La crisi si sta rivelando più lunga e più aspra del previsto. C’è chi pensa addirittura che potrebbe anche non finire mai, e che il corrente stato di cose sia la nuova “normalità” a cui ci dobbiamo abituare, lo stato stazionario di un capitalismo globalizzato che livella progressivamente i differenziali di reddito e di opportunità, spingendo verso il basso la capacità di spesa dei paesi di antica industrializzazione e verso l’alto quella dei paesi emergenti, fino a raggiungere una sostanziale omogeneizzazione statistica — nella quale, ovviamente, continuano a esistere, al livello individuale, i molto ricchi (relativamente pochi) e i molto poveri (relativamente tanti). Nello scenario che si va definendo, i paesi emergenti si profilano non soltanto come avidi (e sempre più spesso spavaldi) compratori di opere d’arte, ma investono risorse importanti nell’apertura di nuovi musei e spazi espositivi, lanciano nuove biennali, promuovono fiere, conquistando uno spazio e una capacità di influenza sul sistema globale fino a poco tempo fa impensabile. Sul versante occidentale, invece, i musei stentano a mantenere i vecchi standard di programmazione, e in qualche caso ridimensionano drasticamente la propria attività o addirittura chiudono. In Italia, per esempio, buona parte del sistema museale del contemporaneo si trova oggi in una sorta di animazione sospesa, nella quale il domani è incerto e l’oggi si profila sempre più esplicitamente come un esercizio di galleggiamento e di acrobazia contabile a fronte di risorse sempre più magre e soprattutto incerte, tanto nella loro entità che nei tempi e modi di effettiva disponibilità.
Si sarebbe tentati di concludere che si tratti più che altro un problema di risorse: dove ci sono, l’arte prospera — dove mancano, langue. Ma sarebbe un ragionamento molto, troppo semplicistico. Non sempre l’abbondanza di risorse si coniuga con un entusiasmo per l’arte e la cultura, e non sempre società povere o impoverite rinunciano a impegnare risorse nella produzione culturale. È forse più corretto concludere che, nel momento attuale, un museo d’arte contemporanea può acquistare a volte, nel contesto di un paese emergente, un significato sociale più rilevante rispetto a quanto accade in alcuni paesi a elevato sviluppo sociale ed economico. Paesi che si affacciano all’arte contemporanea in una fase che coincide con un impetuoso sviluppo economico e sociale possono stabilire tra i due fenomeni un’associazione emotiva e simbolica molto intensa. Si tratta peraltro di paesi tipicamente caratterizzati da una bassa età media, e quindi da una classe dirigente giovane e mentalmente aperta, che ha bisogno di identificarsi in codici propri che esprimano una discontinuità “strutturale” rispetto al passato — per quanto a volte più apparente che reale, più dichiarata che effettiva, come si scopre guardando con attenzione sotto la superficie con le lenti giuste. Si tratta inoltre di generazioni che sono cresciute alimentandosi di modelli culturalmente onnivori, che ignorano qualunque distinzione di matrice tipicamente europea tra cultura highbrow e lowbrow, e che quindi non associano ad alcuna forma di espressione culturale uno stigma preconcetto, negativo o positivo che sia. L’arte contemporanea non viene quindi vissuta come provocazione, come segno di distinzione di una élite che si riconosce in codici di significato sofisticati che la differenziano dalla grossolanità concettuale del pubblico generalista — una dinamica che continua malgrado tutto a lasciare il segno in tante vicende del dibattito culturale occidentale, e tanto più in un’epoca di risorse e aspettative decrescenti nella quale l’arte è la “solita sospetta” in quanto depositaria di risorse a furor di popolo giudicate destinabili a finalità socialmente più meritevoli. L’arte contemporanea, al contrario, nel contesto dei paesi emergenti diviene un’esperienza come un’altra, né più né meno legittimata di altre in via di principio, e quindi destinata a ricavarsi un proprio spazio attraverso un’onesta competizione per l’attenzione, le risorse, la visibilità sociale rispetto ad altre forme di espressione culturale, con le quali peraltro interagisce molto liberamente, senza particolari remore né complessi né steccati.
I paesi emergenti investono nei musei non soltanto perché hanno le risorse per farlo — anche noi le avremmo, se volessimo — ma perché attribuiscono a questi spazi un significato sociale sufficientemente sentito e condiviso. L’arte è un’espressione credibile del cambiamento, e quindi si guadagna sul campo il proprio diritto a esistere e a crescere. Nel mondo occidentale, l’associazione tra arte e cambiamento è meno forte. I musei sono divenuti una sorta di santuari laici, che offrono forme alternative di appagamento spirituale e identitario rispetto ai luoghi religiosi sempre meno frequentati, ma che d’altra parte oscillano continuamente tra la tentazione del tempio algido e autoreferenziale e la chiassosa macchina di intrattenimento che prova a competere a modo proprio sul mass market. Il museo occidentale è ormai sempre più uno space between, un luogo di transizione che trova la sua identità nel provare a tendere verso qualcos’altro. Coerentemente, il museo si sottopone a un continuo esercizio metamorfico, e cambia non soltanto per attirare l’attenzione e invogliare a visite ripetute, ma anche per esplorare possibili funzioni, possibili modalità di uso che ne riattivino la vitalità più ancora che la capacità attrattiva. Che cos’altro potrebbe mostrare, o contenere, il museo, che non ci abbia già mostrato, o contenuto? Niente, perché tutto è già avvenuto. E allora meglio trasformarsi in sala giochi, refettorio, sex shop, magazzino, kindergarten, bagno turco, labirinto, pantano, stalla, ecc. Che altro possiamo ancora metterci, nello spazio del museo? E soprattutto, vale ancora la pena di perpetuare questa coazione a ripetere, la cui valenza ludica ci appare sempre più stanca, e comunque prevedibile nella sua aspirazione barocca alla sorpresa? Non è forse arrivato il momento di prendere atto che il museo potrebbe, dovrebbe provare a essere qualcos’altro, e non semplicemente a fingerlo? E potrebbe essere allora che siano proprio le realtà nuove, quelle che sorgono oggi nei paesi emergenti, a diventare il terreno di coltura di questo nuovo paradigma? E come potrebbe essere fatto questo paradigma?
Il limite più evidente e più ovvio da superare è quello del museo come spazio di contemplazione passiva. Il museo può ancora concentrare e scatenare energie se diventa uno spazio di produzione — non in modo retorico, ma reale. Uno spazio in cui creare la possibilità di interagire nell’arte, e non semplicemente attraverso l’arte. Se il museo non trova il modo di integrarsi nella struttura della vita quotidiana delle persone, semplicemente non ha più senso di quanto non ne abbia un qualunque spazio ricreativo. E oggi integrarsi nella vita quotidiana delle persone vuol dire, e vorrà dire sempre di più, offrire occasioni di costruzione di una propria strategia curatoriale di impaginazione di contenuti, da trasferire nei contesti e tra gli ambienti più diversi, fisici e virtuali. Sarà una nuova, più radicale forma di scultura sociale. Non si tratta, come si potrebbe temere, di una rimozione del ruolo sociale dell’artista, e nemmeno di un banale depotenziamento a una dimensione passepartout, adattabile a chiunque, in qualunque circostanza. Sarà, verosimilmente, provare a fare l’artista senza più rivendicare uno spazio separato, quello che divide a priori il produttore di senso da colui che lo riceve, sarà il rinunciare a un’assunzione predefinita di ruolo, esercitata in uno spazio protetto, escludente. Essere artisti potrebbe tornare a essere una condizione più che una professione, una scelta esistenziale che implica il legarsi a luoghi, a persone, a situazioni nelle quali si scommette il senso della propria vita. Un esercizio di condivisione reale piuttosto che l’effettuazione di un ennesimo esercizio di stile, di un saggio di calligrafia concettuale che mira a catturare un pubblico distratto e perennemente alla ricerca di un nuovo sempre più improbabile.
L’arte saprà approfittare dei varchi aperti da società che devono ancora definire, decidere fino in fondo quale sarà il ruolo che le pratiche artistiche assumeranno nell’architettura delle loro società? Saprà accettare la sfida di occupare tutti i luoghi, e allo stesso tempo di aprire tutti i suoi luoghi senza per questo perdere la propria capacità di generare valore aggiunto, la propria specificità esperienziale? Dove inizia il museo? Dove finisce? Sarei curioso di sapere come si risponderà a queste domande tra dieci anni. Ma se lo sapessi, forse non lo capirei. E, forse, non sarei il solo.