Avvicinarsi al lavoro di Tris Vonna-Michell significa addentrarsi in un labirinto senza ritorno di suggestioni narrative in cui l’elemento personale, inserito dallo stesso artista, si amalgama a costruzioni in costante crescita. Non si può non ricordare che le fondamenta della ricerca di Tris Vonna-Michell si basano su una continua trasformazione di percezioni audiovisive in cui ogni particolare non può e non deve mai essere tralasciato. Anche l’istante della scoperta è già in potenza l’opera stessa che, al momento della presentazione allestitiva o performativa, risulta semplicemente più articolata o più densa di dettagli, ma non differente dagli stimoli e dalle suggestioni iniziali. Per meglio aiutare il lettore/fruitore alla comprensione del lavoro si è perciò pensato di articolare l’intervista in quattro punti, o per meglio dire in quattro tempi, al fine di scandire l’analisi di una ricerca che tiene conto di una progettualità e processualità imprescindibile dal lavoro stesso. Per questo l’intero incontro si articola come la traccia di un nuovo racconto attraverso quattro punti: il caso, il tempo, lo spazio(luogo) e il senso.
Fabiola Naldi: Partiamo dal caso: hai spesso ripetuto, in altre interviste, che l’incontro con le tematiche delle tue ricerche e delle successive narrazioni è casuale. Affermi spesso che è un particolare visivo, sonoro o emotivo che ti colpisce e da questi brevi spunti si innesca la curiosità e il desiderio di approfondimento. Come si sviluppa questa parte della tua ricerca?
Tris Vonna-Michell: C’è una logica intuitiva per quanto riguarda lo sviluppo di tutte le mie opere; non vi è mai una predeterminazione che conduce alla decisione di intraprendere una ricerca specifica dal momento che è sempre l’intuizione che informa la ricerca. Vi sono indubbiamente una serie di “interessi” iniziali che si presentano quando sono in giro e, soprattutto, alcune costanti che si mantengono al momento di elaborare un nuovo lavoro. Ma le relazioni emotive che si sviluppano di conseguenza derivano dalla ripetizione di tali interessi unite a un costante livello di intensità. In parole più semplici, la base di partenza di una nuova ispirazione è sempre data dal luogo e da un iniziale momento di suggestione e poi di articolazione, sia essa performativa o spaziale. C’è un movimento circolare in costante crescita che porta al continuo rinnovamento di precedenti installazioni e performance in cui il passato, che si tratti di una storia precedente o di una nuova narrazione, diventa la fonte inevitabile e ineludibile di ogni nuovo lavoro. Tuttavia, l’intera ricostruzione è molto flessibile, è possibile riconsiderarla in qualsiasi momento. Non vorrei affermare che questo metodo è del tutto casuale, ma il processo circolare indotto produce molti nuovi parametri solo per il fatto di vedere le forme preesistenti in continua crescita.
FB: Il tempo della scoperta, la tempistica della ricerca, la scansione temporale di un’installazione o di una performance sono parti indivisibili del tuo lavoro. Come si succedono in fase processuale e quale momento acquista maggiore importanza nella presentazione finale?
TVM: La divisione di queste parti è piuttosto imprecisa ma c’è sempre l’elemento determinante dato dalla questione tempo, sia in termini di contenuto sia in termini di gestione. È sempre lì, presente in ogni lavoro, e non basta mai. È un po’ strano perché, anche se mi capita di sviluppare alcune opere durante gli anni, rimane latente un processo di informazione costante in cui il contenuto resta e cresce indipendentemente dal mio intervento. Ciò nonostante, quando decido di iniziare un nuovo progetto, la linea temporale specifica è ben definita in modo tale da gestire la conseguente composizione narrativa. Proprio a partire da questo, anche se mi capita di impiegare anche diversi anni per sviluppare una nuova storia, ogni volta che preparo un nuovo progetto trovo che il carico di lavoro iniziale sia immenso, anche se cerco di mantenere una certa coerenza sia in un processo a lungo termine che in uno costruito in poco tempo. Si tratta di una contraddizione interna che appartiene al meccanismo progettuale, non intenzionale e non certamente ideale, ma comunque sviluppato come un work in progress.
FN: Spazio e luogo sono entrambi fondamentali sia per l’installazione sia per la performance e sono la combinazione perfetta del lavoro presentato. In particolar modo mi riferisco alla tua ultima azione presentata al Museo Marino Marini di Firenze. È ovvio che non puoi prescindere dall’ambiente che ti ospita ma quanto, in realtà, è determinante nello sviluppo finale dell’opera?
TVM: Sì, molto dipende dallo spazio perché caratterizza il fatto che i racconti hanno costantemente bisogno di rielaborazione per essere adattati e trasformati secondo ogni nuovo contesto. Per quanto riguarda le performance mi trovo più a mio agio quando creo alcuni assetti narrativi basilari su cui poi intervengo. Se lo spazio mi suggerisce un particolare lavoro o una particolare direzione allora cerco di svilupparne le potenzialità quando mi trovo in loco, ma spesso, una volta arrivato, il tentativo di nuovi legami narrativi si perde. A quel punto è di nuovo l’ambiente che stabilisce definitivamente la performance a prescindere dalla presenza dello spettatore. Successivamente, quando il pubblico entra nell’equazione allora lo spazio si trasforma nuovamente amalgamandosi al contesto con i racconti. Al momento del live può capitare, infatti, che tutto ciò che avevo ideato si distrugga in presenza del pubblico, al punto da considerare lo spazio secondario a favore dell’improvvisazione e del rapporto con chi mi sta ascoltando.
FN: Il senso iniziale della traccia narrativa e la conseguente elaborazione semantica credo sia, di volta in volta, molto diversa. Quanto l’evoluzione della narrazione in progress prende il sopravvento?
TVM: Spesso le opere si basano inizialmente su precise costruzioni narrative che si modificano nel corso della durata dell’opera stessa e della sua ri-contestualizzazione, producendo ulteriori forme che sostituiscono quelle iniziali. Occasionalmente alcuni elementi iniziali si allontanano dalla trama di base per poi ripresentarsi sotto altre vesti e sfumature. La rielaborazione dei contenuti per mezzo di reiterazioni spaziali è un costrutto che si è sviluppato solo di recente; sto incominciando a notare che vi è spesso un filtraggio dato da una continua domanda. Può succedere che entri in gioco una sorta di entropia riduttiva, la stessa che ha portato la storia iniziale verso direzioni differenti, distanti dal riconoscimento della storia stessa. A volte questo può essere un bene, ma non sempre. Avverto comunque l’esigenza di dirigere personalmente le possibili narrazioni da contestualizzare verbalmente in modo tale da rendere il contenuto accessibile più alle mie necessità che allo spazio/tempo di una singola mostra.