Il fumetto italiano sta vivendo un bel momento, anche a livello di mercato, e nei bei momenti il tempo passa velocemente. Gli emergenti di ieri – perché sembra davvero ieri quando autori come Ratigher, Tuono Pettinato o Dr.Pira calcavano i festival delle autoproduzioni – sono i protagonisti di oggi; per non parlare di chi, come Zerocalcare, ha bruciato le tappe passando dai webcomic ai best-seller nel giro di pochi mesi. Viene allora naturale chiedersi, e chiedere in giro, quali siano le successive promesse a cui guardare. E un nome che emerge spesso è quello di Spugna, al secolo Tommaso Di Spigna (Brescia, 1989; vive a Milano).
Qualche tempo fa decisi di documentarmi su chi fosse e cosa facesse e mi imbattei in un blog dove si avvicendavano disegnini truculenti. Vi ritrovai quel certo gusto del macabro e dell’azione (leggi: sgozzamenti ed eviscerazioni) da cui tutti passiamo nella preadolescenza; ma sul momento – a parte uno stile dall’impronta già specifica – le vignette di Spugna non mi lasciarono impressioni particolari.
Capii di essermi sbagliato quando mi ritrovai per le mani quella che è stata la prima opera in volume di Di Spigna, dopo una formazione tra la scuola di fumetto e le autoproduzioni: Una brutta storia (Grrrzetic, Genova 2014), premiata al Treviso Comic Book Festival nella categoria “rivelazione”. Se la copertina – un uomo dall’aria combattiva nonostante un’àncora conficcata in faccia – suggeriva lo stesso gusto buffamente truculento già notato sul blog, a prima vista anche il fumetto, che si apriva con un duello a mani nude in una qualche bettola dal vago sapore marinaresco, andava nella medesima direzione. Tuttavia, pur nella programmatica linearità della storia – il protagonista è parte di una ciurma che partirà alla volta di un’isola del tesoro, la quale, però, si rivelerà infestata da mostri facenti capo a una più grande e pervasiva entità malefica, costringendo i marinai a una rotta sanguinosa – vi si intuisce qualcosa di più profondo: non solo una vena lovecraftiana nella natura di quel “male” presente nell’isola, ma una addirittura hemingwayana in una certa epica del confronto con le forze più assolute. Pure, ciò non bastava a spiegare l’oscura fascinazione lasciatami dalla lettura di quella storia: erano solo “ometti che se le davano”, eppure…
È con The Rust Kingdom, uscito per Hollow Press in occasione di Lucca Comics & Games 2017 e andato esaurito già durante la fiera, che la natura intertestuale e lo spessore dell’opera di Di Spigna mi si rendono chiari. Che ci sia una crescita netta lo rivela già l’uso del colore: un digitale dalle tinte sature, rese aderenti alla natura “organica” di personaggi e luoghi dalle texture a macchie di acquerello. Il tutto su sfondi di grande violenza cromatica in cui appare evidente la valenza narrativa, e non solo descrittiva, che il colore ha per questo autore; sfondi che dalle prime pagine presentano un mondo desolato e infetto, in cui cadaveri giganteschi ospitano umanoidi simili a larve, in un panorama che sta tra i pianeti alieni delle riviste pulp e gli orizzonti deliranti di Bosch.
Appena l’azione entra nel vivo – un’orda di predoni attacca in massa un uomo avvolto da una cappa, finendo massacrata in pochi attimi – si esplicitano i primi riferimenti narrativi di The Rust Kingdom: quella a cui stiamo assistendo è la versione distorta di una scena di Ken il guerriero; mentre il protagonista, che non uccide con le mani come Kenshiro ma con una spada, rimanda al Gatsu del Berserk di Kentaro Miura (la stazza, invece, unita al gesto di prendere per sé il cappello di un morto, ricorda un altro grande “menatutti” della storia del fumetto, il Marv del Sin City di Frank Miller: lì c’era di mezzo un cappotto).
«Fra le mie influenze truculente», racconta Spugna, «la lettura di Berserk è stata una delle più formative. Miura ha un’estetica della violenza impareggiabile e quando si tratta di massacri le sue tavole sono una festa per gli occhi. Anche per quanto riguarda la fantasia nella scelta di forme per mostri, organismi, e qualunque cosa sia crudele e ripugnante, è un vero pilastro. In Una brutta storia, tutta la seconda parte è un delirio body horror che affonda le sue radici anche nella splendida (e tremenda) sequenza dell’eclisse di Berserk».
Se influenze del genere, visto il taglio del lavoro di Spugna, possono risultare naturali – lo stesso Miura è un grande intertestualista: il primissimo Gatsu è figlio tanto di Kenshiro quanto di Devilman, come pure del Navarre di Ladyhawke e del Madmartigan di Willow – stupisce invece trovare nei baffi di un mago di The Rust Kingdom, temporaneamente reso alla carne da un aspetto scheletrico, e ancor prima nelle fattezze del marinaio protagonista di Una brutta storia, stilemi che sembrano arrivare da Elzie Crisler Segar, il creatore di Braccio di Ferro. Un’impressione che trova conferma in una storia breve di Spugna apparsa sul volume antologico GNAM (B Comics, 2015) la cui figura centrale è l’enorme Poldo Sbaffini. «ll Popeye di Segar», spiega Spugna, «è uno dei miei primi e inesauribili grandi amori. Una brutta storia nasce proprio come omaggio distorto alla figura reale che ha ispirato Segar per creare Popeye, tale Frank “Rocky” Fiegel: volevo prendere quell’immaginario avventuroso fatto di scazzottate e umanità furbacchiona e trasformarlo in qualcosa di più estremo. Poldo Sbaffini, poi, è quasi un animale guida: un essere così bieco ed egoista che fa il giro e diventa un santo. Me lo sono tatuato su un braccio, tanto mi è adorabile nonostante il suo essere un verme».
La narrazione di Spugna non si limita all’intertestualità ma arriva anche alla crossmedialità, non solo rispetto ad arti tradizionalmente imparentate col fumetto come il cinema o i cartoni animati: quando in The Rust Kingdom il protagonista scaglia una tempesta di spade contro il suo avversario, lo fa agendo su una vera e propria icona, come fosse il potere speciale di un personaggio dei videogiochi. Spugna viene a confermare tale impressione: «Sono grande fan di certi vecchi videogiochi, specialmente picchiaduro, quindi in un certo senso mi è rimasta quella semplicità estrema di movimento/azione/botte che è propria dei loro protagonisti; in ogni caso, credo si tratti sempre di cicli che partono da un linguaggio e vanno a influenzarne altri per poi tornare indietro».
Ma per quanto ammirevole sia il modo in cui Spugna – «rispondendo a un’urgenza quasi adolescenziale, casinara e ipertrofica», integra un linguaggio grafico raffinato con la semplicità brutale dei disegnetti trucidi che potevamo fare a scuola – quello che dà al suo lavoro uno speciale spessore è un talento nascosto per il cosiddetto worldbuilding, metafisiche incluse: se in Una brutta storia questo aspetto è gestito attraverso la sola lezione di Lovecraft, in The Rust Kingdom si ha un gioco di rimandi più complesso: «Ambientando la storia in un mondo fantasy grottesco», racconta Spugna, «ho voluto suggerire tutta una serie di squarci nella sua mitologia, ma sempre restando sul vago. Da una parte, per evitare di creare una lore troppo barocca, come quelle che si vedono in certi videogiochi; dall’altra perché volevo che fosse una terra davvero cupa e senza scampo. Si tratta di un mondo da incubo, figlio di tutta una serie di altri mondi provenienti da molti fumetti, videogiochi, e anche wargame e giochi di ruolo».
È proprio da questa sovrapposizione di layer e riferimenti, attuata con una naturalezza che la rende a prima vista invisibile, che Spugna riesce nel compito non semplice di offrire un’opera capace di soddisfare, allo stesso tempo, i cultori più raffinati del fumetto d’autore e chi, invece, vuole solo divertirsi con un tripudio di violenza, tra lo splatter e il cartoon.