Massimiliano Gioni: Voglio cominciare con una domanda di natura pratica. Come cominci un lavoro?
Urs Fischer: È lui a venire da te. A volte lo cerchi, a volte no. Poi sei tu ad afferrarlo.
MG: Iniziamo dalle scatole specchianti, per esempio, quelle che avevi realizzato per la mostra al New Museum. Per quel lavoro partisti dall’idea dello specchio, vero?
UF: La superficie specchiante è irrilevante. Quello che mi interessa è l’assenza dell’oggetto. L’oggetto è ridotto a un’immagine ed è proiettata su un prisma rettangolare. La forma rettangolare è fondamentalmente anonima: non ha una caratteristica propria come per esempio la forma di un cane. Se non pensi proprio a niente, il rettangolo ti sembra la forma più neutra. Quindi, se vuoi applicare un’immagine alla forma rettangolare, essa funziona veramente come anti-figurazione.
MG: Perché rifiuti la figurazione? Contro cosa reagisci?
UF: C’è sempre un momento in cui le cose sembrano obsolete e allora è ora di un darci un taglio.
MG: Sono particolarmente interessato alle immagini sulle scatole. Esse compongono una sorta di enciclopedia delle banalità. Sei un avido consumatore di immagini e alcune di esse sono abbastanza scadenti, trite o kitsch. Ti interessa il cattivo gusto?
UF: Cosa intendi per cattivo gusto?
MG: Per esempio, in alcuni dipinti più recenti, hai inserito elementi da B movie e film horror. In altri lavori hai usato motivi tratti dalle decorazioni popolari. E ci sono gli chalet svizzeri e le architetture tedesche inserite in alcune delle tue sculture e dipinti… sono queste le immagini che prediligi o le hai utilizzate in maniera critica?
UF: Credo che le immagini abbiano una carica emotiva. Ogni immagine ha una carica diversa. Tu fai uso della qualità emotiva dell’immagine piuttosto che l’immagine in sé.
MG: Quindi non le scegli perché pongono interrogativi alle nostre ipotesi di gusto?
UF: No. Semplicemente mi piacciono. Penso che siano belle. Non sono scadenti, né sbagliate: sono immagini. Mi piacciono, sono carine. Prendi questa immagine per esempio: questi palazzi, queste case, a qualsiasi cosa tu voglia collegarle — il riferimento all’architettura tedesca o al folklore — per me sono solo buone immagini. Sono la molto semplice, elementare immagine di una casa. Sono archetipi.
MG: Dove trovi le immagini che utilizzi? Sono sempre stato affascinato dalla quantità di immagini che hai nel tuo computer. Lavori prevalentemente con immagini trovate?
UF: Non necessariamente. Molte delle immagini — come quelle nelle scatole — sono create da me.
MG: Ma soprattutto nei tuoi dipinti sembra esserci un grande riciclo. Sembra che tu prediliga le immagini trovate.
UF: Per come li vedo io, i miei dipinti sono più come sculture. Li vedo come oggetti alla parete che hanno una particolare superficie.
MG: Questi dipinti-sculture, come le tue sculture, spesso sembrano incomplete. Sono così ricche di informazioni da rimanere in qualche modo aperte. Penso che nel tuo lavoro ci sia quasi un culto del non finito, una ruvidità che potrebbe essere letta come una polemica contro un certo aspetto patinato un tempo così trendy.
UF: Spero tu non stia parlando delle scatole. Io non mi chiedo se i miei lavori siano finiti o no. Ci sono molti modi diversi di finire le cose. Questo non mi interessa nello specifico. La questione è su come vuoi applicarlo a qualcosa — qualcosa che è il materiale con cui tu lavori. E, d’altra parte, c’è il controllo esercitato dalla psicologia di qualcuno: le cose che vuoi mostrare, le cose che non vuoi mostrare, le immagini che si creano all’esterno. Questa è la caratteristica incontrollabile di ogni lavoro. Questo è ciò che rende così difficile alla lunga mentire come artista. Non si tratta della storia che racconti, ma come la racconti. O meglio non è su cosa menti, ma come menti — a te stesso e agli altri.
MG: Questo perché tu lavori con i materiali che sono in gran parte meno controllabili? Hai realizzato sculture con cera fusa e con altri materiali deperibili. Hai usato oggetti in movimento, elementi instabili, e addirittura frutta e verdura che marcisce nel corso della mostra.
UF: Questa assenza di controllo che stai descrivendo è qualcosa di completamente diverso da me. La cera che si fonde crea la perfezione più bella che tu possa creare. C’è una perfezione nel movimento. Il modo in cui il cibo si deteriora è prevedibile. È un processo prevedibile: marcisce sempre nello stesso modo. Hai il controllo quando lasci la natura fare le sue cose. Sono interessato a trovare modi diversi di essere un autore. Non sto parlando di delegare parte della produzione o lavorare con altre persone. Vuol dire lasciare che i materiali e le immagini abbiano una loro vita. Il lavoro ha una propria realtà, e tu sei al suo servizio.
MG: Voglio chiederti dell’illusione. C’è una qualità allucinatoria nel tuo lavoro, anche quando sei iperrealista, come per esempio in Untitled (Bread House) (2004-2005), che è semplicemente quello che suggerisce il titolo: una casa fatta di pane invece che di mattoni. Anche se usi il pane stesso, l’immagine che ne risulta dello chalet fatto di pane e abitato da uccelli vivi diventa un miraggio, un’allucinazione. Questo dimostra l’abilità nell’esibirsi, un talento teatrale di rappresentare il tuo lavoro che è abbastanza unico: penso sempre alla cultura barocca quando guardo il tuo lavoro. È spettacolare ma in un senso molto cupo: l’illusione è al servizio di una forza oscura.
UF: Io non cerco di costruire un’illusione. È più una conseguenza di come un’immagine o una scultura possa essere caricata. Il lavoro deve avere vita propria: è questa l’energia del pezzo.
MG: Le sculture, i dipinti, i collage e le installazioni sono tutte uguali? Questo elemento di controllo di cui stai parlando è raggiungibile allo stesso modo con ogni media?
UF: Sono interscambiabili, ma non validi allo stesso modo.
MG: Direi che in seguito ti sei concentrato maggiormente sulle sculture. Hai cominciato come scultore.
UF: No, come fotografo. Ma mi piace costruire.
MG: Hai realizzato sculture di grandi dimensioni fin dagli esordi della tua carriera. I tuoi dipinti sembrano fagocitare ogni immagine, così le tue sculture cercano di occupare ogni spazio disponibile.
UF: Per me infatti non è una questione di piccolo o grande. È tutto la stessa cosa. Non importano le dimensioni. Ovviamente i lavori grandi ti consentono di prendere parte a essi: ci circondano. Ma puoi facilmente identificarti con un piccolo pezzo in un angolo. Io lavoro sulla relazione tra gli oggetti. Le relazioni sono importanti, non le dimensioni. Per esempio, la forma delle Piramidi: la loro dimensione è non solo in funzione di ciò che devono rappresentare — devono essere così grandi. Suppongo che affrontino un concetto egiziano dell’universo. Sono un’idea che è più grande della mummia che si trova all’interno. Una forma ideale. Parlano della bellezza di un’idea. Posso provare la stessa sensazione se guardo le mani aggrappate alla carne di una scultura di Bernini o un buon Sol LeWitt — che pure funziona.
MG: Cosa significa per te che una scultura funziona?
UF: Penso che tu non possa rispondere a questa domanda. Cosa funziona per te dell’arte?
MG: In verità la cosa che mi piace della tua arte è che, a molti livelli, non funziona. Non è un sistema chiaro, chiuso, raffinato. Non c’è una formula o una ricetta. Spesso il tuo lavoro è qualcosa che non riesco a collocare immediatamente. E mi ritrovo a chiedermi: è veramente bello?
UF: È tutto quello che ti piacerebbe.
MG: Tu e il tuo lavoro avete a che fare con il passato? Ricordo che hai parlato recentemente di Robert Morris. La tua è una consapevole esplorazione di una più antica tradizione scultorea?
UF: Non puoi congelare il linguaggio. Io parlo, tu parli, e insieme manteniamo le cose vive. Il linguaggio non è il prodotto di un individuo, ma gli individui lo portano avanti vivendo. Ci sono delle cause scatenanti dal passato o dal presente — non importa purché portino alla stessa cosa — che fondamentalmente riciclano il linguaggio: linguaggio colto e personale.
MG: Pensi in funzione delle idee o dei materiali? Il tuo lavoro, per me, sembra profondamente connesso a materiali specifici. Potrebbe addirittura essere descritto come una riflessione su certi materiali, o la loro instabilità, addirittura la loro capacità di deteriorarsi.
UF: I materiali significano inevitabilmente una fine, giusto?
MG: Alcune persone criticano il tuo lavoro perché dicono che non è chiaro cosa sia realmente.
UF: Le persone sembrano aver paura dell’arte. L’arte è sempre stata una parola, per questo non può essere razionalizzata. Ma questa è la sua forza, naturalmente: questo è ciò che la parola “arte” significa. Per esempio, sto leggendo di Caspar David Friedrich. Nel saggio, ci sono molte idee e interpretazioni sulle sue intenzioni, che cercano di personificare lui, le sue idee e la politica. Questo dovrebbe essere vero e ha realmente pesato all’interno delle sue decisioni. Ma anche se non sa perché è bello… Ci sono molte persone che cercano di spiegare perché un certo posto è interessante. Ed è così limitante, è folle. Un’opera d’arte è limitata a due o tre definizioni. È come se tu dicessi “Questo è mio nonno, e gli piacciono le scarpe di pelle”. Oppure “questa è mia nonna, fa torte veramente geniali”. Penso che l’arte sia come la gente: non puoi ridurli a un paio di frasi. Sono molto più complessi, più ricchi.
MG: Voglio chiederti qualcosa su alcuni dei soggetti e degli oggetti che hai usato all’interno della tua scultura. Ci sono molti oggetti comuni, come lampade, tavoli, sedie e pacchetti di sigarette. Hai usato immagini molto domestiche, immagini molto leggere.
UF: Io non le trovo leggere. Forse è una scelta ovvia, ma queste sono le cose con cui mi relaziono. Cosa succederebbe se facessi un uovo Fabergé? Sarebbe meglio? Anche se non ci avessi niente a che fare? Io uso semplicemente le cose intorno a me. E quegli oggetti, quelle immagini domestiche, come si potrebbero definire, sono realizzate in dimensioni umane. Sono fatte da umani per umani, ci parlano di noi. E ci sono cose con le quali tu devi avere a che fare.
MG: Per me comunque le tue sedie sono ancora un mistero. Ce ne sono così tante nel tuo lavoro, e la maggior parte delle volte i lavori con le sedie sono stranamente incomprensibili, almeno per me. Sì, naturalmente, potrebbero essere ricordi di Bruce Nauman o Joseph Beuys, e addirittura di Van Gogh; ci sono così tante sedie nella storia dell’arte, ma ancora non capisco perché un artista oggi dovrebbe fare sedie.
UF: Per me non si tratta di oggi e non si tratta della sedia. Alcuni degli oggetti di cui stai parlando sono solo portavoce delle cose che ho in testa. E, nella maggior parte dei casi, non penso neppure all’oggetto, penso alla situazione.
MG: Cosa intendi per “una situazione”?
UF: Ciò che succede tra gli elementi all’interno di un lavoro.
MG: Sento che molte delle situazioni che crei sono abbastanza instabili. Hai realizzato sculture che si fondono, sculture rotte in pezzi, pareti danneggiate erette su fondamenta instabili. In altri casi hai creato una percezione disturbata, come nel caso degli specchi che si muovono e danno allo spettatore l’impressione che l’intera stanza stia oscillando.
UF: Ci ho messo un paio di anni per ideare gli specchi in movimento. Ho cominciato guardando in una tazza di caffè, guardando come i riflessi del cielo si muovevano nel liquido. Quando ero a Venezia, mentre aspettavo al vaporetto, ho notato come la corrente e le onde rendevano l’intera esperienza di stare in un posto particolarmente scomoda. Così ho innanzitutto cominciato a pensare a come creare un pavimento che possa dare un senso di squilibrio. Ma c’era qualcosa di troppo innovativo nell’idea di un pavimento che si muove: sembrava uno scherzo. Così eventualmente dovevo capire che per cambiare la nostra percezione di equilibrio dovevo muovere le pareti: è così che ho avuto l’idea degli specchi installati sulle pompe idrauliche attaccate al muro. Penso che questo sia addirittura più interessante perché perdi l’equilibrio e diventa abbastanza fastidioso. Ma del resto niente sta accadendo realmente a te: è solo il modo in cui relazioni te stesso e la tua immagine allo specchio.
MG: Ho sempre pensato questa scultura come un tuo strano autoritratto. Forse sono troppo romantico, ma c’è qualcosa anche nella dimensione… ci sono dei lavori con i quali ti identifichi? Anche solo a livello fisico.
UF: Con la maggior parte di essi sì. Certo. Ma poi sono io l’autore di questi lavori, cosa ti aspetti?
MG: Diresti che il tuo lavoro è sulla distruzione?
UF: No, è tutto sulla costruzione, ma semplicemente a volte le cose non vogliono essere.