Marco Tagliafierro: I tuoi oggetti-scultura nascono come presenze che creano discontinuità con l’ambiente in cui vengono collocate? Devono suscitare in un luogo un’accelerazione di significato imprevista e improvvisa?
Sergia Avveduti: Il mio lavoro attinge dall’architettura e dalle relazioni spaziali, quindi il luogo espositivo ha un peso determinante nel confronto con l’opera. Ma, al di là della condizione site specific, spesso sono gli ambienti e gli oggetti che osservo a fornirmi la scintilla iniziale per impostare l’opera. Tempo fa mi avevano particolarmente colpito alcuni piccolissimi meccanismi di orologi antichi, che in seguito ho ricostruito utilizzando il legno, aumentandone la dimensione fino a farli diventare presenze consistenti nello spazio. È impossibile non osservarli da un punto di vista formale e considerare il mistero di una parte rispetto al tutto. Il cambio di materiale, dal metallo al legno, riporta quell’attrazione verso l’antico che inseguo da tempo, all’interno di un contesto quotidiano, normalizzato. Quindi i particolari acquistano un’importanza decisiva per me: le piccole anomalie, gli elementi imprevisti che colpiscono l’inconscio diventano un riferimento da cui far nascere successivi sviluppi.
MT: A mio parere il tuo lavoro spinge lo spettatore a vedere il mondo come un luogo sensoriale, prima ancora che sociologico, politico e intellettuale. Che ne pensi?
SA: La presenza fisica delle cose è importantissima, ma è solo un tramite per raggiungere dimensioni psicologiche in continuo cambiamento. La tua affermazione dunque è in parte vera. Dirò un’ovvietà, ma un’opera astratta di Theo Van Doesburg è molto diversa rispetto a una di Anish Kapoor, nonostante manchino riferimenti sociologici o politici diretti. Le tensioni emotive e sensoriali contenute in un’opera, anche astratta, raccontano molto della realtà dell’artista e del suo periodo storico. Spesso, nel riplasmare le forme, metto in campo una tensione minimalista che non ha niente a che fare con l’impostazione del minimalismo storico, anche perché le condizioni sociali e culturali di oggi sono estremamente differenti da quelle del passato. Allo stesso modo, la geometria che propongo nei fotomontaggi elaborati a partire da immagini del Touring Club degli anni Trenta racconta una sensibilità contemporanea, benché il soggetto sia retrò.
MT: Le modalità operative che metti in atto per affrontare la categoria dell’“antico” si riferiscono solo al trattamento dell’immagine?
SA: No. Alla citazione in quanto tale preferisco una strategia concettuale più approfondita. Per esempio: talvolta scelgo delle immagini di quadri antichi in cui vi è un particolare che mi colpisce profondamente, poi procedo al computer modificando alcuni aspetti dell’immagine legati a quel particolare, verso una dimensione più astratta. In questo modo l’antico è visto con uno sguardo decentrato e diventa un filtro per produrre slittamenti di senso e disordini emotivi. Questo è il risultato finale che mi interessa raggiungere; per arrivarci, lavoro su un’idea che genera un progetto e mai viceversa. Per questo a prima vista il mio lavoro può sembrare disomogeneo, ma in realtà ha un senso di coerenza fortemente radicato nel legame tra l’inconscio e l’idea che conduce al progetto. Ho scelto di procedere in questo modo alla mia prima personale, nel 1999, quando era ancora rischioso mettere in campo la dimensione storica, dopo l’imperversare degli anni Ottanta. Credo ci sia una differenza abissale tra chi si rapportava con l’antico negli anni Settanta e Ottanta e chi lo fa oggi.
MT: La tua pittura sembra il risultato di una serie di pennellate stratificate. Osservandola con maggiore attenzione, però, si scopre che alcuni strati sono dati dall’utilizzo di riproduzioni fotografiche sulle quali sei intervenuta con il pennello. Questa presa di coscienza porta con sé un cambio di prospettiva e l’attenzione dello spettatore si concentra sul singolo frammento, invece che su una visione d’insieme. Sei d’accordo?
SA: Senz’altro. È un risultato ottenuto attraverso un percorso preciso. La scelta di scannerizzare immagini di artisti celebri, in cui certi aspetti minimi mi emozionano, può svilupparsi in due direzioni possibili. Talvolta modifico e rielaboro al computer l’immagine iniziale e il risultato ottenuto può essere stampato così com’è, in quanto piccola immagine digitale. Questi lavori di piccole dimensioni sono per me come dei codici miniati. Altre volte, invece, sento l’esigenza di procedere oltre e realizzare un dipinto. L’immagine digitale, in questo caso, costituisce un semplice suggerimento visivo esterno, che sulla tela si traduce in qualcosa d’altro, perché definito con le possibilità espressive proprie della pittura. Le pennellate si sovrappongono, come tu suggerisci, all’interno di una ricerca estetica del particolare. Come in Pitagora, nel quale un uomo-lupo si muove all’interno di un paesaggio algido con in braccio un bouquet di frutta. In passato ho modificato più volte il percorso concettuale che porta alla pittura, adattandolo alle mie esigenze, al raggiungimento di un risultato finale prefissato. Invece, dal punto di vista della rappresentazione, in questo momento mi interessa dare forma a presenze misteriose, proiezioni liquide e rarefatte, come in Tendenza all’instabilità, che raffigura una parata di lampade e geyser attivi su una distesa innevata. La forza del fenomeno naturale si connette all’atmosfera generata dalle condizioni di luce, costituite da bagliori e riverberi. Il geyser diventa a sua volta come una lampada, un punto luminoso nell’energia degli elementi.
MT: Per te ogni fenomeno è fantastico?
SA: Alcuni fenomeni possono contenere la dimensione del fantastico: mi riferisco a fenomeni lievi, a volte banali, normalmente trascurabili. In questi piccoli scenari si può aprire un varco che conduce altrove. Naturalmente l’esperienza personale costituisce un filtro, un’adesione emotiva che spinge verso qualcosa d’altro. A volte tutto ciò avviene a livello intuitivo, in modo tale che, isolato il nocciolo estatico, lo si può vivere in tutta la sua forza e in tutte le sue possibili trasformazioni. Questo è accaduto, per esempio, per i meccanismi di orologio di cui ti raccontavo. Negli sviluppi successivi, la suggestione inizialmente leggera, delicata, ha subito delle trasformazioni a contatto con altri stimoli. Sono giunta ora a un ultimo passaggio nel quale la forma del meccanismo, realizzato in legno, si trasfigura in quella di un tavolino. Ma su questo nuovo oggetto ho poi innestato un ramo di betulla, con una parte sferica sulla sommità rivestita di passamaneria multicolore. L’interferenza è nata da un interesse verso soluzioni che sfiorano le specificità della moda e del design. La dimensione del fantastico a volte la ritrovo in particolari minimi, altre volte la posso rintracciare in forme emotivamente più coinvolgenti. Come nel caso di un pulpito, che porta con sé una serie di connotazioni molto forti, provenienti da lontano. Il risultato in questo caso è un lavoro del 2002, intitolato Osso, pulpito, costituito dalla sezione frontale di un pulpito in legno di noce collocata in modo perfettamente aderente alla parete, in un’alterazione della percezione prospettica. Ho pensato di schiacciare questa forma sulla parete, come fosse un’ombra, una presenza potente o una sorta di monito severo. Ma in questo caso non vi sono implicazioni religiose particolari, è semplicemente la forza evocativa di quel prelievo che viene intensificata in una dimensione più astratta e formale.
MT: Che ruolo giocano emotività e inconscio nel tuo modus operandi?
SA: Hanno un ruolo di primissimo piano. Mi sento estremamente distante da quegli artisti che pianificano e chiariscono esteticamente ogni passaggio del loro lavoro, come se tutto si riducesse a un consenso raggiungibile attraverso una bella spiegazione coerente. Per esempio, Federico Fellini, Stanley Kubrick o Michelangelo Antonioni erano sempre latitanti quando si chiedeva loro di giustificare le scene più visionarie dei loro film. Credo nell’impatto emotivo dell’opera che colpisce l’inconscio. Questa esperienza profonda non è traducibile in una singola lettura risolutiva e unificante fornita dall’artista. È giusto che sia la critica a ipotizzare diversi percorsi di lettura. Tutt’al più, mi interessa raccontare i passaggi organizzativi, i risvolti tecnici che portano all’opera, ma la spinta che emerge dall’inconscio nel momento in cui scatta la scintilla iniziale non è razionalizzabile, almeno per me.