C’è un collegamento macroscopico fra l’idea di “Techno” e il suo exhibition design. Parlo di una riflessione sull’infrastruttura digitale e sul suo ruolo tecno-egemonico in relazione alle tre categorie di libertà, compressione ed esaurimento, in cui la techno si relaziona con la condizione umana contemporanea. I pannelli montati su racks destrutturati della mostra, rimandano ai sistemi standard d’installazione fisica di componenti hardware che rendono possibile il contenimento degli apparati di rete quali server, switch e router. In questo caso sulle strutture di metallo “girano” i lavori esposti, incapsulando l’arte in un livello di complessità evolutiva da cui parte l’idea stessa della mostra.
Bart van der Heide, direttore di Museion e curatore della mostra – in collaborazione con un team di ricerca composto tra gli altri da Francesco Tenaglia, Florian Fischer e Frida Carazzato –, prova a strappare via la techno dal contesto subculturale di genere musicale post-industriale, appropriandosi di un fenomeno sino a connetterlo ai trend sociali e politici della contemporaneità come la globalizzazione e il libero mercato. Tutto nasce dalla coincidenza dell’affermazione cronologica della techno nella Detroit delle dismissioni industriali e l’ascesa del neoliberismo, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Un lasso di tempo in cui la coincidenza dei due fenomeni si sovrappone a una rinnovata concezione del concetto di umanità. La technologic music nasce idealmente dal tramonto del “sole dell’avvenire”, in una svolta che precipita la società intera nell’opacità di un presente che si avvia a un’artificialità anaerobica come quella della luce verde deterritorializzante in cui resistono gli Spectral Keepers (2020) di Sandra Mujinga. In questa artificialità il tempo non è più scandito dall’alternarsi dei fenomeni astrali, ma dal battito dei sistemi di misurazione atomica che richiamano quelli del ritmo/tempo della techno come in True Time Master (2019- 2020) di Yuri Pattison. A questo punto è chiaro che la techno è un viatico per la contemporaneità, uno delle tante autostrade neuronali della condizione post-tecnologica in cui gli schermi ci hanno reso cechi e in cui il cinematic della macchina stupida de Los Bagneur (Poordysseus) (2018) di Paul Chan è una reazione alla fatica umana nel dover gestire il mondo attraverso device tecnologici.
La compressione tecnologica dà forma a una vita modellata sull’efficienza resa possibile dal consumo, l’artista Sung Tieu restituisce questo stile di vita in Loveless (2019) in cui i residui materiali di una pausa pranzo vengono abbandonati su quei tavoli d’acciaio indistruttibile che si possono trovare indistintamente sia nei caffè di mezzo mondo che nei complessi carcerari. L’essere umano, in qualità di catalizzatore evolutivo, riconosce ma non ammette la dimensione ciclica della biosfera, “Techno” non sembra ammettere un’esistenza possibile post-tecnologica. L’uomo si imprigiona sino ad esaurirsi, e siamo giunti alla terza dimensione categorica della mostra in cui lo smarrimento nel labirinto, in questo caso quello gonfiabile di Devotion Strateg (2020) di Jan Vorisek, ci conduce ad un altro labirinto – in video stavolta – da cui non c’è via d’uscita. Questa ciclicità sembra essere volta alla distruzione come nella trivella Untitled (2021) di Mire Lee, e alla dipendenza dalle risorse, come nell’installazione Children (2019) di Ghislaine Leung in cui una lucina da notte e un calorifero dipendono dall’autonomia di una batteria. Ovviamente la mostra non ha nessuno sguardo retroattivo o nostalgico, sembra evidente che per quanto possa essere allettante pensare di tornare a un riequilibrio delle cose, questa resta una possibilità impraticabile che ci lascia però con l’amarezza di una condizione, quella che Riccardo Benassi chiama Morestalgia (2019), in cui la presenza costante del passato è poco più di un rimpianto inconsapevole. In definitiva la mostra – prima di un ciclo che vuole indagare la relazione tecnologia e umanità – è l’inizio di una marcia verso un futuro in cui a essere ignota è proprio la formula dell’equilibrio. Una nextnature,1 come la definisce Koert Van Mensvoort, in cui alla costruzione della tecnosfera e al mantenimento della biosfera, fa da base comune la condivisione degli spazzi del pianeta Terra. Un percorso di conoscenza in cui al rimpianto per l’evoluzione va sostituita la consapevolezza della sua inevitabilità.