concorrono al ripensamento della scultura, del suo rapporto con lo spazio. Untitled (Box for Standing) (1961), tra i primi oggetti realizzati dopo l’abbandono della pittura astratta, è una struttura in legno costruita su misura che inquadra il corpo di Morris in piedi, fermo, mentre semplicemente oppone resistenza alla forza di gravità. Non più oggetto della rappresentazione, il corpo diventa qui uno strumento di misurazione attraverso il quale interagire con l’ambiente circostante, e la scultura un suo surrogato, che non occupa più uno spazio virtuale, ma abita quello reale. L’opera si presenta a tutti gli effetti sotto forma di un oggetto minimalista, ma trattiene un’impronta della presenza dell’artista; è il risultato di un processo che si origina nell’atto performativo. Sebbene invisibile, il corpo permane nella produzione successiva di Morris, evocato dai liquidi corporei nascosti in bottigliette (Portraits, 1963) o dall’attività cerebrale riportata in un elettroencefalogramma (Self-Portrait (ECG), 1963), dalle impronte (Untitled (Footprints and Ruler), 1964) e dalle anatomie suggerite dai feltri.
Il corpo è il protagonista assente di Monumentum, una spettacolare coreografia che riunisce nel Salone Centrale dodici gruppi scultorei provenienti da due cicli mai esposti finora in Europa: MOLTINGSEXOSKELETONSHROUDS (2014-15) e Boustrophedons (2016-17). A cura di Saretto Cincinelli, il progetto era stato tratteggiato a grandi linee con l’artista prima della sua scomparsa.
Le sculture di entrambi i gruppi sono modellate su manichini a grandezza naturale, rispettivamente con tela di lino belga e con fibra di carbonio, poi immerse in un bagno di resina epossidica che, una volta essiccata, le rende autoportanti. I panneggi, svuotati della figura, assumono un’aria spettrale, eppure estremamente espressiva. Le loro pose patetiche riprendono iconografie dalla storia dell’arte, in alcuni casi con riferimenti diretti, come Dunce I e II (2014-15) i cui copricapo a punta derivano dai dipinti di Goya, o Dark Passage (2017) che nell’incedere delle figure rimanda ai Borghesi di Calais di Rodin.
The Big Sleep (2016) è costituito da singole figure distese, sparse nello spazio, come cadaveri avvolti in sudari, mentre in Criss-Cross (2016) un intreccio di corpi, che si dimenano sulla parete, forma un’unica composizione che ricorda i bassorilievi antichi con scene di battaglie. I gruppi più interessanti sono costituiti da due figure che si scambiano un muto dialogo, talvolta in posizione speculare, come per Jumpers (2014-15) in cui una ascende e una precipita.
Non più sublimato nel linguaggio minimalista, il corpo qui perde la propria essenza; ne rimane la crisalide, un carapace che inscena un balletto macabro. Alcune sculture sono installate sul pavimento, altre fluttuano sospese a mezz’aria: l’intero campo visivo dell’osservatore è gremito di figure incappucciate, senza volto.
Spiazzante, soprattutto per chi si aspetta di trovare un Morris minimalista, la mostra esprime una vena apocalittica già affrontata in disegni e rilievi degli anni ’80, e trova un diretto precedente nelle impronte d’inchiostro impresse da uno scheletro su un lenzuolo di Restless Sleepers/Atomic Shroud (1981), traduzione letterale del tema del disastro nucleare. Accanto al più famoso Morris, teorico dell’Anti-form, c’è l’altro che dà forma a ossessioni, timori e atmosfere del mondo contemporaneo, che ha continuato a guardare e interpretare.