Hou Hanru: Quando ho visitato il suo studio per la prima volta, Cao Fei si era appena diplomata all’accademia. I suoi genitori erano figure note in Cina, entrambi scultori molto classici e insegnavano nel suo stesso istituto scolastico. Il suo studio si trovava all’ottavo piano senza ascensore, quando sono arrivato ero esausto. Cao Fei mi ha mostrato una sua opera, un video che stava realizzando e che ha subito catturato la mia attenzione: Imbalance 257 (1999). Mi sono innamorato di quel lavoro incredibile.
Hans Ulrich Obrist: Sei stato tu a mettermi in contatto con lei. Pochi giorni dopo ero totalmente consapevole del lavoro! Vorrei chiedere a Cao di raccontarci di più sulla sua produzione di quel periodo, che immagino sia pre-cosplay.
Cao Fei: Uno dei miei primi lavori, che Hou ha appena nominato, Imbalance 257, è legato alle esperienze che ho vissuto all’Accademia di Belle Arti di Guangzhou e ai suoi studenti. Grazie al supporto, tuo e di Hou, il periodo tra il 1999 e il 2005 è stato cruciale per la mia carriera. Artforum pubblicò un articolo sul mio lavoro, che includeva Cosplayers (2004), proprio nel momento in cui entrambi avete iniziato a supportarmi.
HHR: Io e Hans Ulrich abbiamo curato la seconda edizione della Triennale di Guangzhou nel 2005. Il tema riguardava l’area intorno a Guangzhou, dal centro verso Hong Kong – l’area del delta del fiume delle Perle – e come questa fosse una specie di laboratorio della modernizzazione della Cina. L’urbanizzazione è stata sicuramente al centro di questo processo. All’epoca chiedemmo a Rem Koolhaas e tanti altri di condividere la propria visione rispetto alla trasformazione della città e della regione. Cao Fei ha dichiarato di essere stata influenzata da questo scambio di idee internazionali e locali circa l’urbanizzazione. Successivamente l’abbiamo aiutata a sviluppare diversi progetti, partendo da una pièce teatrale in stile programma televisivo intitolata PRD Anti-Heroes (2005).
Mi ricordo anche che quando ho incontrato Cao, oltre a Imbalance 257, vidi le sue prime sceneggiature teatrali. Rimasi impressionato da una performance che aveva diretto e interpretato nel 1995, era praticamente una ragazzina, ma aveva già iniziato a scrivere e dirigere pièce teatrali. PRD – Anti Heroes è una performance della durata di 90 minuti che coinvolge almeno sessanta persone, che ovviamente parlano in cantonese. Dal quel momento in poi, ha realizzato molti altri lavori, come l’ormai noto Whose Utopia? (2006). Molto di tutto questo si riflette nella sua ricerca sulla trasformazione della zona del delta del fiume delle Perle, quel laboratorio che ha reso la Cina ciò che è oggi.
HUO: Trovo che questo sia molto interessante perché la città ha avuto un ruolo fondamentale. Cao, i tuoi primi lavori sono molto legati a Guangzhou e all’idea di una mutazione estrema della città, della sua trasformazione. Mi ricorderò sempre di quando l’abbiamo visitata insieme per la prima volta: non ci tornavi da sei mesi e non riuscivamo a trovare la casa dei tuoi genitori. Anzi, tu non riuscivi a trovarla perché la città era cambiata così tanto e così rapidamente. L’idea di un’urbanizzazione veloce, della mutazione e della trasformazione, ha rivestito un ruolo molto importante. Puoi raccontarci qualcosa della città? Perché è centrale anche in “Blueprints”, la mostra alla Serpentine che abbiamo realizzato lo scorso anno, non solo per quanto riguarda la realtà virtuale, ma anche e soprattutto nei film più datati che abbiamo proiettato.
CF: Sono cresciuta a Guangzhou negli anni successivi alla politica dell’Open Door, quindi sono stata travolta da molta cultura e interessi esterni. Tra la scuola primaria e la scuola secondaria, e in seguito durante i miei anni all’accademia, ho osservato a lungo i drastici cambiamenti provocati dall’urbanizzazione e dalla globalizzazione. Camminavo per i campi per andare a scuola, la città era un’area ancora molto rurale. Questi campi nel tempo si sono trasformati in grattacieli, quindi in un ambiente ad alta urbanizzazione. Dopo molti anni di osservazione, quando frequentavo già l’accademia, ho riversato la mia esperienza nelle mie opere. Vale la pena menzionare il 2003 e il mio progetto alla Biennale di Venezia, focalizzato sulla riorganizzazione estrema dell’area del delta del fiume delle Perle. Chiaramente la città e la sua urbanizzazione sono motivi ricorrenti nella mia opera, che sia reale o virtuale o in un mondo parallelo. In RMB City (2008) o La Town (2014), così come nei miei lavori più recenti come Nova (2019), queste temporalità e realtà sovrapposte si connettono sempre su determinati livelli, ancora e ancora.
HUO: È interessante come alla Triennale di Guangzhou sentissimo la necessità di andare oltre la cultura del singolo evento e realizzare una mostra che producesse anche una realtà. Abbiamo realizzato una mostra che poi è diventata un museo permanente, e che esiste tuttora. E questo, ovviamente, è stato possibile grazie al dialogo con Cao.
HHR: Penso che quella sia stata una delle esperienze più straordinarie che si possano vivere. Siamo stati molto fortunati a curare quella edizione della Triennale. Abbiamo analizzato la trasformazione urbana della città attraverso la teoria, il dibattito, l’impegno degli artisti, e così via, invitando artisti e architetti, e siamo stati fortunati anche perché il museo, in quel momento, stava lavorando con uno sviluppatore per costruire un’estensione nel sobborgo di Guangzhou. Abbiamo avuto l’idea ambiziosa di invitare Rem Koolhaas a progettare il museo. Non si trattava di progettare un nuovo ed elegante edificio iconico, ma di provare a elaborare un nuovo concetto di istituzione pubblica, un’istituzione del futuro, e di ciò che può rappresentare in un contesto di trasformazione urbana. Rem ha vistato il sito e poi ha fatto la sua proposta, che era incredibilmente innovativa e allo stesso tempo impegnativa. La collocazione dell’edificio museale era prevista al centro del cortile di un complesso di grattacieli residenziali. Ma Rem non voleva farlo lì perché in questo modo il museo avrebbe servito solo gli abitanti del complesso che godono di buone condizioni economiche, relativamente parlando.
Ma come potevamo immaginare un museo che servisse l’intera città, che avesse un contatto diretto con la strada, vale a dire un vero museo pubblico? Nel frattempo, gli edifici erano già in costruzione; era impossibile trovare un sito libero nel lato che affacciasse sulla strada, allora Rem ha pensato di inserire il museo all’interno dell’edificio residenziale. A diversi livelli del piano terra, al quattordicesimo e al diciannovesimo piano, ha deciso di inglobare le strutture istituzionali, che dovevano innestarsi nella palazzina residenziale privata. È diventata una faccenda molto complicata. Secondo i tradizionali regolamenti urbani, tutto questo è illegale. Abbiamo quindi iniziato a negoziare con l’amministrazione cittadina per attivare questo incredibile confronto tra spazi pubblici e privati. Anche questo è un riflesso di quanto sia rapida l’urbanizzazione dell’area del delta del fiume delle Perle. Molto spesso, la pianificazione “ufficiale” avviene a progetti già avviati. È ciò che io chiamo “processo di post-pianificazione”.
Questo ci ha portato a ripensare il significato del museo per la città e per gli artisti. Abbiamo deciso di fare del museo non solo una macchina per la produzione artistica, ma anche un sistema per la comunità locale. Lo abbiamo chiamato Times Museum e continua a funzionare come una delle piattaforme principali della creatività contemporanea della regione. Recentemente è stata inaugurata una nuova sede del Times Art Center a Berlino, si tratta di un esperimento e del primo caso di un museo non europeo ad avere un’estensione in Europa. Il punto non è aprire un nuovo spazio, ma costruire una piattaforma per lo scambio culturale e artistico all’interno un contesto diverso.
HUO: Sentivamo la necessità di pensare a modi diversi di utilizzare le risorse in termini di sostenibilità, che è molto importante oggi, e lo era anche allora, così abbiamo reso la biennale un progetto a lungo termine che vivrà ancora per diversi decenni. Vorrei chiedere a Cao di parlarci del suo film Nova, perché ha diretto Cosplayers poco dopo che ci siamo conosciuti. A quei tempi, il tuo lavoro era già legato alla ricerca, alla documentazione e alla fiction. Nova è un film di fantascienza, ma si ispira chiaramente alle storie individuali e collettive della comunità del distretto a Nord-Est di Pechino. Cosa puoi dirci di questa ricerca e di come l’hai trasferita all’interno della realtà fantascientifica di Nova?
CF: All’ingresso di “Blueprints” (2020) alla Serpentine Gallery abbiamo ricostruito un’ambiente dell’Huhuang. C’è una foto della Huguang Guild Hall (Hongxia Theater), il teatro dell’Opera di Pechino. Intorno al 2008, quando ho visto l’edificio, ho notato che c’era uno spazio vuoto che ho pensato di occupare con uno studio per due o tre anni, per vedere cosa potevo farci. Nello stesso anno tutte le attività del teatro si sono fermate, quindi ci sono tornata nel 2015, e da allora sono trascorsi altri cinque-sei anni. Molti avrebbero guardato il teatro e probabilmente pensato: “Ho bisogno di questo spazio per fare un film”. Io invece mi sono immersa completamente nella storia del teatro, in tutte le sue storie, nei retroscena e in tutto ciò che gravita attorno ad esso, per enfatizzarla e portarla nello schermo.
Presentare un film all’interno di un festival potrebbe ridurne il significato, anche solo per il fatto che ha bisogno di essere contestualizzato. Per questo è stato molto importante per me ricostruire lo spazio del teatro Hongxia. Molte persone potrebbero chiedersi il perché ci siano dei computer nel film, o perché ci sono degli scienziati sovietici. Nel periodo in cui visitai il teatro, nel Distretto 798 c’erano molte fabbriche. Oggi è il distretto dell’arte, ma un tempo, le prime industrie di Pechino vi producevano macchine, prodotti di elettronica e computer. Nel film ho voluto catturare la storia e il passato del teatro, così come il suo rapporto con le fabbriche. Il film è ambientato sulla scia della Guerra Fredda: c’è una connessione tra i computer, il supporto dell’Unione Sovietica, l’importanza del teatro e la proiezione dei film. Ho cercato di legare insieme tutti questi elementi.
HUO: Volevo farti una domanda che ha a che fare con i viaggi nel tempo, una sorta di teletrasporto. In particolare, vorrei chiederti della figura del fantasma: lo scienziato si trasforma in un fantasma digitale e questo permette alla narrazione di viaggiare nel tempo, diventando anche uno spettro della storia. Qual è il suo ruolo e perché è così importante?
CF: Il padre, ovvero lo scienziato, utilizza il computer per trasformare suo figlio in un fantasma, in uno spettro. Quando sono entrata nel teatro Hongxia per la prima volta ho notato che sulle pareti c’erano ancora i resti di un vecchio impianto acustico. Tutti quei rumori bianchi e i suoni, tutti gli strati tangibili e intangibili di storie sono culminati in qualcosa di simile a uno spettro.
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Daniel Birnbaum: Se quello che dice John Cage è vero, l’arte è un sistema di allerta precoce, la cui funzione è quella di prepararci per il mondo di domani. Le tecnologie immersive attuali, la realtà virtuale (VR) e la realtà aumentata (AR) possono cambiare le modalità attraverso cui esperiamo l’arte? Penso che il potenziale sia enorme, e che tutti questi strumenti siano essenziali per lo sviluppo di nuove forme di cultura e scambio visuale internazionale. The Eternal Wave (2020) è un’opera di realtà virtuale che Fei ha presentato all’interno di una mostra retro-futuristica alla Serpentine Gallery di Londra. In questa narrazione fantascientifica sui primi computer, sui viaggi nel tempo e sulla storia romantica tra un russo e uno scienziato cinese, vi è implicita una comprensione del tutto nuova della presenza locale e globale. La galleria stessa sembra essersi trasformata in un terminale sperimentale che collega dimensioni spaziali e temporali eterogenee.
L’esperienza della realtà virtuale ha inizio all’interno di una riproduzione su scala reale di una modesta cucina pechinese, ma presto si è trasportati in un viaggio onirico in altre sfere. Alla fine del percorso, si ritorna nella cucina, ma questa volta con il ricordo delle versioni cinematografiche e virtuali dello stesso spazio e dei suoi personaggi, che potrebbero essere stati avatar in un universo virtuale multi giocatore.
Successivamente abbiamo aggiunto una versione interattiva in realtà aumentata dello stesso lavoro. Con alcune modifiche, la mostra di Hyde Park sarebbe stata collegata virtualmente a mostre parallele con spettatori in luoghi distanti fra loro, così da creare un labirinto immaginario che ricorda le creazioni speculative di Jorge Luis Borges. Questi progetti che utilizzano la realtà virtuale e aumentata cambieranno la struttura del mondo dell’arte?
CF: Pensa a Second Life. Perfino mio figlio, oggi, gioca a diversi videogiochi online o sui social network, come Minecraft o Roblox. Tutti i bambini e gli adolescenti ci giocano. È come se fossero una seconda versione semplificata di Second Life a cui gioca però una generazione più giovane. Ma se analizziamo la tecnologia utilizzata dalla comunità virtuale, non vedo differenze sostanziali rispetto a quella di Second Life. Quando mi hai invitato a partecipare al progetto di cui stiamo parlando, a realizzare qualcosa con la realtà virtuale, era il 2016. Forse ora stiamo facendo qualcosa di più, mi sembra che siamo arrivati all’apice di questa tecnologia difficile da sviluppare. Nonostante passiamo così tanto tempo sulle piattaforme virtuali dei social media, ci sentiamo estremamente soli. Siamo consapevoli del fatto che un’intera generazione sia andata perduta, non riesco nemmeno a immaginare la generazione dei miei figli. Tutti i bambini vogliono essere YouTubers, non vogliono fare nessun altro lavoro. Non pensano che quella dell’artista possa essere una carriera percorribile, perché non sono molti quelli che seguono gli artisti di cui sono fans su Instagram. Ma ci sono milioni e milioni di fans che seguono i loro YouTubers preferiti, vere macchine da soldi.
Tornando al nostro discorso, credo che l’emozione sia una componente importante della realtà virtuale. Ho visto tante opere di realtà aumentata, alcune sono molto “tecnologiche”, altre sono estremamente di intrattenimento. Ma io non vedo l’emozione in tutto questo, eppure è una componente fondamentale. Bisogna anche tenere presente che ci sono tanti fattori che distraggono dall’esperienza della realtà virtuale: il visore è molto pesante e nei musei c’è il personale che cerca di aiutarti, assistenti o guide che ti allertano: “Guarda lì. Tocca il tavolo. Attenzione al gradino”. Senza contare che il contenuto è fisico. Penso che riusciremo nella nostra impresa e restituiremo alle persone la sensazione giusta, così che possano provare l’emozione di cui ti parlavo prima.
HUO: C’è un momento di forte empatia in questo. È una transizione positiva, come ho già evidenziato in questa conversazione, alla quale ho il piacere di dare il benvenuto a Philip Tinari. Philip, come con Daniel, tu ed io abbiamo lavorato insieme per oltre vent’anni su diversi progetti, spesso legati a Cao Fei. Ora parleremo di una mostra a cui tu e Cao Fei avete lavorato e che di fatto è un grande progetto, nonché la sua prima grande mostra a Pechino: “Staging the Era”.
Insieme a te e Karen Marta, qualche anno fa abbiamo realizzato un libro sul futuro con Cao Fei, delineando le sue idee rispetto a questo tema.
Philip Tinari: È molto entusiasmante pensare alla mostra che abbiamo organizzato ed è incredibile pensare al sistema dell’arte cinese e a quello internazionale, al fatto che un artista come Cao Fei sia stata nelle più grandi istituzioni di tutto il mondo, New York, Londra e Parigi, e molti altri luoghi, ma per qualche ragione non in Cina.
L’idea di realizzare una grande mostra insieme risale ormai a sei anni fa. Abbiamo iniziato a parlarne nel 2015-2016. Da allora sono successe molte all’UCCA, nella vita di Cao Fei, e anche nel mondo a causa di questo virus. La mostra avrebbe dovuto aprire a settembre 2020 ma, come per ogni cosa in questo momento storico, ci sono stati dei ritardi.
All’UCCA abbiamo una tradizione, ovvero realizzare mostre ambizione sulle figure chiave dell’arte cinese, parallelamente all’elaborazione di programmi internazionali e di mostre tematiche. Sulla scia di questo nostro obiettivo abbiamo realizzato, nel corso degli anni, alcune esposizioni dedicate a figure come Xu Bing e Qiu Zhije e molti altri. Un fatto molto interessante è che il teatro Hongxia si trovi esattamente nell’area del museo. Essere in grado di allestire alcune delle opere di cui abbiamo appena parlato esattamente nel luogo dove sono nate, e che evocano, è qualcosa di diverso e allo stesso tempo emozionante. Cao, vorrei chiederti quali sono le tue sensazioni nel presentare il tuo lavoro su larga scala a un pubblico cinese a Pechino, e allo stesso tempo cosa vuol dire per te presentare qualcosa che ha a che fare con quest’area della città e con la sua storia – che comprende anche la costruzione degli edifici dell’UCCA, il Distretto 798, l’intera area dell’Hongxia e del tuo studio.
CF: È significativo per me avere una mostra in Cina, anche se non è facile perché, come hai appena detto Philip, è molto difficile. Altri musei mi chiedono di fare mostre qua e là, ma farne una all’UCCA, per di più la mia prima mostra istituzionale e locale è diverso – all’UCCA ho avuto un team che si è occupato di tutti i lavori, una pubblicazione. È importante che le comunità locale guardino questo progetto e riflettano. Se penso alla mostra alla Serpentine, capisco quanto sia difficile per il pubblico riuscire a immaginare il vero teatro Hongxia. Ma a Pechino, dopo aver visitato la mostra, gli spettatori potranno vistare il teatro e la cucina reali. È un’esperienza molto particolare, un’esperienza totalmente diversa, multidimensionale che va oltre la realtà virtuale, che rimane comunque necessaria. A Londra c’era l’esperienza della realtà virtuale e del film, a Pechino si può vivere l’esperienza reale.
È fantastico poter mostrare il mio lavoro nel mio Paese. Se considero Instagram gran parte dei miei followers, almeno il 60%, vive a New York, poi c’è Londra, e poi il restante è a Shangai e Pechino. Quest’ultima rappresenta il 5% del mio seguito su Instagram, forse meno. Ciò dimostra che la maggior parte dei miei followers non vive in Cina, per questo la mostra all’UCCA è importante soprattutto per i giovani studenti. Forse conoscono già il mio nome, e hanno trovato qualche informazione su internet, ma non hanno mai visto l’intero corpus della mia opera. Penso sia fondamentale per il pubblico locale.
PT: Penso sia interessante anche perché queste grandi mostre all’estero devono impegnarsi molto per spiegare al pubblico il contesto. Bisogna parlare della riforma economica in Cina e delle differenze tra Canton e Pechino, o ancora della cultura giovanile e della manifattura e di argomenti del genere. Ma in questo caso abbiamo avuto la possibilità di creare un diverso tipo di incontro, che per certi versi non ha bisogno di trasmettere quel genere di informazioni e inquadrare il contesto – questo ci permette di approcciarci al progetto a un livello più poetico o estetico se vogliamo. Ero anche molto curioso della reazione del pubblico alla mostra, perché molte delle storie che racconta sono anche le loro storie. Sono le storie di una generazione e di un Paese in transizione. Trovo incredibile che la tua opera sia stata negata alle persone per cui è più rilevante. Voglio dire, è sicuramente affascinante anche per il pubblico internazionale, ma credo che grazie a questa mostra ci sarà una nuova generazione di persone che si avvicinerà a una diversa concezione e comprensione dell’arte. Sono contento di aver lavorato con te.
CF: Lo spazio dell’UCCA è enorme. Forse è il più grande dove abbia mai tenuto una personale. Per questo è stato un processo difficile e stimolante. Il soffitto è molto alto. Philip, ricordo che nel 2008 hai visto un mio lavoro, iMirror (2007) a New York e hai pianto. iMirror è filmato all’interno di Second Life, era una specie di una comunità pre realtà virtuale. Questo è quello che ho continuato a fare, anche in questa mostra, con la realtà virtuale. Il mio obiettivo è generare emozioni. La tecnologia e i social media sono molto freddi. La realtà virtuale può aiutarci a trovare l’emozione, l’essere umano. Questa è la ragione principale per cui sono interessata alla tecnologia – persino RMB City è sulla connessione e lo svolgimento di un’attività. Non si tratta solo di tecnologia, o di fascinazione per il futuro.
PT: In Second Life il tuo avatar si chiamava China Tracy. Certamente era la proiezione di te stessa in un mondo virtuale immaginario, ma penso che in qualche modo lo fosse anche della tua storia – voglio dire, sei una specie di avatar per questa generazione che è nata insieme all’apertura e alla riforma del Paese, e per un’incredibile coincidenza di momenti storici, tecnologici e ideologici, schiacciati in un arco temporale di soli quarant’anni o poco più. È emozionate mostrare tutto questo a un pubblico più ampio e vedere come reagisce e metabolizzerà l’evento.
HUO: Mi piacerebbe chiedere a Cao Fei di parlarci di Do It, perché durante il 2020 passato perlopiù in lockdown è successo qualcosa di molto interessante. Paul Chan dice sempre che connettere è fantastico, ma disconnettere è sublime. E in un momento in cui così tante persone hanno trascorso la maggior parte del loro tempo di fronte a uno schermo, è diventato rilevante pensare a tutti i progetti che potremmo realizzare lontani da esso. Così è nato Do It, un nuovo progetto in collaborazione con la Serpentine, insieme a Indipendent Curator International, Kaldor Public Art Projects in Australia e Google Arts & Culture. Cao, tu sei stata parte del progetto sin dall’inizio e hai avuto un’idea fantastica su come trovare altri occhi all’interno del tuo appartamento.
CF: Si, in realtà si trova in un vecchio libro Do It – nella versione inglese e poi anche in quella cinese. Credo che l’anno passato sia stato il momento perfetto per rivedere e riproporre questo progetto. In tempi di lockdown abbiamo passato tanto tempo in casa. Ogni cosa sembra ingrandita se vista all’interno uno spazio intimo. Un giorno mi sono svegliata, ho guardato il pavimento e ho visto tantissimi occhi nel pattern del legno, una moltitudine di occhi con una lacrima. Ho provato a fare delle foto a tutti questi occhi nel legno e l’ho postata sul profilo Instagram di Do It. Era come contare quanti occhi ci fossero in casa.
Durante il lockdown, abbiamo avuto molto più tempo per guardare fuori dalla finestra e vedere cosa succede per strada a mezzanotte. È come se tutto fosse “esteso”. Credo che questo sia stato il momento giusto per ripensare Do It.
HUO: Volevo chiederti anche di TikTok, perché durante il lockdown mi sono iscritto a TikTok. Tutto è nato dal libro Cosa rispondono gli animali se facciamo le domande giuste? di Vinciane Despret. Secondo Bruno Latour è un libro fantastico perché è come entrare in una nuova era di fiabe scientifiche. Con questo termine non mi riferisco alla fantascienza o alle storie sulla scienza, ma ai modi di comprendere quando sia difficile capire gli animali e quello che fanno. Su TikTok ho iniziato a intervistare gli animali che incontravo durante le mie passeggiate quotidiane al parco sui loro progetti irrealizzati. È interessante perché stiamo assistendo a un processo che porta gli artisti su TikTok, già da qualche anno in realtà, quando improvvisamente tutti gli artisti si sono iscritti a Instagram. Che cosa pensi di questo nuovo social network, usi TikTok?
CF: Oh, non lo uso. Ma guardo i tuoi TikTok su Instagram.
*Questo dialogo è il risultato di più conversazioni avvenute fra gli autori e l’artista tra il 2019 e il 2020, ad oggi.