Dei mercenari, una giovane coppia in rotta, un perito psichiatra intento a interrogare nel 1924 un serial killer, un asino nella neve, il tenutario iraniano di un locale berlinese a luci rosse, un dj, degli intellettuali tutti presi a discutere del futuro della democrazia, un attore che legge un discorso pronunciato da Himmler nel 1943 davanti a novantadue generali delle SS: sono solo alcuni dei personaggi che gli spettatori avranno occasione d’incontrare nei film di Romuald Karmakar.
Fin dai suoi primi film della metà degli anni Ottanta, il cineasta — nato nel 1965, autodidatta e ferocemente geloso della sua indipendenza — si serve della cinepresa per affrontare il mondo e la storia. Autore di più di venticinque film, Karmakar attraversa con il suo cinema la storia delle tecniche di ripresa: dalle pellicole Super8 degli esordi (come in Un’amicizia tedesca, del 1985, serie di falsi “home movie” riccamente documentati sulla vita di Hitler prima dell’ascesa al potere) al 35 millimetri di alcuni suoi film, fino all’odierno iPhone e alla videocamera digitale portatile del regista d’inchiesta. Così facendo, Karmakar ha percorso l’intero ventaglio dei generi cinematografici: corti e lungometraggi, fiction e documentari, produzioni commerciali classiche e film autoprodotti, soggetti storici e contemporanei.
Da questa filmografia poliedrica e intensa si dipanano alcune linee di forza precise: in primis, l’estrema attenzione alla verità del luogo e del tempo. Nei suoi film, i personaggi sono rinchiusi in spazi circoscritti; i documentari, a loro volta, inscrivono i soggetti filmati in ambienti estremamente dettagliati. In Paese di sterminio (2003), Karmakar si spinge sino a contare i propri passi, con la videocamera in spalla, lungo il muro di cinta di un campo di sterminio nazista.
Pellicola dopo pellicola, il cineasta precisa la propria volontà d’investigare la nozione di lavoro, compreso quello del pensiero e della parola. Lavoro in tutte le sue accezioni, positive — quello del ricercatore protagonista de Ralf Otterpohl, esperto dell’acqua (2009), quello degli intellettuali di Attacco contro la democrazia (2012), quello del dj intento a preparare ed eseguire il suo set in Villalobos (2009) — o negative — la scuola di violenza per futuri mercenari di Warheads (1993), il verbo nazista ne Il progetto Himmler (2000), la predicazione salafita de I discorsi di Amburgo (2005).
In tutta la sua opera la parola gioca sempre un ruolo cruciale. Karmakar è in effetti l’inventore di un nuovo dispositivo, che potremmo definire “film discorsivo”. Così, ne Il progetto Himmler, un attore in borghese “legge” le tre ore di discorso del Reichführer-SS e, ne I discorsi di Amburgo, due ore di omelia dell’imam Fazazi. Se i testi sono sempre fedelmente documentari, le immagini sono invece puramente finzionali: è infatti l’attore Manfred Zapatka a interpretare i testi per restituire gli accenti di questi discorsi. A loro volta, i film girati in studio con più videocamere si configurano come dei documentari meta-cinematografici sulla loro stessa lavorazione. È questo lo strumento scelto da Karmakar per trasmettere allo spettatore queste parole d’odio e far sì che, dopo averle ascoltate, non possa uscirne indenne.
Queste opere così eterogenee, quest’osservazione minuziosa di personaggi reali o fittizi, sono chiamate a evocare quella verità dell’individuo che la videocamera ha saputo cogliere, che il cineasta non cessa di interrogare attraverso le sue scelte e la sua inesausta ricerca registica. Per evocare l’insopprimibile bisogno di una comunanza, sia pure illusoria e pericolosa; per mostrare l’impossibilità di ogni legame duraturo per questi uomini soli; per raccontare come l’essere umano cerchi, grazie al lavoro, di trasformare il mondo per trovarvi un posto.
Quello di Karmakar è un cinema di ricerca etica e politica. Una ricerca che trova un correlativo preciso nelle scelte cinematografiche del regista, nel suo rifiuto di lasciarsi assorbire in un sistema di produzione commerciale o in un formalismo estetizzante; il che spiega anche la sua attività creativa instancabile e proteiforme. Per Karmakar, non esistono piccoli film, a prescindere dalla loro durata o dal loro budget di produzione. L’ammirevole lungometraggio E la notte canta (2004), adattamento di un’opera teatrale del drammaturgo norvegese Jon Fosse, non è da questo punto di vista meno essenziale del breve e straziante documentario Ramses (2009). Sensibile alle nuove tecnologie di ripresa, il cineasta non esita oggi a usare il suo iPhone per immortalare, in un unico piano sequenza di quattro minuti, Un asino nella neve (2011), cammeo di pura poesia per immagini, testimonianza dell’alterità animale e della curiosità dello sguardo che anima l’uomo di cinema.
Lo stesso rifiuto di ogni gerarchia, corrispondente alla volontà di raggiungere pubblici diversi nel mondo intero, si ritrova nella moltiplicazione dei canali di diffusione dei suoi film: sale cinematografiche (La belva ferita, presentato nel 1995 e dedicato all’assassino Fritz Haarmann, fu un grande successo), piccolo schermo (La Croce di Francoforte, girato per Arte nel 1998), festival — come quelli di Venezia e Locarno, dove Karmakar ha ottenuto numerosi riconoscimenti —, musei (Il progetto Himmler è stato acquisito dal MoMA), edizioni in dvd, ma anche la sua pagina Facebook e il suo canale Vimeo, senza dimenticare l’imminente partecipazione alla Biennale di Venezia di quest’anno.
Lungi dall’uniformarsi alle convenzioni narrative del cinema commerciale di tutto il mondo, la ricerca politica di Karmakar è indissociabile da un progetto di diffusione che è, a sua volta, il pendant necessario della poliedricità della sua opera, come anche della pluralità di forme e di registri che ha sviluppato all’indirizzo degli spettatori.