Se Goffredo Parise, con le sue semplificazioni fulminanti, ha definito il Veneto “come una terra ‘barbara’, fatta di ‘muschi e di nebbie’” e Andrea Zanzotto ha scritto per una vita versi che sembrano affondare letteralmente dentro questa terra, “nelle sue radici, nei suoi minerali, nel suo fondo di fuoco”: ebbene, questo luogo mitico-magico non esiste più. Non esiste più, perché tutta la sua gente ha perso l’anima nel crollo generale dei valori, delle ideologie, dei progetti. Non esiste più, perché tutti i luoghi si sono annullati nello Spazio universale del Mercato. In una generazione si è passati dalla miseria all’opulenza, dall’emigrazione all’immigrazione, senza che ci fosse il tempo di produrre modelli culturali capaci di elaborare il cambiamento. Ora, che il panorama dell’arte possa rimanere estraneo a questo senso di spaesamento, di perdita delle radici, è pura utopia. E se negli anni Ottanta si sventolava il vessillo di un recupero del genius loci, di un’espressività cioè legata al territorio antropologico e al ritrovamento del passato come unico presente possibile, oggi è lo stesso territorio a essere scomparso dall’orizzonte. Certo, non c’è più un grumo ventrale, un’adesione profonda al luogo da parte dell’istinto. Si cerca di allargare la via del sentire, di allungare il proprio sguardo al di là dei miti storici, di trovare una visibilità molteplice ai propri messaggi. Però senza, per questo, entrare in una dimensione globale e totalizzante. Se ci si sposta nel fuori (Milano, Berlino, New York) non lo si fa per una forma di idolatria nei confronti dei mercati dominanti, ma per aprire in sé una radura, una luce, un sapere inedito (Jünger): spesso poi si fa ritorno alla propria terra e alla propria differenza. O, nel caso più eclatante del padovano Maurizio Cattelan, se si diventa davvero cittadini del mondo lo si fa producendo un’arte da enfant terrible, che si concede il piacere di costruire balocchi enormi, vistosi, effettistici, ironici. E lo stesso fanno, seppure con stili e linguaggi diversi, la veneziana Monica Bonvicini, il vicentino Luca Buvoli, la padovana Grazia Toderi, ecc. Ma c’è un’altra peculiarità che connota le modalità di porsi dell’arte degli anni ‘80-‘90 e che almeno apparentemente sembra essersi dissolta, ed è una volontà politica, laica, comunitaria del fare e del far vedere. Chi non ricorda le festose adunate della “Domus Jani”, un capannone (a Illasi, a pochi chilometri da Verona), dove si potevano incontrare Hermann Nitsch, Aldo Mondino, Bruno Munari, mescolati a opere e videoproiezioni di Beuys e Duchamp? O le Biennali dei Giovani delle Trevenezie tenute nella Cattedrale dell’ex-Macello a Padova: campionature che erano tentativi di riassumere, rimeditare, superare il passato? Ma non è un caso che si sia parlato di “dissolvenze apparenti”, proprio perché in nome dell’ecumene e del confronto si sono sviluppati negli anni degli appuntamenti che pur non essendo “trendy”, rimangono per molti giovani il primo e forse più importante passo per arrivare al pubblico (come “Quotidiana” a Padova o la “Collettiva” della Fondazione Bevilacqua La Masa). Ma anche altre occasioni di incontro sono emerse prepotentemente in tempi recenti: da “Gemine Muse” (appuntamento nazionale, ma nato a Padova), dove giovani artisti sono invitati a confrontare il loro gesto ispirandosi ai capolavori del passato, comparando, come in un gioco di specchi, ciò che è sepolto dal tempo con ciò che attraverso il tempo “fabbrica coscienza e futuro”; e ancora “Nuovi segnali” (sempre a Padova): “un laboratorio per giovani artisti e curatori in cui si abbandona la teoria in favore della pratica del fare” o l’Associazione TRA (a Treviso), che intende muoversi sul modello delle Kunstverein tedesche, cercando di innescare le più sottili contaminazioni tra arte contemporanea ed economia d’impresa. Anche la Fondazione March (a Padova) nasce da un proficuo scambio tra arte e mondo imprenditoriale, offrendo, al di là delle esposizioni, anche programmi di didattica (con tanto di biblioteca e videoteca continuamente aggiornate) e la possibilità di usufruire di atelier.
Infine C-4 (Centro Culturale Contemporaneo Caldogno) che, mettendo in relazione arte, impresa e cultura intende porsi come centro di formazione, come meeting di diversità intellettuali e professionali che si incontrano allo scopo di “riqualificare il territorio” e valorizzare “l’identità locale”. Messa così la questione, potrebbe sembrare che il sistema arte nel Veneto abbia costruito una trama che ha la stessa ricchezza della piccola impresa diffusa. Ma se si affronta il problema istituzionale, si scopre che le pubbliche amministrazioni sono spesso latitanti e, quando pensano a occasioni espositive, non pensano a un’operazione di ricerca, di studio, alla formazione di una nuova sensibilità estetica, ma al gigantismo, al prestigio, alla visibilità urbi et orbi, dimostrando così di non aver ancora capito che la Cultura può diventare business a patto che ci sia una diffusa esigenza del bello e che questa va costruita attraverso un’“educazione permanente”, un coinvolgimento costante. Il salto di qualità avviene solo se l’arte diventa un bisogno interiore, una dimensione in cui specchiarsi, riconoscersi e scegliere cosa essere. I fuochi artificiali lasciano la bocca aperta, ma si consumano nella loro stessa effimera meraviglia. Però rara è anche la collaborazione tra pubblico e privato, che nelle economie avanzate dimostra invece di essere uno dei piloni portanti dello sviluppo sociale. Rare sono le occasioni di sinergia tra Musei e gallerie, al fine di realizzare un percorso capace di creare un piacevole effetto di confronto. In tempi recenti si può ricordare il Museo di Castelvecchio che ha saputo accogliere opere di Pietro Consagra (mentre la mostra aveva luogo presso la Galleria dello Scudo) o inserire nei suoi camminamenti di ronda le “travi pittoriche” di Herbert Hamak (in cooperazione con Studio La Città). In compenso emergono nuovi collezionisti illuminati che non mancano una fiera o un vernissage che conta, trovando nell’arte un inatteso stimolo al rinnovamento delle stesse strategie di comunicazione e di immagine delle loro aziende. Basti pensare che alcuni imprenditori e professionisti tra Vicenza e Treviso hanno formato un po’ goliardicamente un’autentica squadra di collezionisti (come fosse una squadra di calcio): i loro allenamenti sono incontri, scambi di informazioni, dribbling nei confronti delle sacre ragioni del mercato. E per quanto riguarda la costellazione degli artisti, quell’universo apparentemente immerso nella propria incandescenza creativa? Sempre Parise ha detto che la “forza barbarica della terra che ha prodotto lavoro nei campi fino a ieri, ora produce lavoro nelle fabbriche”. Probabilmente non è più così, ma certamente la pazienza artigianale del fare, unita a quella discreta dell’essere connota molte delle ricerche venete attuali. In esse, infatti, prevale una forte attenzione all’aspetto formale, alla raffinatezza linguistica. Arthur Duff combina fili, intreccia nodi, ma solo per mettere in imbarazzo la nostra percezione. Ricama delle lettere che non portano a un’apparizione di senso, ma a una sua sparizione, dove il filo del pensiero denuncia continui vuoti, come quando un ricordo sfugge, una parola manca, una nozione non ci viene più incontro. Anche la veronese Laura Marchetti trapunta di diritto e di rovescio le superfici di una “carta da lucido”: ma non mira al ricamo, all’ornamento, alla consistenza di un’immagine, quanto alla sua perdita, alla smaterializzazione delle immagini stesse stampate sopra le superfici. Elisabetta Di Maggio, con gesti quasi sacrificali, incide con il taglierino carte su carte, ottenendo dei disegni che sembrano trasmigrare da una forma all’altra. “Sono motivi tratti da vecchi merletti” o da arabeschi orientali. “La materia che mi passa tra le mani è il tempo”, afferma l’artista: un tempo che si spazializza, che diventa muro, casa, arredo. Al tempo caduto, decaduto, polverizzato si rifanno anche gli estremi, grandi teleri del vicentino Silvano Tessarollo: resine e ceneri sciolte, mischiate, lavorate, fino a produrre una distesa dannata e impietosa, che allude a uno spazio senza inizio e senza fine. Andrea Contin invece, attraverso video, performance, fotografie mette in scena situazioni in bilico tra violenza e ironia, chiamando lo spettatore a divenire partecipe delle provocazioni visive a cui assiste. Andrea Galvani attua delle sottili operazioni di cancellazione/rivelazione: mostra figure, quasi sottratte allo sguardo, ma pronte ad attestare quell’energia ancestrale che è chiusa nelle loro forme. Con Anna Galtarossa e Sebastiano Zanetti lo sguardo viene spostato all’esterno, per costruire mondi visionari o per intervenire su piazze e stazioni. Infine Cristina Graziani attraversa con la sua pittura molti strati linguistici, dai film noir al reportage sociale, dai racconti surreali alle immagini pubblicitarie: a lei non interessa documentare la realtà, bensì crearla. In fondo sono tutti artisti che producono lavori di approfondimento, di analisi: lavori che richiedono tempi “lunghi” (di fattura e di visione), perché qualcosa torni ad appartenerci, a generare una nuova coscienza di noi stessi. Oggi.