Prima di essere considerato un luogo divisivo, prima che diventasse il teatro delle più tragiche migrazioni economiche e politiche, o prima ancora che si distinguesse come l’osservatorio di un lento e inesorabile deperimento ambientale e biologico, il Mediterraneo è stato soprattutto il “Mare tra le terre”: un luogo non certo estraneo ai più efferati conflitti, ma sicuramente aperto all’incontro e al confronto. Miti, leggende, storie e cronache antiche narrano di fiorenti civiltà affacciate sulle sue sponde, di estenuanti spedizioni di ricerca, di redditizie rotte commerciali o di prepotenti divinità capaci di decretare la fortuna di qualsiasi impresa marittima. Il Mediterraneo cioè, per parafrasare il titolo della prima mostra italiana di Simone Fattal, è stato metaforicamente attraversato da una leggera “brezza” culturale in grado di unire popoli e territori sotto un unico spirito identitario. E forse lo è ancora: perché ad attraversare gli austeri spazi industriali dell’ICA di Milano organizzati dall’artista libanese, si è circondati da una comunità di stravaganti figure in ceramica che, nonostante la loro esuberante diversità cromatica, formale e simbolica, convivono come fossero unite da uno stesso, bizzarro destino. Si tratta di una tipologia di lavori che contraddistingue la pratica di Fattal almeno dagli anni Ottanta – quando l’artista si trasferisce a San Francisco dopo aver lasciato il Libano piegato dalla guerra civile – ma che, soprattutto in questa specifica configurazione, ha la capacità di veicolare una narrazione temporalmente stratificata, sospesa tra memorie personali e collettive. L’intero progetto è infatti ispirato alla civiltà di Pompei che, assunta dall’artista come modello universale di vivace e pacifica multiculturalità, è omaggiata con un palinsesto di iconografie contemporaneamente prelevate da lontane mitologie pagane o più semplicemente riferite a fantastici mondi naturali.
Com’è tipico di Fattal – che anche in disegni e collage predilige un’estetica frammentata – i modellati a cui spetta il compito di questa immaginifica ricostruzione appaiono come reperti di un’archeologia primitiva. Non solo perché l’argilla di cui sono fatti è probabilmente il più antico materiale utilizzato dall’uomo per le sue creazioni artistiche ma perché le loro fattezze, così velocemente sbozzate, sembrano il risultato di una gestualità arcaica e primordiale, addirittura merito di agenti naturali piuttosto che umani. Ben lungi dal fingersi solo antichi reperti, tuttavia, queste sculture sono il simbolo di una contemporaneità discorsiva e dialettica, capace di costruire nuovi livelli di immaginazione all’incrocio di estetiche eterogenee. A ben vedere, in effetti, che siano alte come una figura umana o si reggano sul palmo di una mano, le ceramiche di Fattal funzionano soprattutto da reliquie di un tempo sospeso: nello stesso momento in cui la loro presenza rimanda al mondo pompeiano o la loro morbidezza materica alle ricerche moderniste di inizio Novecento, il loro carattere totemico, simulacrale, riesce a restaurare una mediterraneità unificante, urgente e solo momentaneamente sopita.
Anubis (2021), per esempio, il dio egiziano protettore dei morti, è rappresentato da Fattal con due grosse gambe pachidermiche che sostengono uno stentato profilo canino. Campeggia sugli altri frammenti ricordando il tragico destino della civiltà partenopea ma, con la sua simbologia geroglifica – un nastro di colore blu–, sembra un protettore benefico piuttosto che un presagio di sventura. Pliny the elder (2021), invece, narratore e vittima dell’eruzione vesuviana, è una figura snella e un po’ grottesca che, color arancio come un lapillo vulcanico, si rapprende smaltato su un plinto di ceramica nera. Intorno a queste due figure – tra alberi monumentali, sagome umane e simbologie più o meno codificate – si dispongono i lunghi cordoli d’argilla della serie “Arch” (2021) che, a forma di ponte, fanno materialmente quello che spetta a Hermes (2021): collegano e (ri) uniscono culture e credenze differenti. Il dio con le ali ai piedi e messaggero della Grecia classica sorveglia infatti questa festosa comunità e, anche a riposo, seduto su un blocco di ceramica, sembra continuare a cavalcare una benefica brezza tra le sponde del Mediterraneo.