Parola e segno, il binomio ossessione della filosofia novecentesca, oltre che della linguistica e della semiotica, ha inevitabilmente costituito una presenza muscolare nelle arti visive, in cui il “sistema” scrittura si manifesta e si palesa come fenomeno che è insieme metodo, medium, significante/significato – e si potrebbe continuare per associazioni, derivazioni ecc.
È proprio in questo momento storico in cui l’espressione, il linguaggio e i segni con cui comunichiamo col mondo sono radicalmente cambiati e continuano a farlo – da internet, all’AI, ai meme e al linguaggio delle piattaforme social della Generazione Z – che il Centre d’Art Contemporain di Ginevra, per la prima volta in collaborazione con la Collection de l’Art Brut di Losanna, riflette e assembla la mostra “Scrivere Disegnando. When Language Seeks Its Other”, titolo che a una prima lettura tende probabilmente a fuorviare e a ridurre l’intera ricerca, perché questa non è propriamente una mostra sulla scrittura, o meglio non una riflessione sulla scrittura come sistema esclusivamente da leggere. Quell’Altro è il vero soggetto-oggetto della collettiva che riunisce oltre novanta artisti – riscoprendo personalità come Emma Hauck, Aloïse Corbaz, Joseph Heuer, Jeanne Tripier, Adolf Wölfli – senza alcuna pretesa di forzare le opere presentate a stare e significare in un insieme.
L’esposizione piuttosto potrebbe funzionare come un frattale, e l’omotetia interna come quell’elemento sempre uguale che si ripete, che qui è il segno. È il segno a generare in ogni lavoro scale e livelli di rappresentazione differenti, che necessitano lo sguardo per cogliere “l’opacità, il lato in ombra, la dimensione simbolica, segreta e più esistenziale del fenomeno della scrittura” per citare Andrea Bellini, che a sua volta riprende Roland Barthes e l’illeggibilità quale paradosso e forza della scrittura. In questo senso si inquadrano le Scritture illeggibili di un popolo sconosciuto (5; 13; sn, tutte datate 1975) di Bruno Munari o la (gramatica dis-solvente) (1974) di Luca Maria Patella e ancora la Lettera a Mirella Bentivoglio (1986) di Enzo Patti; o le scritture eteree di Irma Blank Eigenschriften, Spazio 52 (1970), Trascrizioni, Dichtung Version IV (1974) Untitled (1975), hdjt ljr (2001) molto vicine formalmente agli Untitled (1996, 2002) di Michael Dave; o le scritture (2018) di Tchello d’Barros, e ancora gli inchiostri su carta di Betty Danon e i micro-moduli ornamentali di Greta Schödl Untitled (entrambi 1970 ca) – che anche qui possiamo associare per certi rimandi estetici alle carte di Barbara Suckfüll (Untitled, tutte 1910).
La scrittura si palesa e si cela in ogni stanza del CAC, tutte le opere si dipanano senza seguire un criterio cronologico, come un trovarobato per una messa in scena del segno che è anche immagine in movimento come nel video di Salome Schmuki Single Keys (2019) parte della ricerca più ampia Forms and Signs: Writing Is Repetition che riflette sulla codificazione del linguaggio, su come il segno è percepito; in questo senso le pitture acriliche su pellicole di poliestere trasparente di Steffani Jemison Same Time (2018–2019) o la serie di negativi fotografici su lighbox From India to the Planet Mars (1997‒2017) di Susan Hiller ne offrono alternative plastiche. Mentre l’opera audiovisiva nimiia cétiï (2018) di Jenna Sutela, documentando le interazioni fra rete neurale, registrazioni audio della prima lingua marziana e filmati dei movimenti dei batteri spaziali riflette sulla comunicazione interspecie, una nuova modalità di codificazione del mondo.